Costantino dal mito imperiale alla Russia post-sovietica
Uno come me dovrebbe essere il primo a vedere in Costantino l’uomo che porta l’Ovest all’Est, qualcuno da mettere alla pari con Pietro il Grande […]. Per me, lo sforzo di Costantino è solo un episodio della generale spinta dell’Est verso l’Ovest, una spinta non motivata dall’attrazione che una parte del mondo prova per un’altra, né dal desiderio del passato di assorbire il futuro1.
Iosif Brodskij scriveva queste righe nel 1985 in Fuga da Bisanzio e, in una prospettiva che già il titolo dello scritto enunciava in modo eloquente, poneva la figura dell’imperatore romano sull’asse spaziale Est-Ovest, un asse denso di valenze ideologiche e culturali secondo un paradigma dialettico di confronto tra universi culturali e polarità ideologiche. È un asse decisivo per l’universo culturale russo, come ha osservato Jurij Michajlovič Lotman, secondo il quale l’incrinatura tra Oriente e Occidente «passa attraverso il cuore della cultura russa»2. La figura di Costantino, tra Roma e Costantinopoli, si è collocata su questa incrinatura, assumendo un’ambivalenza semantica, un carattere biassiale, corrispondente al tratto antinomico della cultura russa. D’altronde la dialettica Est-Ovest ha attraversato anche la vicenda bizantina, fin dalla sua fondazione a opera di Costantino. Sergej Sergeevič Averincev ha osservato che la cultura bizantina è stata occidentale-orientale, frutto dell’interscambio tra Grecia e Asia complicato dalla intercompenetrazione di continuità classica e di novità3. L’eredità di Costantino contiene un’altra biassialità insita alla formazione di un universo culturale, quello bizantino, che connetteva in una «bi-unità» l’Impero romano e la Chiesa cristiana4.
Se il cristianesimo e la concezione imperiale del potere sacro si incontrarono nell’epoca di Costantino venendo a costituire i due poli necessariamente complementari della coscienza sociale bizantina, la loro relazione va intesa come piuttosto contraddittoria. Il cristianesimo poté diventare il correlato spirituale dello stato autocratico – a tal punto paradossale è la logica della realtà –, proprio grazie alla sua estraneità morale a questo stato5.
L’analisi della figura di Costantino, del suo messaggio ideologico, del suo mito nella Russia da Pietro il Grande alla realtà postsovietica, non può non evocare una questione di fondo e di lungo periodo della storia e della cultura russe, ovvero quella del rapporto con Bisanzio e con il mondo bizantino, la cui eredità ideologica e religiosa dopo la caduta di Costantinopoli fu trasmessa principalmente all’universo culturale russo6.
Il tema della tradizione costantiniana si connetteva alla questione del paradigma di relazioni tra Chiesa e Stato, tra potere politico e potere religioso, che in seguito alle riforme petrine conobbe in Russia un’alterazione dell’originale modello di derivazione bizantina, per poi subire il ribaltamento della politica religiosa bolscevica dopo il 1917.
D’altro canto il riferimento a Costantino costituiva un orientamento anche in merito alla elaborazione del profilo del monarca russo e alla giustificazione ideologica del suo ruolo nello Stato e nella società russi. Costantino, quale archetipo dell’imperatore cristiano, costituì un modello anche per Pietro il Grande, pur nel quadro di un’operazione di riorientamento culturale da Bisanzio a Roma, che fu alla base del suo esperimento riformatore.
La fine dell’era costantiniana con il 1917 non ha significato la fine dell’influenza di una tradizione di cultura politica e di teologia politica che nel riferimento all’imperatore romano ha avuto uno dei suoi elementi costitutivi. C’è una storia in Russia di Costantino dopo l’era costantiniana.
La sostituzione a relazioni ostili di relazioni normali, giuridiche, tra Chiesa e Stato, la trasformazione della religione cristiana in religione di Stato è stato un evento che, pur riguardando nel suo elemento proprio solo il profilo esterno della Chiesa, è stato accompagnato da conseguenze così abbondanti, che non ha potuto non riflettersi anche nell’ordinamento interno delle relazioni ecclesiali7.
La centralità della conversione dell’imperatore romano Costantino al cristianesimo veniva sottolineata con queste parole dallo storico della Chiesa dell’Accademia teologica di Pietroburgo, Vasilij Vasil’evič Bolotov, nella sue Lezioni sulla storia della Chiesa antica pubblicate postume nel 1913. Il professore pietroburghese prendeva le distanze dalla rappresentazione della svolta costantiniana come inizio della decadenza della Chiesa, la cui responsabilità faceva risalire alla condanna senza appello di Costantino pronunciata da Gottfried Arnold. La conseguente divisione della vicenda storica del cristianesimo in due periodi contrapposti, separati dall’editto di Milano, l’uno tutto positivo e l’altro tutto negativo, non era accettabile dallo storico russo, alla luce di un’attenta considerazione critica dei processi storici, e anche per la sensibilità propria dell’universo religioso e culturale russo-bizantino.
La vita fresca, piena di forze ed energie degli antichi cristiani lascia il posto a un appassito bizantinismo; al posto di un’etica libertà il cesaropapismo, il despotismo all’esterno e all’interno; al posto di aspirazioni etiche ideali l’inseguimento dei beni materiali e del predominio all’esterno. Una tale visione, pure nella sua forma più aspra, è stata presentata anche sulla nostra stampa religiosa come la quintessenza della scientificità liberale8.
Bolotov era uno degli esponenti di maggior rilievo di una scuola storica che introduceva negli studi di storia della Chiesa in Russia le acquisizioni del metodo storico-critico. Era un filone di studi rilevante connesso alla fioritura di studi di bizantinistica, che aveva fatto della scuola russa a cavallo tra XIX e XX secolo una delle più vivaci a livello internazionale. In qualche modo l’approfondimento degli studi di storia della Chiesa secondo paradigmi epistemologici moderni avveniva proprio nel segno del bizantinismo. La rappresentazione negativa dell’età bizantina, che proveniva da non pochi ambienti culturali occidentali, non poteva certo essere accolta negli ambienti dell’ortodossia russa, che negli ultimi decenni del XIX secolo e all’inizio del XX individuavano proprio nell’abbandono della tradizione bizantina da parte di Pietro il Grande il motivo di una condizione di difficoltà per la Chiesa e in ultima istanza per l’impero zarista nel suo complesso. Tuttavia Bolotov poteva aggiungere:
Ma il teologo, che per i suoi principi confessionali vede nel periodo successivo a Costantino una nuova fase di sviluppo, quando la vita della Chiesa entra in forme non solo normali, ma a molti riguardi perfino esemplari, con piacere nota che adesso nella stessa letteratura protestante il punto di vista di Arnold si considera oramai arretrato9.
Il dibattito storiografico si intrecciava a una dialettica di carattere confessionale, che celava la diversa visione della storia della Chiesa maturata da universi religiosi e culturali differenti. Tuttavia ciò non impediva a Bolotov di compiere un’analisi critica delle fonti e della tradizione relativa a Costantino, in particolare della Vita di Costantino di Eusebio di Cesarea. Egli si soffermava sulla questione della conversione di quest’ultimo al cristianesimo, riguardo alla quale prendeva le distanze dalla tradizione e scriveva: «Lo stato d’animo religioso di Costantino era estremamente indefinito. […] La conversione al cristianesimo è stata per Costantino piuttosto una questione di politica che di convinzione religiosa. […] Costantino non si distingueva per la religiosità. Si è avvicinato al cristianesimo non in un batter d’occhio, ma piano piano»10. La tiepidezza religiosa di Costantino comportava, secondo Bolotov, la necessità di rintracciare i motivi del suo avvicinamento al cristianesimo in ragioni di carattere politico. Egli concludeva:
Tali erano le possibilità teoriche per lo sviluppo di relazioni corrette o non corrette tra la Chiesa e lo Stato. I rappresentanti di questa nuova alleanza sono, da una parte, un sovrano, che comprende il cristianesimo non in profondità, disposto a considerarlo come una forza politica che può diventare un solido fondamento del sistema politico […], credente senza forte entusiasmo, ma sinceramente […], dall’altra i credenti cristiani, con un’evidente coscienza, formatasi storicamente, della propria indipendenza dallo Stato11.
La posizione assunta da Bolotov, anche sulla scia dei lavori di Jacob Burckhardt e di Theodor Brieger, era sostenuta da un altro storico russo Anatolij Alekseevič Spasskij, professore di Storia della Chiesa antica presso l’Accademia teologica di Mosca, il quale nel 1905 aveva dedicato uno studio proprio alla conversione di Costantino12. La tesi di Bolotov fu contestata da Fëdor Afanas’evič Kurganov, che insegnava Storia della Chiesa presso l’Accademia teologica di Kazan’. In un suo volume, editato nel 1918, ma che raccoglieva saggi pubblicati sulla rivista Pravoslavnyj sobesednik negli anni precedenti, a partire dal 1913, aveva sostenuto, attenendosi alla tradizione eusebiana, che Costantino fin dal momento delle visioni della croce alla vigilia della battaglia contro Massenzio «si era schierato definitivamente dalla parte dei cristiani, era diventato un convinto cristiano»13. Egli criticava la posizione degli studiosi «protestanti, prevalentemente di orientamento razionalista», i quali mettevano in dubbio la visione tradizionale della conversione dell’imperatore, motivato nel suo atteggiamento verso il cristianesimo, a loro parere, primariamente da ragioni di ordine politico. Bolotov e Spasskij erano ricondotti dal loro collega di Kazan’ a questo filone interpretativo14. La disputa su Costantino toccava questioni di stringente attualità per la Russia di quel periodo.
L’occasione del XVI centenario dell’editto di Milano, nel 1913, era stata motivo in Russia di un picco di attenzione nei confronti della figura di Costantino, verso il quale si era già registrato un risveglio di considerazione a partire dalla seconda metà del XIX secolo nell’ambito dell’acceso dibattito tra liberali e conservatori che aveva attraversato il mondo intellettuale15. Kurganov pubblicò il testo del suo discorso pronunciato a Kazan’ in occasione della cerimonia celebrativa dell’anniversario dell’editto di Milano, un atto che aveva segnato «l’inizio di una nuova storia statale del mondo, una storia cristiana»16. Costantino aveva stabilito «la sacra alleanza dello Stato con la Chiesa» a cui i popoli d’Oriente e d’Occidente erano debitori della loro cristianizzazione e civilizzazione17. La posizione che Kurganov criticava era quella del rinnegamento dei principi costantiniani, posti sotto accusa sia in Occidente sia in Russia a opera dei sostenitori del pensiero liberale. Cosa fosse opportuno fare era indicato dallo storico con estrema chiarezza: «è necessario aggrapparsi con forza ai principi della costruzione ecclesiastico-statale, stabiliti dall’imperatore Costantino il Grande. Secondo tali principi è stata edificata, è cresciuta e si è rafforzata la Rus’ ortodossa, solo secondo tali principi essa può e deve ancora crescere e rafforzarsi»18.
Il dibattito che si era sviluppato sulla figura di Costantino nel 1913 ruotava attorno a una questione di grande rilievo per l’impero russo e per le sue prospettive di riforma. Infatti la figura dell’imperatore che aveva abbracciato il cristianesimo condensava in sé il complesso problema delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, tra il potere politico e il potere religioso. Era un tema fondamentale per uno Stato e una società, nei quali la religione aveva rappresentato, fin dall’inizio del loro itinerario storico nella Rus’ di Kiev, e continuava a rappresentare un fattore costitutivo di quella stessa esperienza storica. Non fu quindi un elemento accessorio del travaglio che conosceva in quegli anni l’impero russo il vivace confronto all’interno del mondo ecclesiale, intellettuale, politico, cioè all’interno della società russa, sulle possibili riforme della Chiesa e del suo rapporto con lo Stato. Il dibattito si era sviluppato in seguito ai sommovimenti politici che nel 1905 scossero gli equilibri dell’impero. L’ukaz imperiale sulla tolleranza religiosa del 17 aprile 1905 e la successiva legge del 17 ottobre 1906 avevano messo in moto un processo di rinnovamento della politica ecclesiastica e di trasformazione del panorama religioso dell’impero. La richiesta della convocazione di un concilio e di una riforma del sistema di relazioni tra Stato e Chiesa ortodossa si era diffusa anche tra le file dell’episcopato ortodosso19. In molti ritenevano che la Chiesa dovesse liberarsi dal sistema impostole all’inizio del XVIII secolo dalle riforme di Pietro il Grande, il quale aveva abolito l’istituzione patriarcale e aveva affidato il governo della Chiesa a un sinodo di vescovi presieduto da un alto funzionario di Stato di nomina imperiale, l’ober-prokuror. La Chiesa, da un punto di vista istituzionale, era stata equiparata a un ministero – Vedomstvo pravoslavnogo ispovedanija (dicastero della confessione ortodossa) era la denominazione ufficiale – e l’imperatore ne era il capo. Il risultato di quelle riforme era stata inequivocabilmente una sottomissione della Chiesa allo Stato20.
La riflessione su Costantino si collocava quindi al punto di convergenza delle differenti questioni che erano oggetto di confronto nel dibattito di quegli anni. Quale sistema di relazioni tra Chiesa e Stato aveva inaugurato Costantino? Il riferimento al modello costantiniano continuava a essere valido per il sistema sinodale inaugurato da Pietro il Grande? Ne costituiva un conseguente compimento nel senso di una sottomissione della Chiesa allo Stato? Oppure si era dinanzi a una deformazione della tradizione costantiniana, orientata a un’armonica cooperazione e alleanza tra le due entità? E quale doveva essere il rapporto della Chiesa con l’imperatore e dell’imperatore con la Chiesa? Quali le relazioni tra impero e religione? La questione di Costantino era quindi quella del modello di relazioni tra Chiesa e Stato. Su tale questione si concentrava anche l’attenzione di Bolotov, il cui interrogativo primario era di capire quali fossero i tratti qualificanti delle relazioni tra Chiesa e Stato durante il regno del primo imperatore cristiano, in altre parole come fosse realizzata la protezione della Chiesa da parte dello Stato. Il giudizio sulle prime mosse di Costantino non poteva che essere positivo. L’editto di Milano liberava la Chiesa dalle condizioni di minorità, aggravata dalle persecuzioni, in cui essa si trovava, senza alcuna forma di interferenza nella sua vita interna. Il primo episodio di interferenza avvenne su sollecitazione dei donatisti a motivo delle loro ripetute interpellanze all’imperatore contro le decisioni dei concili loro avverse. Il concilio di Nicea, con la condanna degli ariani, cui seguirono i decreti imperiali che stabilivano sanzioni penali nei confronti di coloro che il concilio aveva dichiarato eretici, segnò secondo lo storico pietroburghese l’atto con cui si oltrepassavano i limiti di una politica ecclesiastica «normale»:
Tra il diritto dello Stato di prestare collaborazione a quelle comunità religiose, che esso riconosce benefiche, e il diritto di punire coloro i quali deviano da queste comunità, solo per il fatto stesso della loro devianza, passa il confine indiscutibile, come sembra, di una normale politica ecclesiastica, che nel 325 fu violato21.
Bolotov intendeva mettere in discussione la concezione che aveva uno dei suoi fondamenti nella celebre autodefinizione di Costantino, ‘vescovo di quelli di fuori’, che lo storico pietroburghese riteneva apocrifa:
Le relazioni tra Chiesa e Stato, come si sono articolate durante il regno di Costantino, certamente non sono ideali. L’imperatore rinuncia alla condizione da lui assunta inizialmente, alla sua neutralità benefica per la vita della Chiesa, e si permette piuttosto frequentemente di interferire negli affari della Chiesa. Non essendone divenuto ancora un figlio, si comporta come il suo protettore, perfino come il suo capo. I suoi rapporti con essa non si limitano alla formazione di condizioni favorevoli alla sua esistenza. Ma è difficile dire se tale interferenza abbia conseguito nella sua coscienza un carattere giuridico. La sfera, in cui vive e opera Costantino il Grande, è assai favorevole per lo sviluppo del potere a scapito della Chiesa. Sembra che sia stata piuttosto la debolezza, che una comprensione sottile dello stato delle cose, ad avere guidato il comportamento della maggioranza delle persone al seguito di Costantino […]. L’imperatore ha incontrato poche barriere, e ci si può meravigliare non che abbia oltrepassato il confine che separa ciò che è di Dio da ciò che è di Cesare, ma che non lo abbia violato più spesso. […] Non è stato lui a formare con la sua influenza coloro che lo circondavano: erano stati scelti con voto libero da una Chiesa indipendente, e ciò che di non corretto è stato nelle relazioni che si andavano stabilendo, è dipeso non esclusivamente dalle imperfezioni personali di Costantino, ma anche dai difetti morali e intellettuali degli stessi membri della Chiesa22.
Un altro storico della stessa scuola pietroburghese di Bolotov, Aleksandr Ivanovič Brilliantov, richiamava alla necessità di formulare un giudizio equilibrato dell’alleanza tra Stato e Chiesa formatasi con l’imperatore romano, sulla base della considerazione sia delle «conseguenze positive» che delle «pagine oscure» della storia scaturita da quell’alleanza23. La figura di Costantino rappresentava un riferimento ideologico inevitabile alla riflessione sul rapporto tra Stato e Chiesa. Il giudizio sulla sua opera o la mitologia della sua personalità si rifletteva direttamente sulla visione del ruolo e della collocazione della Chiesa nella società russa, e, d’altro canto, sull’elaborazione del profilo che assumeva nella società la figura stessa del monarca. Kurganov, scriveva, infatti, nel suo volume sull’imperatore, che la personalità di Costantino, quale era stata delineata da Eusebio, era diventata il «modello di tutti i successivi imperatori pii nelle loro opere e nei loro atti nei confronti della Chiesa, almeno, degli imperatori bizantini»24.
L’idealizzazione di Costantino era funzionale alla consacrazione dell’ordinamento politico, ma anche culturale e religioso, dello zarismo. Il modello era bizantino; tuttavia, si trattava di una reinterpretazione russa di tale archetipo, secondo un paradigma ricorrente nell’universo culturale russo. Tale attitudine era a fondamento della convinzione in una particolarità dell’itinerario storico della Russia, di cui il principio dell’autocrazia era considerato uno dei perni.
La ricezione dell’eredità bizantina per quanto concerneva la concezione dello Stato e dell’impero non poteva non essere considerata un fondamento della costruzione di un’ideologia russa dell’impero cristiano25. Lev Aleksandrovič Tichomirov, uno degli ideologi del monarchismo russo di inizio Novecento, indicò in Costantino colui che aveva introdotto nell’universo politico l’idea stessa di monarchia cristiana, fonte del pensiero giuridico-politico di Bisanzio e quindi della Russia:
L’idea statale di Costantino il Grande consistette nel coniugare l’impero romano con un nuovo fattore storico: il cristianesimo. […] Costantino, come statista e discepolo cristiano ha saputo capire che queste due forze non solo si potevano unire, ma che la loro unione era egualmente necessaria ad entrambe. In questo consiste la sua grande idea, che mostra in Costantino uno di quei pochi geni storici che sanno aprire all’umanità una nuova linea di movimento e costruzione26.
Con Costantino finiva Roma e iniziava Bisanzio. Ma la reinterpretazione russa della concezione bizantina dell’impero continuò a essere l’asse portante dell’itinerario storico dello Stato zarista e della riflessione culturale su di esso dopo le riforme petrine? Non c’è dubbio che la visione ideologica di derivazione bizantina si dovette confrontare con le teorie dell’assolutismo monarchico di provenienza occidentale. Non era più la «simbiosi tra Stato e Chiesa», per dirlo con Marc Raeff, a essere il tratto qualificante prevalente della realtà russa, così come lo era stato nella Moscovia27. La cultura politica degli zar e delle élite moscovite era allora inserita «in una cornice etico-religiosa, in cui non comparivano concetti quali la sovranità, la legge naturale o il contratto sociale»28. Con Pietro il Grande ad atti legislativi emanati in nome dello zar e del patriarca succedeva l’affermazione di un carattere rigorosamente secolare della promulgazione di decreti e leggi da parte del monarca.
La politica riformatrice di Pietro aveva toccato il pilastro della concezione bizantina della monarchia cristiana, ovvero il rapporto tra lo Stato e la Chiesa. Gli interventi dello zar erano andati nel senso di una sottomissione della Chiesa allo Stato. Anton Vladimirovič Kartašëv, storico della Chiesa russa, procuratore del sinodo nei mesi del governo provvisorio nel 1917, emigrato dopo la rivoluzione e autorevole membro dei circoli della diaspora ortodossa russa a Parigi, ha sostenuto che con Pietro il Grande si sia concluso il periodo della storia russa fondato sul paradigma bizantino della sinfonia dei poteri, secondo il quale «lo Stato e la Chiesa sono un unico organismo in cui i sudditi vivono governati materialmente e moralmente da due poteri in accordo: dalla monarchia e dal clero»29. In Russia erano entrate le idee del diritto naturale e dell’assolutismo; con l’uso della violenza di Stato Pietro aveva abolito il sistema della sinfonia e con il suo Regolamento ecclesiastico del 1721 aveva introdotto «il principio protestante del territorialismo» e istituito il santo sinodo come organismo statale. Ma gli elementi estranei al paradigma bizantino introdotti da Pietro, secondo Kartašëv, erano stati bilanciati nella stessa azione del monarca riformatore e poi soprattutto in quella dei suoi successori dal ricorso ai principi tradizionali degli zar russi30.
L’interrogativo sull’eredità bizantina dello Stato russo restava alla base di un problema di fondo che le riforme petrine in una qualche misura avevano accentuato: la questione della legittimità del potere imperiale. Nella Moscovia la legittimità dello zar era fondata sulla trasmissione dell’eredità romano-bizantina e sulla conseguente concezione ieratica del potere del monarca. Nel trattato pubblicato nel 1722 Pravda voli monaršej (La giustizia della volontà del monarca), attribuito a Feofan Prokopovič, ecclesiastico ucraino di formazione occidentale e consigliere di Pietro I, il potere dello zar veniva legittimato sulla base di argomentazioni di carattere razionale corrispondenti a quelle con cui l’assolutismo monarchico era giustificato nella trattatistica dell’Europa occidentale seicentesca31. La figura del sovrano era presentata con un profilo non più di ordine ieratico, secondo la tradizione bizantina, quanto piuttosto di ordine pratico-funzionale.
In un celebre saggio del 1982 Lotman e Boris Andreevič Uspenskij rilevavano come i teorici dell’età petrina intendessero rifiutare l’esperienza storica della Rus’ e fare riferimento a un modello ideale tratto dall’antichità, e in particolare dall’antichità classica romana32. Le modifiche apportate nel 1721 al titolo ufficiale del sovrano, che assunse gli appellativi di ‘imperatore’, ‘Padre della patria’ e ‘Grande’, rinviavano alla tradizione romana; nelle medaglie coniate in occasione dell’incoronazione di Caterina I Pietro era raffigurato in vesti romane. Tuttavia i nuovi titoli del sovrano nel contesto russo non erano privi di ambivalenza. Quello di ‘Padre della patria’, il latino pater patriae, infatti, era un titolo che nell’universo culturale russo poteva essere applicato solo a un vescovo o preferibilmente a un patriarca. Esso fu percepito, anche in seguito all’abolizione del patriarcato, come l’autoproclamazione di un carattere spirituale della propria figura, confermato dal fatto che Pietro aveva ordinato di essere chiamato, a differenza dei suoi predecessori, solo con il nome senza patronimico, come avveniva per gli ecclesiastici33.
Il termine ‘zar’ era stato introdotto nella Rus’ come traduzione del termine greco ‘basileus’, che a Bisanzio aveva un doppio utilizzo: era il titolo dell’imperatore, ma allo stesso tempo era adoperato per indicare Cristo e i re veterotestamentari. Nel primo caso corrispondeva al latino imperator, mentre nel secondo a rex. Lo zar russo, come avveniva per i sovrani cristiani sia in Occidente che in Oriente, era appellato come ‘nuovo Costantino’ e come ‘nuovo Davide’: in questo secondo caso prevaleva l’equivalenza con il latino rex, mentre come nuovo Costantino la correlazione era con imperator34. Nell’interpretazione russa del modello bizantino prevaleva la valenza religiosa del titolo di zar, con l’assimilazione del sovrano non solo a Davide, ma a Cristo stesso, come era evidenziato in modo del tutto singolare e unico nel rito dell’unzione al trono del sovrano russo35. L’adozione del nuovo titolo di imperatore per Pietro I intendeva in qualche modo superare questa ambivalenza semantica del termine zar, con l’accentuazione della dimensione politica, in riferimento alla quale lo stesso termine zar aveva esclusivamente il significato di imperatore. Il richiamo a Costantino prevaleva su quello a Davide: lo zar era l’imperatore, sebbene il nesso fosse stabilito primariamente piuttosto con Augusto che con Costantino, il quale nondimeno permaneva come modello di riferimento nelle celebrazioni e nell’arte di corte, quantunque con una connotazione più classica romana che bizantina36.
Tuttavia, osservavano i due iniziatori della scuola di semiotica delle culture di Mosca-Tartu, il riferimento a Roma come «norma e ideale della potenza dello Stato era tradizionale per la cultura russa»37. L’idea di un legame di sangue tra la dinastia russa e gli imperatori romani era ricorrente anche nella cultura politica della Russia prepetrina. D’altronde sia il titolo di imperatore che quello di zar rinviavano entrambi allo stesso contesto storico-culturale della tradizione imperiale romana: tuttavia nel caso di zar con orientamento prevalente all’esperienza di Bisanzio e in quello di imperatore a Roma38.
Il riferimento a Roma presentava, quindi, un’ambivalenza, che non era stata estranea anche al periodo antecedente alle riforme petrine. La stessa ideologia di Mosca Terza Roma, se da una parte enfatizzava l’aspetto sacrale e teocratico dello Stato russo con diretto riferimento al modello bizantino, dall’altra poggiava sulla considerazione di Costantinopoli come seconda Roma, così da indicare nell’esperienza storica bizantina l’erede della potenza imperiale di Roma. L’ambivalenza era costitutiva del modello costantinopolitano come simbolo politico. In esso convergevano sia una tendenza a prevalenza religiosa, che una a predominanza politica.
Così il simbolo di Bisanzio in qualche modo si scompone in due immagini simboliche: Costantinopoli viene compresa come nuova Gerusalemme, città santa, teocratica, e allo stesso tempo come nuova Roma, capitale imperiale, statale del mondo. Entrambe queste due idee trovano incarnazione nella concezione di Mosca come nuova Costantinopoli o terza Roma, che appare dopo la caduta dell’impero bizantino39.
In un nuovo contesto culturale e geopolitico, quale si era venuto formando alla fine del XVII secolo, di fronte a Mosca si poneva, secondo Lotman e Uspenskij, la scelta tra due vie: essere nuova Gerusalemme o essere nuova Roma. Tuttavia essi rilevano che l’ideologia di Mosca Terza Roma continuava a influire a livello delle decisioni politiche e a restare un riferimento di carattere semiotico. Pur nella scelta di un orientamento culturale che si spostava da Bisanzio a Roma, e quindi potremmo dire dall’Oriente all’Occidente, la Russia di Pietro restava collocata in una prospettiva biassiale, di cui l’ambivalenza del riferimento a Roma era a suo modo espressione. L’ambivalenza concettuale tra un orientamento prevalentemente religioso e uno a predominanza politica assumeva in un universo culturale con una forte impronta spaziale, quale quello russo, la dialettica di due polarità di carattere geografico Oriente e Occidente. È in questa polarità e ambivalenza che occorre collocare anche il filo rosso che lega la figura di Costantino alla vicenda dell’universo culturale russo, attraversato nella sua stessa natura costitutiva dalla dialettica Oriente-Occidente. Costantino è figura biassiale, ambivalente. Costantino richiama alla tradizione imperiale di Roma e allo stesso tempo a quella teocratica bizantina. È l’ambivalenza dell’ideologia Mosca Terza Roma che ritroviamo nella stessa esperienza di Pietro il Grande, che pur riformulando l’orientamento culturale dell’universo russo si muove nello stesso spazio semantico dualistico.
Una simile ambivalenza può essere riscontrata nella decisione di Pietro di costruire la nuova capitale. Il sovrano volle costruire una capitale, il cui riferimento non fosse Bisanzio, ma Roma. San Pietroburgo venne pensata e costruita come una nuova Roma, a partire dalla stessa scelta del nome. Tuttavia già questa scelta si prestava a un’ambivalenza: infatti il toponimo, nella sua formulazione russa di Sankt-Peterburg, può essere letto sia come «la città di san Pietro» che come «la città santa di Pietro». La scelta per l’archetipo romano, senza la mediazione bizantina, cioè per un prototipo di capitale in cui prevalesse l’aspetto della potenza imperiale, rispetto a quello sacrale, in realtà non annullava il ricorso alla dimensione sacrale, religiosa40. Il rapporto tra dimensione religiosa e dimensione politica non veniva meno, si modificava il carattere della loro relazione: «L’autenticità di Pietroburgo come nuova Roma consiste nel fatto che la santità in essa non prevale, ma è sottomessa alla statualità. […] La santità di Pietroburgo è nella sua statualità»41.
Sebbene nei primi panegiristi di Pietro il Grande i modelli del passato che prevalentemente si associavano alla sua personalità fossero l’apostolo Pietro e l’imperatore Augusto, la fondazione di una nuova Roma conteneva in sé evidentemente il rinvio alla figura di Costantino. Era un riferimento che era a consacrazione di un legame tra potere imperiale e sacralità religiosa che, pur modificato, restava un tratto costitutivo dell’universo culturale, religioso e politico russo. Pietro era anche un nuovo Costantino e la sua sepoltura nella cattedrale dei santi Pietro e Paolo conferiva alla città un carattere di sacralità. Ha osservato Marina Sergeevna Kisilëva, che con la sepoltura dell’imperatore San Pietroburgo veniva inserita a pieno titolo nella tradizione delle città sacre cristiane. Come per Roma era la tomba di Pietro a garantirne la sacralità, e per Mosca lo status di custode dell’ortodossia era stato acquisito con la traslazione nella cattedrale della Dormizione al Cremlino delle spoglie del metropolita russo Pëtr, così per la nuova capitale imperiale era la tomba di un altro Pietro a conferirle pienamente un profilo sacrale. Sull’esempio di Costantino, che a Costantinopoli aveva fatto erigere la chiesa dei Santi Apostoli come luogo della sepoltura sua e dei suoi discendenti, Pietro aveva voluto che la cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, da lui fatta costruire, sostituisse quella dell’Arcangelo Michele al Cremlino di Mosca, fino ad allora mausoleo degli zar. Si era venuto così a formare nella nuova capitale, grazie a un rinvio di simboli e riferimenti intellegibili nel quadro dell’universo culturale russo, il fondamento saldo «dell’unione della storia imperiale secolare, di quella universale cristiana e di quella patria»42. La costruzione di San Pietroburgo era stata anche un processo di creazione di uno spazio sacro: a suo modo avevano influito elementi del paradigma della ierotipija, per dirlo con Aleksej Michajlovič Lidov, secondo un modello radicato negli universi culturali bizantini43.
Le riforme petrine erano state percepite dai contemporanei come l’inizio di una nuova fase della storia russa, analogo a quello compiuto dal gran principe di Kiev Vladimir, nel X secolo, con la conversione al cristianesimo. Il confronto con Vladimir costituiva un altro dei riferimenti ricorrenti a proposito di Pietro. Esso conteneva i presupposti per il riferimento a Costantino, che fin dagli scritti del metropolita Ilarion e dalle antiche cronache era associato al gran principe di Kiev che si era fatto cristiano44. È stato Ivan Ivanovič Golikov, storico russo della seconda metà del XVIII secolo e primo biografo di Pietro, a ricostruire la vicenda di Pietro il Grande in parallelo con quella di Costantino, nella sua opera panegiristica in due volumi Sravnenie svojstv i del Konstantina Velikogo so svojstvami i delami Petra Velikogo (Confronto delle caratteristiche e delle opere di Costantino il Grande con le caratteristiche e le opere di Pietro il Grande), pubblicata postuma a Mosca nel 1810.
L’opera di Golikov era fondata su un lavoro preliminare di un ecclesiastico, l’arciprete della cattedrale dell’Arcangelo Michele al Cremlino a Mosca, Pëtr Alekseevič, che sulla base degli scritti di storici della Chiesa antica, da Eusebio di Cesarea a Baronio, aveva individuato una serie di tratti che riteneva comuni tra la figura di Pietro e quella di Costantino45. Il parallelo tra le due personalità viene condotto in qualche modo nel quadro di una ricomposizione tra la interpretazione politica del ruolo dell’imperatore data da Pietro e una visione tradizionale di carattere primariamente religioso della figura del sovrano di cui Costantino era il modello. Il conflitto tra Pietro il Grande e i vecchi credenti o le componenti più conservatrici della Chiesa ortodossa era equiparato a quello tra Costantino e i pagani46. Analogamente le vicende dei donatisti e dell’arianesimo erano assimilate a quelle dello scisma dei vecchi credenti47. La convocazione del concilio di Nicea per risolvere le questioni teologiche sollevate dall’insegnamento di Ario costituiva poi l’analogo dell’abolizione del patriarcato operata da Pietro per introdurre «un governo conciliare della Chiesa russa», con l’istituzione del Santo Sinodo48.
Il tentativo di Golikov era evidentemente quello di stabilire un legame di tipo sacrale tra Pietro e Costantino, suggellato dall’aiuto divino che avrebbe accompagnato il sovrano russo nelle sue battaglie contro i nemici interni ed esterni. La battaglia di Poltava contro l’esercito svedese guidato dal re Carlo XII nel 1709 fu in questo senso l’analogo di quella di ponte Milvio contro Massenzio: un proiettile colpì il sovrano russo sul petto, ma fu fermato da uno scrigno con la croce di Costantino appeso al suo collo49. Alla metà del XVII secolo nell’élite politica russa si era diffuso il ricorso a simboli e idee connessi a Costantino il Grande, per rinnovare l’armamentario ideologico e simbolico volto a rafforzare la legittimità della dinastia Romanov in una fase di espansione militare. Il legame diretto con gli imperatori bizantini, in questo contesto, e con il primo di essi soprattutto, costituiva la principale fonte di legittimità per gli zar, fondata sulla translatio imperii. La reliquia della croce di Costantino, che nell’universo religioso russo univa in sé sia il racconto del ritrovamento della reliquia della croce a Gerusalemme da parte della madre di Costantino Elena che quello del segno issato da Costantino nel giorno della battaglia di ponte Milvio dopo la visione avuta nel sonno, ebbe una particolare centralità in questa operazione politico-religiosa. Nel 1655 una delegazione di monaci greci dal monastero di Vatopedi sul Monte Athos portò, infatti, a Mosca la reliquia della croce, che i sovrani russi trattennero e conservarono nella cattedrale della Dormizione al Cremlino, fino a che nel 1812 durante l’occupazione napoleonica se ne persero le tracce50. Golikov realizzava una giuntura di grande significato simbolico e ideologico con la tradizione prepetrina, che nella reliquia della croce di Costantino aveva visto uno dei simboli del potere imperiale di maggior rilievo ideologico: lo zar russo era l’unico che aveva il diritto di conservare tale reliquia che lo metteva in diretto contatto con il primo imperatore cristiano, in quanto erede del basileus bizantino e quindi difensore della fede ortodossa e della vera Chiesa.
Tuttavia l’interpretazione che veniva proposta dell’azione di Costantino nei confronti della Chiesa era funzionale alla politica ecclesiastica adottata da Pietro il Grande. Entrambi i sovrani dovettero, secondo Golikov, affrontare gli eccessi della «vanità» e del «potere» delle gerarchie ecclesiastiche, nel caso di Costantino per quanto aveva riguardato le vicende dell’arianesimo, in quello di Pietro per l’umiliazione del potere degli zar ad opera dei patriarchi. Significativamente i tre esempi che l’autore adduceva quali prove di tale prevaricazione del potere ecclesiastico su quello del sovrano erano di carattere liturgico, pienamente all’interno di un quadro di pensiero religioso e politico di derivazione bizantina51. Il compito assegnato allo zar di porgere al patriarca l’asciugamano nel rito della lavanda dei piedi il giovedì santo, e quello di reggere le redini dell’asino o del cavallo bardato da asino sul quale il patriarca svolgeva la solenne processione della domenica delle Palme dalla piazza rossa alla cattedrale della Dormizione52, costituivano, insieme alle modalità con cui il monarca faceva la comunione, le manifestazioni della brama di potere ecclesiastico che aveva indotto Pietro a sopprimere l’istituto del patriarcato, non prima di avere abolito il rito della domenica della Palme. È di un qualche interesse, ai fini del nostro tema, rilevare che il rito russo differiva da quello greco che si svolgeva a Bisanzio, dove non partecipava l’imperatore: il rito in Russia aveva acquisito un particolare significato relativamente al rapporto tra potere secolare e potere religioso. A determinare il ruolo rituale dello zar russo aveva contributo la Donatio Constantini Magni, in cui si narrava che Costantino, come segno di rispetto al potere ecclesiastico, aveva condotto per le briglia il cavallo sul quale sedeva papa Silvestro e aveva dato disposizione ai suoi successori di fare altrettanto. Il riferimento a Costantino si collocava quindi lungo l’asse della relazione tra potere religioso e potere politico, che ha costituito una costante della vicenda storica della Russia non solo in età medievale, ma anche in quelle moderna e contemporanea.
Tali rapporti hanno conosciuto una loro evoluzione. Pietro il grande ha introdotto modifiche rilevanti. Tuttavia, sebbene si fosse registrata l’introduzione di elementi di evidente derivazione occidentale, il quadro di riferimento restava quello di origine bizantina, nel cui contesto la figura dell’imperatore conservava un suo profilo ecclesiastico e sacrale, che non poteva non rinviare al primo imperatore cristiano, isapostolo e «vescovo di quelli di fuori», ma anche pontifex maximus secondo la tradizione romana. E a entrambi i titoli costantiniani faceva riferimento Golikov nello stabilire il parallelo con l’assunzione da parte di Pietro il Grande del titolo di capo della Chiesa53. Questo aspetto ecclesiastico e sacrale della figura dell’imperatore risaliva a Bisanzio e a Costantino, ovvero alla teologia politica elaborata sulla sua figura da Eusebio di Cesarea54.
Nel contesto russo l’aspetto liturgico di tale concezione aveva acquisito una rilevanza primaria. Assume rilievo, quindi, tra le questioni sollevate da Golikov quella riguardante le modalità con cui lo zar faceva la comunione in presenza del patriarca. Dalla metà del XVII secolo, lo zar, quanto meno nella liturgia della sua incoronazione, si comunicava all’altare, a cui si avvicinava entrando attraverso le porte regali dell’iconostasi, e, seguendo le modalità con cui si comunicavano gli officianti, consumava separatamente il pane e il vino, mentre ai laici il pane e il vino venivano offerti insieme nel cucchiaio; tuttavia lo zar si comunicava al modo dei diaconi e non a quello dei preti, cioè non da solo ma ricevendo le specie sacre dal patriarca. Era una modalità che rispecchiava lo status liturgico dell’imperatore bizantino, equiparato a quello del diacono. Era la stessa modalità utilizzata al momento dell’ascesa al trono di Pietro ed era manifestazione del particolare status sacrale del monarca nella Chiesa russa, datogli dall’unzione55. L’unzione che era conferita al monarca all’atto dell’incoronazione costituiva «una particolare consacrazione» della sua persona, da cui discendevano particolari privilegi, tra i quali quello sulle modalità della comunione, che lo ponevano alla pari dei ministri sacri, tanto da far concludere a un canonista russo che «il potere imperiale fosse un istituto non solo di diritto statale, ma anche di diritto ecclesiastico»56.
Golikov lamentava che il monarca fosse equiparato al diacono nel rito della comunione. Egli scriveva la sua opera negli anni del regno dell’imperatore Paolo I, il quale aveva introdotto delle modifiche a tale rito. Il sovrano aveva voluto far rimarcare lo status di capo della Chiesa acquisito dall’imperatore dopo l’abolizione del patriarcato. Paolo, infatti, si comunicava da solo direttamente al calice, come esclusivamente il primo dei celebranti, ovvero l’ecclesiastico di più alto rango, poteva fare57. Il profilo liturgico e sacrale del monarca permaneva anche nella fase imperiale della storia russa, come un tratto fondamentale della stessa legittimità dell’imperatore, quale monarca cristiano.
Nel 1913, un anno particolarmente rilevante per la riflessione sulle caratteristiche dello Stato imperiale russo, proprio alla vigilia del suo crollo, fu pubblicato a Odessa un importante volume di Pëtr Evgenevič Kazanskij, studioso di diritto internazionale di orientamento conservatore, dal titolo Vlast’ Vserossijskogo Imperatora (Il potere dell’imperatore russo)58. L’aspetto ecclesiastico e spirituale del potere dell’imperatore era messo in evidenza dal giurista russo, che a tal proposito citava l’articolo 64 della raccolta delle leggi fondamentali dell’impero: «L’imperatore, in quanto monarca cristiano, è il supremo difensore e custode dei dogmi della fede dominante e il tutore dell’ortodossia della fede e di ogni aspetto di un degno ordine nella vita della Chiesa. In questo senso l’imperatore nell’atto di successione al trono del 5 aprile 1797 è denominato Capo della Chiesa»59. Kazanskij cercava di precisare il senso in cui si dovesse intendere quanto dichiarato nelle norme giuridiche. L’imperatore russo non era capo della Chiesa al modo dei re di Inghilterra o dei sovrani di Stati protestanti né era Summus Episcopus. Non aveva ruolo nel definire i contenuti della fede, ma ne era il difensore. Erano le competenze del governo della Chiesa a costituire la sostanza dei diritti del monarca in quanto capo della Chiesa, senza autorità sugli aspetti dogmatici e liturgici. Era la potestas Iurisdictionis, per utilizzare una categoria del diritto canonico cattolico, a essere oggetto del potere imperiale nella vita della Chiesa, come sottolineava un canonista russo di inizio Novecento60. Tuttavia occorre rilevare come tra le competenze dell’imperatore fosse, senza alcun dubbio secondo Kazanskij, quella di convocare il concilio locale russo, che poteva essere riunito solo con un decreto imperiale, e di promulgare i decreti attuativi delle decisioni del concilio, in continuità con la tradizione bizantina61.
Kazanskij segnalava come uno degli argomenti maggiormente utilizzati a sostegno delle prerogative del potere imperiale nella vita della Chiesa fosse l’eredità storica che l’impero russo aveva ricevuto da quello bizantino: gli imperatori russi erano i successori di quelli bizantini. Era un tema che aveva conosciuto negli ultimi decenni del XIX secolo una notevole crescita di attenzione. Tichomirov lo aveva sottolineato con forza:
Lo zar russo è più che un erede dei suoi antenati: egli è il successore dei cesari della Roma orientale, organizzatori della Chiesa e dei suoi concili, che hanno stabilito lo stesso simbolo della fede cristiana. Con l’eredità di Bisanzio Mosca si è elevata ed è iniziata la grandezza della Russia. Ecco dov’è il segreto di quella singolarità profonda per la quale la Russia si distingue tra gli altri popoli del mondo62.
D’altro lato Kurganov, nel suo discorso celebrativo del XVI centenario dell’editto di Milano, interpretava la definizione dell’imperatore romano come ‘vescovo di quelli di fuori’ in modo del tutto compatibile con le funzioni attribuite al monarca russo come capo della Chiesa, quali erano definite dalla riflessione giuridica del tempo63. Per un giurista, come Kazanskij, l’eredità bizantina naturalmente non poteva avere validità cogente: rilevava l’eredità storica di un’idea, senza però acquisire il valore di fondamento giuridico dell’esercizio del potere imperiale come capo della Chiesa. Tale fondamento era da rintracciare nelle leggi fondamentali dell’impero russo, che da un punto di vista formale-giuridico avevano reso la Chiesa ortodossa parte dell’ordinamento statale, «dicastero della confessione ortodossa» come era denominata nel linguaggio ufficiale dell’impero.
Il riferimento all’eredità bizantina aveva assunto nel corso del XIX secolo una rilevanza notevole in correnti diverse del pensiero russo. A metà del XIX secolo Fëdor Ivanovič Tjutčev, scrittore e poeta romantico, individuava nella forma imperiale la realizzazione della monarchia universale, che era arrivata al suo compimento con Costantino, grazie al quale aveva avuto inizio l’impero cristiano. La Russia come erede di Bisanzio aveva ricevuto il diritto a uno sviluppo imperiale: «L’impero legittimo è rimasto legato all’eredità di Costantino»64. Dichiararsi eredi di Costantino, e Tjutčev considerava lo zar Nicola I legittimo successore di Costantino, voleva dire affermare che la Russia era erede dell’Impero romano:
Che cosa è l’impero orientale? – scriveva Tjutčev – È l’erede diretto e legittimo del potere supremo dei Cesari. È il potere supremo pieno e intero, che non proviene, non sgorga, a differenza del potere dei monarchi occidentali, da nessun’altra forza esterna, ma che ha in se stesso i fondamenti della sua signoria, per giunta ordinato, frenato e consacrato dal cristianesimo65.
La corrente slavofila all’interno del mondo russo favoriva nella seconda metà dell’Ottocento la nascita di una ideologia bizantina, il cui principale esponente fu Konstantin Nikolaevič Leont’ev, teorico del bizantinismo. Il richiamo all’eredità bizantina diveniva una piattaforma ideologica a supporto dell’impero. Il riferimento a Costantino continuava a essere fondante la legittimità del potere imperiale russo. Ma anche era alla base di un’idea di ordinamento dello Stato e della società fondato sull’unione organica tra potere politico e potere religioso. Nella sua visione della storia Vladimir Sergeevič Solov’ëv, alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo, affidava alla monarchia russa, che riteneva erede di Costantino, il compito storico di «riprendere con migliori speranze l’opera di Costantino», vale a dire di «fornire alla Chiesa Universale il potere politico che le è necessario per salvare e rigenerare l’Europa e il mondo»66.
L’aspetto giuridico-burocratico che le relazioni tra Stato e Chiesa avevano assunto nell’impero russo a partire dalla riforme di Pietro il Grande, in un quadro di evidente sottomissione degli organi ecclesiastici a quelli statali, non risolveva il significato sacrale che la relazione dell’imperatore con l’ortodossia proiettava sulla figura dello zar russo. Kazanskij concludeva il capitolo dedicato alle funzioni di governo della Chiesa attribuite all’imperatore rilevando «l’enorme significato» che aveva il rapporto del sovrano con l’ortodossia, tanto da fare del potere degli zar «una delle più grandi forze spirituali del cristianesimo nella storia»67. L’appartenenza all’ortodossia, oltre a essere una condizione necessaria anche giuridicamente per l’ascesa al trono, tanto che era previsto dalle leggi dello Stato che nella cerimonia di incoronazione il sovrano pronunciasse ad alta voce rivolto al popolo il credo della Chiesa ortodossa, costituiva un fondamento dell’unione tra lo zar e il popolo, che aveva il suo cemento proprio nel comune sentire religioso68. Tale dimensione propriamente religiosa del potere imperiale era alla base di quanto l’articolo 5 delle leggi fondamentali proclamava: «La persona del Sovrano Imperatore è sacra e inviolabile». Il carattere sacrale della figura dello zar costituiva un tratto che caratterizzava in profondità il potere imperiale in Russia. Lo rilevava una delle figure più significative del conservatorismo russo negli anni di Alessandro II e III, Michail Nikiforovič Katkov: «Per il popolo, che costituisce la Chiesa ortodossa lo zar russo è oggetto non semplicemente di onore, di cui ha diritto ogni potere legittimo, ma di sentimento sacro in virtù del suo significato nella edificazione della Chiesa»69.
Il profilo religioso e sacrale dello zar russo restò vivo fino alla vigilia delle trasformazioni rivoluzionarie del 1917, come ha osservato Sergej L’vovič Firsov: «resta indubitabile che allo zar si guardava attraverso un prisma religioso, considerandolo prima di tutto un leader religioso del paese, e solo dopo come “il padrone della terra russa”»70. Era la tendenza profonda dell’universo culturale e religioso russo a «una teocrazia storico-sacrale»:
la figura dello zar russo paradossalmente si sdoppiò – scriveva nel 1945 Kartašëv con riferimento al periodo postpetrino –. Sia nella lettera delle leggi fondamentali, sia nelle sue azioni egli appariva ora un monarca assoluto secolare, ora un basileus teocratico. La Chiesa, che invariabilmente secondo l’antico rituale bizantino ungeva il suo zar, lo considerava esclusivamente dal punto di vista monistico orientale come re biblico carismatico, guida del popolo cristiano della Chiesa, del Nuovo Israele, di una teocrazia ortodossa neotestamentaria71.
Il metropolita di Mosca Filaret (Drozdov), grande figura dell’ortodossia russa ottocentesca, aveva scritto nella prima metà del XIX secolo: «Dio, a immagine della sua unità celeste ha istituito sulla terra lo zar; a immagine della sua onnipotenza lo zar autocrate; a immagine del suo regno imperituro, che continua di secolo in secolo, lo zar ereditario»72. Sergej Bulgakov, che proveniva dalle posizioni di «nemico irriducibile» della monarchia e che non ha mai avuto simpatie politiche di orientamento monarchico, in uno scritto autobiografico ha offerto una lettura del suo rapporto con lo zar nei termini di un «amore mistico»: «io non potevo e non volevo amare niente come l’autocrazia zarista, lo Zar, come il potere statale mistico, sacro»73. La sua fu «una conquista interiore» la cui forza gli venne offerta dall’ortodossia, che permise l’acquisizione dell’«idea della sacralità del potere monarchico», «in nuce la natura suprema del potere, non in nome proprio ma in nome di Dio»74.
La sacralità dello zar rinviava a un’altra dimensione che distingueva la figura del sovrano come si era venuta delineando nel corso dell’itinerario storico della Russia. Infatti lo zar si presentava come un monarca dotato di un particolare carisma. Bulgakov, nella sua opera di presentazione dell’ortodossia, ha scritto che la Chiesa riversava sull’imperatore, sovrano cristiano, «i suoi doni nella sacra unzione al trono imperiale e amava il suo unto non solo come capo dello Stato, ma come portatore del particolare carisma dell’esercizio del potere imperiale»; lo zar nella Chiesa era onorato come «carismatico particolare», «carismatico del potere»75. Uspenskij ha osservato come il rito dell’unzione dello zar avesse acquistato a Mosca una caratterizzazione diversa dagli analoghi gesti liturgici che avvenivano nelle cerimonie di incoronazione dei sovrani a Bisanzio e in Europa occidentale: l’unzione veniva a identificarsi con il crisma e si ripetevano gesti e formule del rito della cresima, nonostante il divieto canonico di iterare i sacramenti76. Il sovrano riceveva come un «supplemento» di sacramento, che supportava in modo particolare il senso di sacralità attribuito alla persona dello zar e alla sua funzione: «La ripetizione dell’unzione indica, quindi, che dopo l’incoronazione lo zar acquisisce un nuovo status, diverso da quello di tutti gli altri uomini. [...] Di conseguenza, l’incoronazione e l’unzione al trono determinano la concezione, specifica per la Russia, di un particolare carisma dello zar»77. La riflessione del semiotico russo si estende anche alla figura del patriarca che nella tradizione russa presenta segni analoghi di un supplemento di carisma:
Le funzioni amministrative del capo dello Stato e del capo della Chiesa (dello zar e del patriarca), che a Bisanzio erano definite da speciali istituzioni giuridiche, sono recepite in Russia come manifestazione di un carisma particolare: il carisma del potere. Così un potere di carattere giuridico si trasforma in un potere di carattere carismatico: la sinfonia dei poteri si traduce in una sinfonia di carismi78.
Quando l’imperatore ortodosso abdicò e il potere autocratico cessò di esistere, la Chiesa restò priva del suo capo. Il metropolita Evlogij (Georgievskij), allora arcivescovo di Volinia, ha riferito nelle sue memorie quale fosse lo stato d’animo che la notizia dell’abdicazione provocò in lui, come anche negli ecclesiastici e nei fedeli a lui vicini:
A sera arrivò l’annuncio, simile allo scoppio di una bomba: il Sovrano aveva abdicato al trono… Tutti erano smarriti, nessuno si decideva a credere alla notizia. […] la mia anima era pesante. Probabilmente erano molti a provare la stessa sensazione. Il manifesto dell’abdicazione del Sovrano fu letto nella cattedrale; lo leggeva il protodiacono e piangeva. Tra i fedeli molti singhiozzavano. A una vecchia guardia comunale le lacrime scendevano a fiotti79.
La Chiesa si ritrovò orfana di quel sistema ideale entro il quale si era fino allora pensata, che si fondava sulla sacralizzazione del monarca ortodosso, unto dalla Chiesa con il crisma al momento dell’incoronazione. «Il vecchio mondo, il mondo dell’impero russo, il mondo della tradizione bizantina, risalente a Costantino il grande – ha scritto Vladimir Losskij –, quel mondo, che sembrava a molti essere il mondo proprio del cristianesimo, improvvisamente è crollato fino alle fondamenta, e al suo posto è apparso un nuovo mondo, esterno al cristianesimo»80.
Con l’avvento al potere dei bolscevichi, nell’ottobre 1917, iniziava la nuova fase sovietica della storia russa, che programmaticamente perseguiva il fine di distruggere il «vecchio mondo» e costruirne uno nuovo. Ciò avveniva, mentre la Chiesa russa, che aveva ottenuto dal governo provvisorio dopo il febbraio il consenso, a lungo negato dallo zar, alla convocazione del concilio locale, iniziava un processo di emancipazione dalla sottomissione allo Stato e ripristinava una forma di governo canonicamente regolare con il ristabilimento del patriarcato e l’elezione del nuovo patriarca, Tichon (Bellavin). Il processo conciliare della Chiesa russa avveniva anch’esso fuori del paradigma costantiniano: era stato possibile convocare il concilio solo senza l’imperatore, perché la sua presenza ne impediva la convocazione; il ristabilimento del patriarcato avveniva anch’esso senza lo zar violando «la correlazione tradizionale per la Russia, secondo la quale la presenza dello zar determina la presenza del patriarca»81.
Tuttavia la visione dei rapporti tra Chiesa e Stato cui gli ortodossi russi continuavano a restare legati era ancora in molto dipendente dalla tradizione bizantina, pur nelle varianti che la storia russa aveva elaborato. Infatti, nel complesso erano prevalenti all’interno della Chiesa le opinioni contrarie a un’eventuale separazione fra Stato e Chiesa. Il congresso panrusso del clero e dei laici riunitosi all’inizio di giugno del 1917 a Mosca, animato da propositi di riforme radicali e di democratizzazione della vita ecclesiale, pur avendo in un suo messaggio espresso il proprio appoggio alla rivoluzione, si era dichiarato contrario alla separazione82. Bulgakov, che pur salutava con favore la liberazione della Chiesa dal giogo statale, scriveva che «all’idea di un potere sacro e di un ordinamento statale cristiano la Chiesa per principio non rinunciava»83. Il 2 (15) dicembre 1917 il concilio approvò un documento sulla condizione giuridica della Chiesa elaborato con il contributo determinante dello stesso Bulgakov, la cui tesi portante era che la Chiesa ortodossa in Russia dovesse essere «in unione con lo Stato, ma a condizione della sua libera autodeterminazione interna»84. Il documento rivendicava alla Chiesa ortodossa la condizione di primus inter pares fra le confessioni religiose dello Stato russo e tutti i diritti della personalità giuridica. Inoltre prescriveva che il capo dello Stato, il ministro delle confessioni religiose e quello dell’istruzione dovessero essere ortodossi, che le scuole gestite dalla Chiesa dovessero essere riconosciute dallo Stato, che l’insegnamento della religione dovesse essere impartito ai figli di genitori ortodossi anche nelle scuole statali85.
L’ortodossia russa dovette scontrarsi con una realtà politica antitetica a tali propositi del documento conciliare. Il decreto di separazione della Chiesa dallo Stato e della scuola dalla Chiesa approvato dal governo bolscevico il 20 gennaio (2 febbraio) 1918 segnò l’inizio di una nuova pagina nelle relazioni del potere politico nei confronti della Chiesa ortodossa, e della religione nel suo complesso. Esso segnò l’inizio della politica persecutoria dei bolscevichi nei confronti della Chiesa ortodossa. La grande Chiesa russa fu investita da un’ondata persecutoria di intensità e di durata per molti versi inedite. Le repressioni provocarono tra gli ortodossi russi, secondo stime attendibili, almeno un milione di vittime solo per motivi religiosi. Le persecuzioni furono sanguinose e distruttive, soprattutto negli anni Venti e Trenta86.
Con il decreto di separazione fu lacerata quella unione fra Stato e Chiesa, che aveva rappresentato una costante della storia russa. «Separare lo Stato russo dalla Chiesa significa separare il popolo dalla sua coscienza»: era questa l’opinione diffusa fra le gerarchie ecclesiastiche in quei giorni87. Il decreto, come ha sottolineato Vladislav Cypin, «non solo attestò la rottura della plurisecolare unione di Chiesa e Stato ma costituì anche la copertura giuridica della persecuzione contro la Chiesa»88.
Nel 1913 era stato pubblicato un articolo di un professore dell’Accademia teologica di Mosca, l’archimandrita Ilarion (Trojckij), in occasione del XVI centenario dell’editto di Milano, dal significativo titolo Cerkov’ gonimaja i Cerkov’ gospodstvujuščaja (Chiesa perseguitata e Chiesa dominante). Ilarion sarebbe stato uno dei protagonisti del concilio del 1917-1918, dove avrebbe sostenuto con particolare passione la causa del ristabilimento del patriarcato. Divenuto vescovo e uno dei più stretti collaboratori del patriarca Tichon, fu vittima delle repressioni e, dopo lunghe detenzioni, anche nel lager delle Isole Solovki, morì nel 1929 nell’ospedale della prigione di Leningrado. Il suo ragionamento si sviluppava a favore dell’autonomia della Chiesa dallo Stato, sebbene restasse nel solco della tradizione bizantina:
Con la Chiesa cristiana entrava nel mondo una religione che non si sottomette allo Stato e non si confonde con esso, ma sostiene il potere legittimo, onorandolo come istituzione divina. Da quel momento si apriva la possibilità di nuove relazioni tra lo Stato e la religione, la possibilità di un’alleanza tra la Chiesa e lo Stato89.
Secondo Ilarion l’alleanza era necessaria soprattutto allo Stato e l’editto di Milano era il margine che separava la Chiesa perseguitata dalla Chiesa dominante. L’epoca delle persecuzioni costituiva un tempo «non normale» per la Chiesa, che non le aveva cercate e gioiva delle sue interruzioni, chiedendo allo Stato solo giustizia. L’editto di Milano era stato l’atto di giustizia verso la Chiesa. L’ecclesiastico concludeva il suo articolo con alcune parole che intendevano celebrare l’anniversario della conclusione di un’epoca, ma che ribaltate, qualche anno dopo, avrebbero potuto segnare l’inizio di un’altra:
I martiri sono eroi della Chiesa perseguitata; gli asceti sono gli eroi della Chiesa dominante. Le sofferenze dei martiri e le vite dei santi monaci asceti sono edificanti, perché costituiscono due parti dello stesso grandioso poema in onore dell’eroismo dell’anima cristiana, in onore della forza dello spirito dell’uomo, eterno e invincibile90.
Nel 1917 era finita la stagione della «Chiesa dominante» e aveva avuto inizio quella della «Chiesa perseguitata». La fine della monarchia cristiana era stata il margine divisorio tra le due epoche. Si era quindi conclusa l’era costantiniana? Non c’è dubbio che con il 1917 si era chiusa un’epoca e ne aveva avuto inizio una nuova, in buona parte epoca di persecuzione. I pilastri dell’eredità costantiniana erano stati abbattuti: il monarca cristiano e l’alleanza dello Stato con la Chiesa. All’alleanza era succeduta non la separazione tra la Chiesa e lo Stato, ma la persecuzione di quest’ultimo nei confronti della prima.
Alcuni tra gli intellettuali più acuti dell’universo ortodosso russo si erano interrogati su questi temi nel corso stesso degli avvenimenti rivoluzionari e post-rivoluzionari e, poi, nel caso di alcuni di loro, nei decenni successivi nell’emigrazione. Bulgakov nella primavera del 1918 scriveva la sua convinzione che fosse iniziata una nuova epoca diversa dalla precedente così come quella costantiniana lo era stata da quella che l’aveva preceduta. Se per Bisanzio l’era costantiniana si era conclusa nel 1453, per tutta l’ortodossia la sua fine era giunta nel febbraio-marzo 1917. Era stata la caduta dell’autocrazia a segnare quella soglia; con essa era venuto meno lo scopo che l’ortodossia aveva perseguito sin dai tempi di Costantino, ovvero di realizzare una teocrazia ortodossa. «Nel 1917 – concludeva Bulgakov – ha avuto termine l’epoca costantiniana nella storia della Chiesa ed è iniziata quella seguente, che ha delle analogie con l’epoca delle persecuzioni e con il periodo catacombale di esistenza della Chiesa»91. In un testo dialogico del 1922, pubblicato solo postumo nel 1991, Bulgakov tornava su tale riflessione, a partire dalla considerazione che lo zar nell’impero russo, «sia per legge sia in realtà», era il capo della Chiesa russa:
Era, in questo senso – affermava uno dei protagonisti del dialogo –, il successore diretto e il prosecutore degli autocrati bizantini: nella storia della Chiesa una linea diretta unisce Bisanzio, Mosca e Pietrogrado, questa è una sola epoca storico-ecclesiastica, di indubbio, evidente, deciso cesaropapismo, in cui il portatore dell’unità ecclesiale è l’imperatore. E ora, con la rivoluzione russa, quest’epoca è arrivata alla fine, è scomparso l’ultimo impero nel mondo. Noi torniamo all’epoca pre-costantiniana che, tuttavia, è già post-costantiniana, giacché la storia non si ripete92.
La riflessione di Bulgakov è stata ripresa da Aleksandr Šmeman, secondo il quale il 1917 ha concluso «un’intera epoca nella storia della stessa ortodossia», quella costantiniana93. Costantino, a suo parere, ha segnato la più grande svolta di tutta la storia della Chiesa. Egli constatava come la sua figura e la sua opera avessero ricevuto giudizi diametralmente opposti e rilevava – il libro di Šmeman è stato pubblicato nel 1954 – che nella coscienza cristiana contemporanea prevalesse una considerazione negativa del periodo costantiniano. Pur condividendo non poche delle argomentazioni alla base del giudizio critico sulle scelte dell’imperatore, egli richiamava la necessità di cogliere come proprio dai travagliati decenni costantiniani avesse preso avvio il processo di concepimento e nascita di un «mondo cristiano». Tuttavia, una valutazione equilibrata delle scelte dell’imperatore e del loro significato per la storia del cristianesimo, a parere del teologo ortodosso, esponente autorevole della seconda generazione dell’emigrazione russa in Occidente, non può che essere raggiunta attraverso la contestualizzazione storica. Per Šmeman uno dei fattori decisivi per la comprensione di Costantino e della sua eredità è la connessione delle sue scelte religiose e politiche con il processo di trasformazione in monarchia teocratica dell’Impero romano, che aveva avuto un impulso importante alla metà del III secolo con l’adesione dell’imperatore Aureliano ai culti mitraici del sole, mentre si assisteva alla diffusione di un movimento religioso a favore del monoteismo nel mondo greco-romano. La sacralità del monarca, con l’apparato simbolico e liturgico che lo circondava, contribuiva a consolidare la concezione dello Stato come entità di natura divina. È in tale processo che, secondo Šmeman, va collocata la conversione di Costantino, il quale diventò cristiano come imperatore, prima ancora che come uomo in ricerca religiosa, mentre la Chiesa accoglieva la concezione teocratica del potere quale parte costitutiva della propria visione del mondo. L’ambivalenza di Costantino e dell’epoca costantiniana ha le sue radici nell’unione di teocrazia e cristianesimo94.
È innegabile che con la rivoluzione d’ottobre e l’avvento al potere dei bolscevichi il modello costantiniano di «teocrazia cristiana» sia venuto meno. Tuttavia non è fuori luogo parlare di Costantino dopo l’era costantiniana nel contesto sia della Russia sovietica che di quella post-sovietica. Una traccia è rappresentata, senza dubbio, dalla permanenza nella cultura e nella pratica politica dell’universo russo della pregnanza della dimensione sacrale quale tratto costitutivo e legittimante del potere politico. Il modello teocratico ha fornito un armamentario ideologico, simbolico, rituale, liturgico a cui i «successori» del monarca ortodosso non hanno mancato di attingere nell’esercizio del loro potere. Nel saggio in forma dialogica sulla rivoluzione, scritto nella primavera del 1918, Bulgakov metteva in bocca a uno dei protagonisti del dialogo una considerazione non banale: «Il nostro bolscevismo […] anch’esso vuole il regno ortodosso, solo lo vuole di confessione socialista. Per noi la santa Rus’, il popolo ortodosso, mentre per loro la società socialista, la pseudoteocrazia socialista»95.
Sul crinale del rapporto tra religione e politica e delle dinamiche della sacralizzazione del potere si è snodato il filo di continuità con l’eredità costantiniana che ha attraversato il Novecento russo. E per continuità non va intesa la prosecuzione di un modello, la cui realizzazione storica aveva concluso il suo itinerario, quanto piuttosto la permanenza di motivi e di paradigmi culturali anche in modelli culturali e politici di segno differente. La tesi di Bulgakov, che, se con Costantino si era proceduto a una sostituzione del cristianesimo al paganesimo nel quadro di un sistema di raccordo tra religione e politica che restava di fatto immutato, con la rivoluzione bolscevica si era operata un’analoga sostituzione del cristianesimo con il socialismo, presenta non poche suggestioni interpretative che hanno il loro riscontro nella vicenda sovietica. In qualche modo il sistema di raccordo tra religione e politica insito all’eredità costantiniana permaneva nella continuità di una mentalità e di una cultura politica permeate da tale tradizione.
L’ideologia comunista si proponeva come una fede politica, si potrebbe dire una «religione politica», che doveva informare di sé in modo totalizzante la vita dei cittadini, la società e lo Stato sovietici. Il fine era la costruzione della società comunista fondata sull’«uomo nuovo», nella cui antropologia non doveva esserci spazio per l’alienazione religiosa. In un appunto, scritto nel 1924, il metropolita Sergij (Stragorodskij), figura chiave della vicenda dell’ortodossia russa nella prima metà del Novecento, eletto patriarca nel 1943, con grande lucidità individuava tale connotato del regime sovietico:
Prima di tutto noi non dobbiamo dimenticare che il potere statale da noi appartiene ai comunisti-bolscevichi, vale a dire al partito che si dichiara senza religione contro ogni religione positiva. In altre parole, di fatto da noi la religione ufficiale è l’ateismo, e il compito e il desiderio del potere statale è di fare di esso anche la religione del popolo. Si capisce che ogni religione positiva, che affonda le radici in modo più o meno saldo nell’anima del popolo, sarà per il potere un concorrente, tanto più indesiderato, quanto più larga e profonda è l’influenza di questa religione sulle masse popolari96.
In effetti è esistito un carattere «confessionale», «religioso», o parareligioso, del potere sovietico, che va tenuto in dovuta considerazione. Averincev ha sostenuto che «l’ideologia bolscevica» fosse «straordinariamente simile alla mistica»97. L’iconoclastia che accompagnò le diverse campagne condotte contro la Chiesa è un tratto emblematico di questa «mistica». La distruzione delle icone, delle chiese, delle campane e degli oggetti sacri, i numerosi gesti di profanazione dei luoghi di preghiera e delle reliquie, erano espressioni proprie di uno zelo di carattere religioso. Il progetto politico di costruzione della società e dello Stato perseguito dal partito comunista bolscevico si presentava come un esperimento ideologico dai caratteri parareligiosi, non del tutto riconducibile ai parametri di un’esperienza di secolarizzazione98. Il profilo «religioso», o parareligioso, del regime bolscevico costituiva un elemento non secondario del suo rapporto con la società. Il potere sovietico intendeva monopolizzare la sfera del sacro. Per realizzare un tale obiettivo occorreva rimpiazzare la Chiesa ortodossa nel compito storico della sacralizzazione della politica, della mappatura simbolica dello spazio pubblico, dell’interpretazione della storia e del tempo. Nei confronti delle comunità religiose, in modo particolare della Chiesa ortodossa russa, unico vero ostacolo all’ambizione del potere bolscevico di acquisire il monopolio del sacro, l’«incompatibilità» ideologica tra comunismo e religione si traduceva in una lotta antireligiosa condotta con particolare zelo.
Il comunismo, inteso non tanto come sistema sociale quanto come religione esso pure – scriveva Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev negli anni Trenta –, è fanaticamente ostile a ogni religione, e a quella cristiana in primo luogo. Esso intende precisamente essere a sua volta una religione, capace di scalzare e di sostituire il cristianesimo […]. Perciò il suo conflitto con le altre dottrine religiose è inevitabile. L’intolleranza e il fanatismo hanno sempre un fondamento religioso. […] In quanto credenza religiosa, il comunismo è esclusivista99.
L’esperienza sovietica si iscrive nel fenomeno più ampio delle «religioni politiche» del Novecento, che mediante la costruzione di apparati simbolici, la elaborazione di un sistema di credenze e di miti, il proporsi alle masse con le caratteristiche di una fede religiosa, hanno rappresentato le forme di sacralizzazione della politica nei regimi totalitari100. A Maksimilian Aleksandrovič Vološin, uno degli intellettuali di inizio Novecento che ha colto con maggiore profondità la natura ‘religiosa’ dell’ateismo russo, si deve una definizione acuta della rivoluzione bolscevica, da lui ritenuta «esclusivamente una patologia religiosa»101. Il bolscevismo, concepitosi e percepito come avanguardia del moderno, è stato attraversato da una corrente profonda di carattere religioso, appartenente al lungo periodo della storia russa. Il repertorio di metafore e credenze cui il potere sovietico attingeva era costituito in una misura non irrilevante da un materiale simbolico, il cui lessico e la cui grammatica per molti versi erano quelli del simbolismo tradizionale ortodosso. Tale retaggio culturale di natura religiosa ha contribuito a modellare il profilo del potere sovietico e il suo rapporto con la società russa.
La sacralizzazione del potere che costituisce uno dei fili di continuità della tradizione costantiniana nella cultura politica della Russia novecentesca si intreccia al filo rosso di una visione del potere centrata sul «carisma del potere», che si è declinata storicamente nella figura dello zar cristiano. Bulgakov l’ha definita «ideologia della consacrazione personale del potere», la cui influenza ha continuato a costituire un tratto decisivo per il quadro politico, culturale e religioso della Russia anche dopo la fine della monarchia ortodossa102. D’altro canto il retaggio zarista non fu estraneo alla visione e alle modalità con le quali i leader bolscevichi, e in particolare Stalin, gestirono il potere. Il raffronto con la figura e il ruolo degli zar, in una dinamica ambigua di contrapposizione ed emulazione, era quasi inevitabile per i leader bolscevichi che avevano riportato i vertici del potere nel luogo matrice dell’impero russo, il Cremlino. Tanto più tale aspetto influiva sull’immaginario e sulle scelte di Stalin, che era stato suddito zarista in una provincia alloglotta dell’impero: «volle far suo il carisma personale di uno tsar-batiuška», come ha scritto Moshe Lewin103. Senza indulgere a una raffigurazione a effetto di Stalin come nuovo zar, riducendo così ad aspetti marginali gli elementi di differenziazione del sistema sovietico dall’impero russo, occorre però riconoscere che non sono prive di fondamento le osservazioni di Vladislav Zubok e Konstantin Pleshakov:
Stalin regarded himself as the founder of the new Soviet empire as well as the heir of the traditional Russian empire. Was this a contradiction in the soul of a true believer [in communism]? Only a seeming one, for the Marxist ideal was a universal empire and Russia was seen as its core. Stalin wanted to match the power and splendors of the past rulers, the czars – and surpass them104.
Il carisma come cifra del potere politico costituiva una caratteristica dell’Unione Sovietica staliniana che affondava le sue radici nel lungo periodo della storia russa. L’affermazione di una leadership di tipo carismatico costituiva un mezzo per consolidare l’autorevolezza e la legittimità del sistema sovietico105. Sacralizzazione del potere, cifra carismatica del potere, sistema di raccordo tra religione e politica hanno costituito gli assi primari lungo i quali l’eredità costantiniana ha continuato a essere presente anche nella Russia post-sovietica. Sarebbe improprio sostenere che nella Russia degli anni Novanta del XX secolo e del primo decennio del XXI abbia conosciuto una sua nuova realizzazione storica il modello bizantino della sinfonia tra i poteri o il paradigma della teocrazia cristiana. Tuttavia attraverso questi elementi di lungo periodo che si possono rintracciare ancora ben radicati nella cultura politica e religiosa dell’universo russo e che in larga parte provengono dall’interpretazione russa del modello bizantino, la tradizione costantiniana continua a esercitare un’influenza nella Russia attuale.
La Chiesa russa, dopo la fine dell’Unione Sovietica, si è registrata su un’architettura delle relazioni con lo Stato basata su un regime di separazione fra Chiesa e Stato. I vertici della Chiesa si sono espressi a favore della separazione per bocca del patriarca Aleksij II (Ridiger), che ha però precisato che ciò non significava una rinuncia della Chiesa a esercitare un ruolo pubblico: «Essendo separata dallo Stato, la Chiesa non può esserlo in nessun modo dalla società e dal popolo»106. Tale ruolo si manifesta anche in un rapporto privilegiato con lo Stato. In questa prospettiva ci si è orientati verso una forma di partenariato, come si è espresso lo stesso Aleksij II: «Io sono convinto che la norma delle relazioni fra Chiesa e Stato debba essere un attivo partenariato per il bene della società»107. È una linea di pensiero che ha attraversato l’ortodossia russa nel Novecento, anche nei circoli intellettuali dell’emigrazione, come attestano le seguenti parole di Bulgakov:
La Chiesa, accogliendo la separazione giuridica dalla sfera di Cesare, dallo Stato, come una sua liberazione, non rinuncia affatto al compito di esercitare un’influenza su tutta la vita dello Stato […]. L’ideale della trasformazione cristiana dell’ordinamento statale per mezzo della vita ecclesiale resta in tutta la sua forza e senza alcuna limitazione anche nell’epoca della separazione della Chiesa dallo Stato, divenuto ‘di diritto’, perché tale separazione resta solo esteriore, ma non interiore108.
L’idea che la Chiesa debba esercitare un’influenza decisiva sullo Stato è restata salda nel pensiero ortodosso russo, che ha continuato a fare riferimento al modello della sinfonia, quale fonte di ispirazione di sue applicazioni diversificate secondo la gamma di una interpretazione larga ed elastica del principio bizantino109. Il principio della sinfonia, pur nella consapevolezza che non è stato mai pienamente realizzato nella storia, resta il riferimento concettuale per l’elaborazione di un modello di rapporti tra la Chiesa e lo Stato in Russia. L’attuale patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill (Gundjaev), all’indomani della sua intronizzazione, nel febbraio 2009, si è rivolto al presidente della Federazione Russa Dmitrij Anatol’evič Medevedev con parole che esplicitano in quale senso la Chiesa ricorra al concetto di sinfonia per indicare una linea di sviluppo delle relazioni tra patriarcato di Mosca e Stato russo:
La Chiesa ortodossa russa ha percorso un itinerario pesantissimo, pieno di molti eventi storici, di peripezie, di difficoltà. Non si può assolutamente parlare di sinfonia quando per volontà del potere statale fu liquidata l’istituzione patriarcale. Tanto meno se ne può parlare quando il potere è diventato un persecutore della Chiesa. Nelle nuove condizioni noi siamo coscienti che non è possibile la realizzazione di quell’ideale che è nato nel primo millennio. Tuttavia, d’altra parte, noi come Chiesa siamo consapevoli della necessità che lo spirito della sinfonia orienti i nostri pensieri e le nostre opere nella costruzione di un modello di relazioni tra Chiesa e Stato110.
Il modello costantiniano è alla base del codice culturale e spirituale del popolo russo modellato dall’ortodossia, che è stato indicato recentemente quale fondamento di una specifica civiltà ortodossa russa111. In questa prospettiva la prevalenza di una prospettiva religiosa e della dimensione escatologica comporta la supremazia dei valori spirituali e morali su quelli materiali e pragmatici. Ne deriva la necessità che lo Stato e la società non possano essere neutrali per quanto concerne la visione del mondo:
La civiltà ortodossa sempre, sia a Bisanzio, sia in Russia, sia nel mondo degli slavi meridionali, ha sottinteso la presenza nella società, e solitamente anche nel potere politico, di una finalità religiosa, di un senso superiore, che si estendeva oltre i limiti della vita di una generazione, dello Stato, del popolo e perfino del mondo terrestre. […] L’affermazione della vera fede, delle norme della morale, delle leggi e delle regole fondate su di essa, non può non essere un compito di una società formata da cristiani ortodossi112.
La proiezione metastorica attribuisce alla civiltà ortodossa scopi di carattere religioso che hanno valore globale e universale. L’unione del potere civile e di quello ecclesiastico con il popolo costituisce un altro tratto del modello di civiltà ortodossa:
In cielo un Dio unico e la gerarchia angelica; così deve anche essere ordinata la società umana. Non è casuale che sia la Chiesa che lo Stato nel mondo ortodosso solitamente abbiano avuto un potere supremo forte, centralizzato e di regola personificato, quello dell’imperatore e del patriarca […]. L’assenza di tale potere è stata considerata come un’anomalia113.
Gli echi dell’eredità costantiniana sono evidenti e Costantino, quale fondatore del bizantinismo, è stato al centro di una recente monografia dedicata alla figura dell’imperatore di Arkadij Markovič Maler, che ha collocato la sua lettura dell’imperatore cristiano in un filone di pensiero presente nel dibattito politico e culturale russo di inizio XXI secolo, legato al ricorso al concetto di Katechon114. Costantino ha compiuto la sua missione come Katechon e tale ha reso l’impero, la cui translatio ha riguardato anche questa missione:
I concetti di Katechon, di sinfonia dei poteri e di translatio imperii – ha scritto Maler – costituiscono i tre fondamenti dell’ideologia del bizantinismo, e insieme di tutta la coscienza politica del medioevo ortodosso. […] Dal santo isapostolo imperatore Costantino al santo imperatore strastoterpec [«che ha sofferto la passione»] Nicola II è passata una linea diretta di successione dell’impero Katechon, con la caduta del quale si è affermata una totale anomia115.
In un contesto fertile per la rinascita di motivi culturali di natura escatologica, quale la Russia postsovietica, «il sogno di una restituzione alla Russia della missione di Katechon – ha osservato un politologo russo – per molti aspetti è il sogno del conseguimento di un alto livello di legittimità agli occhi sia del popolo che del mondo»116. Le due elaborazioni più articolate di un disegno strategico per la Russia presentate negli ultimi anni, Proekt Rossija (Progetto Russia), pubblicato anonimo, ma attribuito da alcuni osservatori ad ambienti vicini ai servizi segreti militari, e Russkaja doktrina (Dottrina russa), prodotto dell’elaborazione di un gruppo di intellettuali del neoconservatorismo russo, convergono, secondo alcuni analisti, nel richiedere il recupero da parte della Russia della coscienza della sua funzione storica di Katechon. La tradizione escatologica dell’ideologia politica dello Stato russo è modellata sull’archetipo del pensiero apocalittico cristiano, che prevede la fine dei tempi attraverso una catastrofe, in cui si realizza l’avvento del messia e quindi la vittoria del bene sul male:
Questa idea presuppone la comprensione della Russia non solo come uno degli Stati del mondo, ma come lo Stato-impero che ha una sua particolare missione negli «ultimi tempi». Questo Stato […] è un impero escatologico. Questa coscienza è legata all’idea esistente nella tradizione ortodossa di «colui che trattiene» (Katechon), di un ordine politico o di un regno, in grado di trattenere con la sua forza armata l’avvento nel mondo dell’anarchia, che condurrà la gente all’idea di sottomettersi all’anticristo e condannerà il mondo al caos degli «ultimi tempi». Nella tradizione ortodossa questo ultimo regno si chiama Roma, con la sua prosecuzione, Nea Roma, Bisanzio. Mentre nella tradizione ecclesiastica e politica russa la Russia è dichiarata Terza Roma, ultimo centro dell’ultimo regno, dopo la cui caduta «non ci sarà una quarta [Roma]»117.
Per Maler, animatore del Vizantijskij klub Katechon, la missione specifica della Russia nel mondo e il suo profilo geopolitico sono configurati dalla funzione di Katechon assegnata all’ordinamento statale russo come erede dell’impero bizantino. È la categoria di Katechon a dare senso a una visione geopolitica della Russia come impero e al suo significato sopranazionale e universale. Il Katechon è un fattore permanente della statualità russa, in quanto in esso è contenuto il senso della missione storica della Russia118. A tal fine egli sostiene che sia necessaria la rinascita del nome di Costantino e della sua eredità.
La tradizione costantiniana ha mostrato negli ultimi tre secoli di storia russa una fecondità polisemica, che ha denotato un’elasticità concettuale tale, da favorire una sua permanenza pur in contesti storici differenti. Da essa è scaturita una corrente di riferimenti ideologici, mitici, simbolici, escatologici, che ha attraversato la vicenda russa dall’impero petrino alla Russia di Putin e non sembra che abbia esaurito la sua capacità.
1 I. Brodskij, Less Than One. Selected Essays, New York 1986 (trad. it. Fuga da Bisanzio, Milano 1987, pp. 179-180).
2 Ju.M. Lotman, Sovremennost’ meždu Vostokom i Zapadom (La modernità tra Oriente e Occidente), in Id., Istorija i tipologija russkoj kul’tury (Storia e tipologia della cultura russa), Sankt-Peterburg 2002, p. 748.
3 S. Averincev, Poetika rannevizantijskoj literatury, Moskva 1977 (trad. it. L’anima e lo specchio. L’universo della poetica bizantina, introduzione all’edizione italiana di P.C. Bori, Bologna 1988, p. 336).
4 S. Averincev, Nasledie svjaščennoj deržavy (L’eredità della potenza sacra), in Novyj mir, (Nuovo mondo), 7 (1988), ora in Id., Drugoj Rim. Izbrannye stat’i (L’altra Roma. Articoli scelti), Sankt-Peterburg 2005, pp. 315-338.
5 S. Averincev, L’anima e lo specchio cit., pp. 95-96.
6 Cfr. S. Ronchey, Lo Stato bizantino, Torino 2002, pp. 142-143. Sul culto di Costantino nella Russia medievale si veda M. Pliukhanova, Il culto di Costantino il Grande nella Russia antica, in Bizantinistica. Rivista di Studi Bizantini e Slavi, s. 2, 6 (2004), pp. 191-215.
7 V.V. Bolotov, Lekcii po istorii drevnej cerkvi, III, Istorija cerkvi v period Vselenskich Soborov (Lezioni sulla storia della Chiesa antica, III, La storia della Chiesa nel periodo dei Concili ecumenici), Sankt-Petersburg 1913, ora in Id., Sobranie cerkovno-istoričeskich trudov (Raccolta delle opere storico-ecclesiastiche), IV, Moskva 2002, p. 9.
8 Ivi, p. 10.
9 Ibidem.
10 Ivi, pp. 18-19.
11 Ivi, p. 48.
12 A.A. Spasskij, Obraščenie imperatora Konstantina Velikogo v christianstvo (La conversione dell’imperatore Costantino il Grande al cristianesimo), Sergiev Posad 1905. Cfr. J. Burckhardt, Die Zeit Constantins des Grossen, Basel 1853; Th. Brieger, Constantin der Grosse als Religionspolitiker, Gotha 1880.
13 F.A. Kurganov, Imperator Konstantin Velikij, svjatoj, ravnoapostol’nyj (L’imperatore Costantino il Grande, santo, isapostolo), Kazan’ 1918, p. 165.
14 Cfr. ivi, pp. 149-174.
15 Nel 1913 si registrò la pubblicazione di non pochi articoli sulle principali riviste ecclesiastiche del periodo: cfr. A.D. Rudokvas, Obraz imperatora Konstantina velikogo v politiko-pravovoj tradicii russkogo monarchizma (L’immagine dell’imperatore Costantino il Grande nella tradizione politico-giuridica del monarchismo russo), in Sankt-Peterburgskij gumanitarnyj universitet profsojuzov-Juridičeskij fakul’tet (Università umanistica dei sindacati di San Pietroburgo-Facoltà giuridica), Učënye zapiski (Atti scientifici), I, Sankt-Peterburg 1996, pp. 46-52, in partic. 50-51.
16 F.A. Kurganov, Imperator Konstantin velikij (L’imperatore Costantino il Grande), discorso pronunciato in occasione della celebrazione del 1600° giubileo costantiniano il 14 settembre 1913, Kazan’ 1913, p. 3.
17 Ivi, p. 40.
18 Ivi, p. 51.
19 Si vedano sul 1905 ecclesiastico J.W. Cunningham, A Vanquished Hope: The Movement for Church Renewal in Russia, 1905-1906, New York 1981; G. Orechanov, Na puti k soboru. Cerkovnye reformy i pervaja russkaja revoljucija (Verso il concilio. Le riforme ecclesiastiche e la prima rivoluzione russa), Moskva 2002; H. Destivelle, La chiesa del concilio di Mosca (1917-1918), Magnano 2003, pp. 57-76; V. Shevzov, Russian Orthodoxy on the eve of Revolution, New York 2004.
20 Sulle riforme ecclesiastiche di Pietro il Grande si veda J. Cracraft, The Church Reform of Peter the Great, Stanford (CA) 1971. L’interpretazione del periodo sinodale come una pagina della storia della Chiesa russa pienamente rispondente alla tradizione bizantina, secondo la quale l’imperatore era legittimamente a capo della Chiesa, è stata avanzata, sulla base delle posizioni dei canonisti russi del periodo imperiale, da A.M. Veličko, Cerkov’ i imperator v vizantijskoj i russkoj istorii (istoriko-pravovye očerki) [La Chiesa e l’imperatore nella storia bizantina e russa (saggi storico-giuridici)], Sankt-Peterburg 2006.
21 V.V. Bolotov, Lekcii po istorii drevnej cerkvi, III, Istorija cerkvi v period Vselenskich Soborov, cit., p. 55.
22 Ivi, pp. 56-57.
23 A.I. Brilliantov, Imperator Konstantin Velikij i milanskij edikt 313 goda (L’imperatore Costantino e l’editto di Milano del 313), Petrograd 1916, p. 194.
24 F.A. Kurganov, Imperator Konstantin Velikij, svjatoj, ravnoapostol’nyj, cit., p. 7.
25 Cfr. J. Meyendorff, From Byzantium to Russia: Religious and Cultural Legacy, in Tausend Jahre Christentum in Russland. Zum millennium der Taufe der Kiever Rus’, hrsg. von W. Heller, Göttingen 1988, pp. 85-102.
26 L.A. Tichomirov, Monarchičeskaja gosudarstvennost’ (L’ordinamento statuale monarchico), Moskva 1905, pp. 135 seg.
27 M. Raeff, Comprendre l’ancien régime russe, Paris 1982 (trad. it. La Russia degli zar, Roma-Bari 1989, pp. 4-5).
28 P. Bushkovitch, Peter the Great. The struggle for power, 1671-1725, Cambridge 2001 (trad. it. Pietro il Grande. La lotta per il potere (1671-1725), Roma 2003, p. 33).
29 A. Kartašëv, Cerkov’, istorija, Rossija. Stat’i i vystuplenija (Chiesa, storia, Russia. Articoli e interventi), Moskva 1996, p. 139.
30 Ivi, p. 231.
31 Si veda sulla questione dell’attribuzione del testo Peter the Great His Law on the Imperial Succession in Russia, 1722. The Official Commentary Pravda Voli Monarshei vo opredelenu naslednika derzhavy svoei (The justice of the monarch’s right to appoint the heir to the throne), ed. by A. Lentin, Oxford 1995, pp. 57-62. Cfr. anche G.D. Gurvič, «Pravda voli monaršej» Feofana Prokopovič i ee zapadnoevropejskie istočniki («La giustizia della volontà del monarca» di Feofan Prokopovič e le sue fonti europeo-occidentali), a cura di ed. by Taranovskij, Jur’ev 1915.
32 Ju.M. Lotman, B.A. Uspenskij, Otzvuki koncepcii «Moskva – tretij Rim» v ideologii Petra Pervogo (K probleme srednevekovoj tradicii v kul’ture barokko) [Echi della concezione «Mosca Terza Roma» nell’ideologia di Pietro il Grande (sul problema della tradizione medievale nella cultura del barocco)], in Chudožestvennyj jazyk srednevekov’ja (Il linguaggio artistico del Medioevo), Moskva 1982, pp. 236-249, ora in Ju.M. Lotman, Istorija i tipologija russkoj kul’tury, cit., pp. 349-361.
33 Cfr. B. Uspenskij, L’Europa come metafora e come metonimia (in riferimento alla storia della Russia), in Oltre la città del libro. Cinque saggi sulla lettura, a cura di G. Zaganelli, Milano 2008, pp. 120-121.
34 Cfr. B. Uspenskij, In regem unxit. Unzione al trono e semantica dei titoli del sovrano, Napoli 2011, pp. 75-80.
35 Cfr. ivi, p. 41.
36 Cfr. V.M. Živov, Kul’turnye reformy v sisteme preobrazovanij Petra I (Le riforme culturali nel sistema di trasformazioni di Pietro I), in Iz istortii russkoj kul’tury (Dalla storia della cultura russa), III, XVII-načalo XVIII veka (XVII-inizio XVIII secolo), Moskva 1996, pp. 545-549. Si vedano anche le osservazioni di R.S. Wortman, Scenarios of Power. Myth and Ceremony in Russian Monarchy, I, From Peter the Great to the Death of Nicholas I, Princeton (NJ) 1995, (trad. rus. Scenarii vlasti: Mify i ceremonii russkoj monarchii, I, Ot Petra Velikogo do smerti Nikolaja I, Moskva 2004, pp. 68-116).
37 Ju.M. Lotman, B.A. Uspenskij, Otzvuki koncepcii «Moskva – tretij Rim» v ideologii Petra Pervogo, cit., p. 350.
38 Cfr. ivi, pp. 351-352.
39 Ivi, p. 353.
40 Cfr. ivi, pp. 354-355.
41 Ivi, p. 356.
42 M.S. Kisilëva, Peterburg v kontekste christianskoj sakral’nosti (Pietroburgo nel contesto della sacralità cristiana), in Peterburg na filosofskoj karte mira (Pietroburgo nella carta filosofica del mondo), ed. by E.A. Ivanova, Ju.A. Petrosjan, E.A. Tropp, Sankt-Peterburg 2004, pp. 57-72, la citazione a p. 72.
43 Cfr. A. Lidov, Ierotipija. Prostranstvennye ikony i obrazy-paradigmy v vizantijskoj kul’ture (Ierotipija. Icone spaziali e immagini-paradigma nella cultura bizantina), Moskva 2009.
44 Si vedano su questo le osservazioni di V. Kantor, Sankt-Peterburg: Rossijskaja imperija protiv rossijskogo chaosa. K probleme imperskogo soznanija v Rossii (Sankt-Peterburg: L’impero russo contro il caos russo. Sul problema della coscienza imperiale in Russia), Moskva 2009, pp. 205-213.
45 Si veda la prefazione di I.I. Golikov, Sravnenie svojstv i del Konstantina Velikogo, pervago iz Rimskich christianskago imperatora, so svojstvami i delami Petra Velikogo, pervago vserossijskago imperatora, i proizšestvij, v carstvovanie oboich sich monarchov slučivšichsja (Confronto delle caratteristiche e delle opere di Costantino il Grande, primo imperatore romano cristiano, con le caratteristiche e le opere di Pietro il Grande, primo imperatore russo, e degli avvenimenti, accaduti nel regno di entrambi questi monarchi), Moskva 1810, I, pp. I-V.
46 Cfr. ivi, pp. 24-25.
47 Cfr. ivi, pp. 35-41.
48 Ivi, p. 42.
49 Ivi, p. 58.
50 Su tali vicende e sul loro significato ideologico e politico si veda V.G. Čencova, Pisec Nikolaj Armiriot i Krest carja Konstantina: k istorii svjazej Vatopedskogo monastyrja s Rossiej v XVII veke (Lo scriba Nikolaj Armiriot e la Croce dell’imperatore Costantino: sulla storia dei rapporti del monastero Vatopedi con la Russia nel XVII secolo), in Paleoslavica, 19 (2011), pp. 60-109.
51 I.I. Golikov, Sravnenie svojstv i del Konstantina Velikogo, pervago iz Rimskich christianskago imperatora, so svojstvami i delami Petra Velikogo, cit., II, pp. 132-135.
52 Su questo particolare rito cfr. B.A. Uspenskij, Car’ i patriarch. Charizma vlasti v Rossii (Vizantijskaja model’ i eë russkoe pereosmyslenie) [Lo zar e il patriarca. Il carisma del potere in Russia (Il modello bizantino e la sua reinterpretazione russa)], Moskva 1998, pp. 440-461. Inoltre si vedano i saggi di M.S. Flier: The Iconography of Royal Procession: Ivan the Terrible and the Muscovite Palm Sunday Ritual, in European Monarchy: Its Evolution and Practice from Roman Antiquity to Modern Times, ed. by H. Duchhardt, R.A. Jackson, D. Sturdy, Stuttgart 1992, pp. 109-125; Breaking the Code: The Image of the Tsar in the Muscovite Palm Sunday Ritual, in Medieval Russia Culture, ed. rev. by M.S. Flier, D. Rowland, Los Angeles 1994, pp. 213-242. Alcune osservazioni sono anche in M. Pliukhanova, La Donazione di Costantino in Russia tra XV e XVI secolo, in Costantino il Grande tra medioevo ed età moderna, a cura di G. Bonamente, G. Cracco, K. Rosen, Bologna 2008, pp. 209-232.
53 I.I. Golikov, Sravnenie svojstv i del Konstantina Velikogo, pervago iz Rimskich christianskago imperatora, so svojstvami i delami Petra Velikogo, I, cit., pp. 28-29.
54 Cfr. E. Patlagean, Théologie politique de Byzance. L’empereur, le Christ, le patriarche, in Teologie politiche. Modelli a confronto, a cura di G. Filoramo, Brescia 2005, pp. 149-161.
55 Sul complesso tema dello status liturgico del monarca russo si vedano le dense pagine di B.A. Uspenskij, Car’ i patriarch. Charizma vlasti v Rossii, cit., pp. 151-186.
56 M.V. Zyzykin, Carskaja vlast’ i zakon o prestolonasledii v Rossii (Il potere imperiale e la legge sulla successione dinastica in Russia), Moskva 1993 (I ed. Sofia 1924), p. 174.
57 Cfr. B.A. Uspenskij, Car’ i patriarch. Charizma vlasti v Rossii, cit., pp. 178-185.
58 P.E. Kazanskij, Vlast’ Vserossijskogo Imperatora (Il potere dell’imperatore russo), Moskva 2007 (I ed. Odessa 1913).
59 Ivi, p. 140.
60 Cfr. N.S. Suvorov, Učebnik cerkovnogo prava (Manuale di diritto della Chiesa), Moskva 1908.
61 Cfr. P.E. Kazanskij, Vlast’ Vserossijskogo Imperatora, cit., p. 148.
62 L.A. Tichomirov, Monarchičeskaja gosudarstvennost’, cit., pp. 129-130.
63 F.A. Kurganov, Imperator Konstantin velikij, cit., p. 39.
64 La citazione di Tjutčev è in V. Kantor, Sankt-Peterburg: Rossijskaja imperija protiv rossijskogo chaosa, cit., p. 268.
65 Ivi, p. 271.
66 V. Solov’ëv, La Russia e la Chiesa universale e altri scritti, a cura di A. Dell’Asta, Milano 1989, p. 57.
67 P.E. Kazanskij, Vlast’ Vserossijskogo Imperatora, cit., p. 149.
68 Cfr. ivi, p. 459.
69 M.N. Katkov, O samoderžavii i konstitucii (Su l’autocrazia e la costituzione), Moskva 1905, pp. 12-13.
70 S.L. Firsov, Russkaja Cerkov’ nakanune peremen (konec 1890-ch–1918 gg.) [La Chiesa russa alla vigilia dei cambiamenti (fine 1890-1918)], Moskva 2002, p. 40.
71 A.V. Kartašëv, Cerkov’, istorija, Rossija, cit., p. 54.
72 Slova i reči Filareta, mitropolita Moskovskogo (Scritti e discorsi di Filaret, metropolita di Mosca), Moskva 1861, II/3, p. 252.
73 S. Bulgakov, Avtobiografičeskie zametki. Dnevniki. Stat’i (Appunti biografici. Diari, Articoli), Orël 1998, p. 45.
74 Ivi, p. 53.
75 S. Bulgakov, Pravoslavie. Očerki učenija pravoslavnoj cerkvi (Ortodossia. Saggi di dottrina della Chiesa ortodossa), Moskva 1991 (I ed. Paris 1964), p. 332 e 338.
76 B. Uspenskij ha particolarmente sviluppato questo aspetto in In regem unxit, cit., pp. 39-45.
77 Ivi, p. 45.
78 B.A. Uspenskij, Car’ i patriarch. Charizma vlasti v Rossii, cit., p. 108.
79 Put’ moej žizni. Vospominanija Mitropolita Evlogija (Georgievskogo) izložennye po ego rasskazam T. Manuchinoj (Il cammino della mia vita. Memorie del metropolita Evlogij (Georgievskij) esposte secondo i suoi racconti a T. Manuchina), Moskva 1994 (I. ed. Paris 1947), pp. 262-263. Non mancavano negli ambienti ecclesiali settori, soprattutto nel basso clero, animati da sentimenti di simpatia nei confronti dei movimenti rivoluzionari, che salutarono con soddisfazione la fine della monarchia: si veda sulle reazioni del clero alla fine della monarchia l’antologia di documenti Rossijskoe duchovenstvo i sverženie monarchii v 1917 godu (Materialy i archivnye dokumenty po istorii Russkoj pravoslavnoj cerkvi) [Il clero russo e il rovesciamento della monarchia nel 1917 (Materiali e documenti di archivio sulla storia della Chiesa ortodossa russa)], ed. by M.A. Babkin, Moskva 2006.
80 V. Losskij, Ličnost’ i mysl’ svjatejšego patriarcha Sergija (La personalità e il pensiero del santissimo patriarca Sergij), in Patriarch Sergij i ego duchovnoe nasledstvo (Il patriarca Sergij e la sua eredità spirituale), Moskva 1947, pp. 263-270, la citazione è a pp. 263-264.
81 B.A. Uspenskij, Car’ i patriarch. Charizma vlasti v Rossii, cit., p. 517.
82 Cfr. M.V. Škarovskij, Russkaja Pravoslavnaja Cerkov’ pri Staline i Chruščëve (Gosudarstvenno-cerkovnye otnošenija v SSSR v 1939-1964 godach) [La Chiesa ortodossa russa sotto Stalin e Chruščëv (Le relazioni Stato-Chiesa in URSS dal 1939 al 1964)], Moskva 1999, p. 70.
83 S. Bulgakov, Na piru bogov. Pro i Contra. Sovremennye dialogi (Al banchetto degli dei. Pro et contra. Dialoghi contemporanei), Sofia 1920 (I ed. Moskva 1918), p. 89.
84 Dejanija Svjaščennogo Sobora Pravoslavnoj Rossijskoj Cerkvi 1917-1918 gg. (Atti del santissimo concilio della Chiesa ortodossa russa: 1917-1918), IV, Moskva 1996 (I ed. Petrograd 1918), 41, 13-11-1917, p. 17; per la relazione di Bulgakov cfr. ivi, pp. 6-15.
85 Ivi, 58, 2-12-1917, pp. 225-227.
86 Sulla politica religiosa bolscevica e sulle vicende della Chiesa russa in periodo sovietico si rinvia a A. Roccucci, Stalin e il patriarca. Chiesa ortodossa e potere sovietico 1917-1958, Torino 2011, cui si rimanda anche per l’ampia bibliografia sul tema.
87 D.V. Pospelovskij, Russkaja pravoslavnaja cerkov’ v XX veke (La Chiesa ortodossa russa nel XX secolo), Moskva 1995, p. 445 nota 3.
88 V. Cypin, Istorija Russkoj Cerkvi 1917-1997 (La storia della Chiesa russa 1917-1997), Moskva 1997, p. 49.
89 Ilarion (Troickij), Cerkov’ gonimaja i Cerkov’ gospodstvujuščaja. K prazdnovaniju 1600-letija so vremeni Milanskogo edikta (Chiesa perseguitata e Chiesa dominante. Per la celebrazione dei 1600 anni dall’editto di Milano), in Moskovskie cerkovnye vedomosti (Bollettino ecclesiastico di Mosca), 37 (1913), ora in Id., Tvorenija (Opere), III, Moskva 2004, pp. 278-282, la citazione da p. 279.
90 Ivi, p. 282.
91 S. Bulgakov, Na piru bogov, cit., p. 105. Sul dibattito in ambito occidentale sulla fine dell’era costantiniana si veda G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, Bologna 2012.
92 S. Bulgakov, «Presso le mura di Chersoneso». Per una teologia della cultura, traduzione e saggio introduttivo di M. Campatelli, Roma 1998, p. 228.
93 A. Šmeman, Istoričeskij put’ pravoslavija (Il cammino storico dell’ortodossia), Moskva 1993 (I ed. New York 1954), p. 341.
94 Cfr. ivi, pp. 100-153.
95 S. Bulgakov, Na piru bogov, cit., pp. 38-39.
96 Appunto del metropolita Sergij (Stragorodskij), La Chiesa ortodossa russa e il potere sovietico (per la convocazione del concilio locale della Chiesa ortodossa russa), pubblicato in Sledstvennoe delo patriarcha Tichona. Sbornik dokumentov po materialam Central’nogo archiva FSB RF (Il fascicolo investigativo del patriarca Tichon. Raccolta di documenti dall’archivio centrale dell’FSB della Federazione Russa), Moskva 2000, p. 785.
97 S. Averincev, Noi e la gerarchia, ieri e oggi, in La Nuova Europa, 1 (1993), p. 21.
98 Ha scritto di una «chiesa dell’ateismo scientifico» P. Froese, Forced Secularization in Soviet Russia: Why an Atheistic Monopoly Failed, in Journal for the Scientific Study of Religion, 43,1 (2004), pp. 42-45. Cfr. Anche Id., The Plot to Kill God: Findings from the Soviet Experiment in Secularization, Berkeley-Los Angeles 2008.
99 N. Berdjaev, Istoki i smysl russkogo kommunizma, Paris 1955 (trad. it. Le fonti e il significato del comunismo russo, Milano 1985, pp. 202-203). Il libro era apparso per la prima volta in edizione inglese nel 1937: The origin of Russian communism, London 1937.
100 Si rimanda su questo a E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Roma-Bari 2001. Si vedano anche le osservazioni critiche su questo tema, che rimandano al dibattito sulla categoria interpretativa di «religioni politiche», di D. Bidussa, La mentalità totalitaria. Storia e Antropologia, Brescia 2001, pp. 53-95, e E. Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Milano 2002, pp. 115-120.
101 La citazione di Maksimilian Vološin è riportata in G. Nivat, Aspects religieux de l’athée russe, in Cahiers du Monde russe et soviétique, 29,3-4 (1988), pp. 415-425, la citazione a p. 424.
102 S. Bulgakov, Pravoslavie, cit., p. 340.
103 M. Lewin, Stalinism and Nazism: Dictatorship in Comparison, Cambridge 1997 (trad. it. Stalin allo specchio, in Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto, a cura di I. Kershaw, M. Lewin, Roma 2002, p. 152).
104 Cfr. V. Zubok, C. Pleshakov, Inside the Kremlin’s Cold War. From Stalin to Khrushchev, Cambridge (MA)-London 1996, p. 16.
105 Cfr. D. Brandenberger, Stalin as Symbol: a Case Study of the Personality Cult and Its Construction, in Stalin. A New History, ed. by S. Davies, J. Harris, Cambridge-New York 2005, pp. 249-270.
106 Aleksij II, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Trudnyj put’ dramatičeskogo veka. Vosem’desjat let nazad v Russkoj pravoslavnoj cerkvi bylo bosstanovleno patriaršestvo (Il difficile cammino di un secolo drammatico. Ottanta anni fa nella Chiesa russa ortodossa fu ricostituito il patriarcato), in NG-Religii (Giornale indipendente-Religioni), 11 novembre 1997.
107 La citazione è tratta dall’intervista del patriarca, «Ja verju v naš narod» (Io credo nel nostro popolo), in Komsomol’skaja pravda (La verità del Komsomol), 17 febbraio 1999.
108 S. Bulgakov, Pravoslavie, cit., p. 343.
109 Cfr. A.V. Kartašëv, Vozsozdanie sv. Rusi (La ricostituzione della santa Rus’), Moskva 1991 (I ed. Paris 1956), p. 59.
110 Ilarion (Alfeev), Patriarch Kirill: žizn’ i mirosozercanie (Il patriarca Kirill: la vita e la concezione del mondo), Moskva 2009, pp. 380-381.
111 V. Čaplin, Pjat’ postulatov pravoslavnoj civilizacii (Cinque postulati della civiltà ortodossa), in Političeskij klass (La classe politica), 2 (2007), pp. 81-85.
112 Ivi, p. 83.
113 Ivi, p. 84.
114 A.M. Maler, Konstantin Velikij (Costantino il Grande), Moskva 2011.
115 Ivi, p. 341 e 346.
116 L. Fišman, Ot katechona k Vavilonu (Dal Katechon a Babilonia), in Političeskij klass, 5,41 (2008), http://www.politklass.ru/cgi-bin/issue.pl?id=1006 (12 apr. 2013).
117 Novejšee srednevekov’e. Religioznaja politika Rossii v kontekste global’noj transformacii (Medioevo contemporaneo. La politica religiosa della Russia nel contesto della trasformazione globale), in Agenstvo Političeskich Novostej (Agenzia di notizie politiche) 20 aprile 2006, consultabile anche on line: http://www. apn.ru/library/print9877.htm (12 apr. 2013).
118 Cfr. A. Maler, Ideologija vizantisma (L’ideologia del bizantinismo), in Servernyj Katechon (Katechon settentrionale), 1 (2005), pp. 7-49.