CARDUCCI, Costabile
Nacque a Capaccio (Salerno) il 15 giugno 1804 da Antonio e da Giuseppina Verduzio, in una famiglia di agiati possidenti. Dopo aver fatto i primi studi nel paese natale, si era recato a Napoli per frequentarvi i corsi di legge, ma ben presto era tornato a Capaccio, ove esercitò l'ufficio di ricevitore del registro. Nel 1828 sposò Teresa Vittoria Del Re, da cui ebbe due figlie, Giuseppina, nata il 20 febbr. 1829, e Annina, nata il 30 sett. 1837. Durante gli anni di permanenza in paese fu costretto a scontrarsi con le famiglie più influenti del luogo, delle quali non tollerava i soprusi; infine una lite clamorosa con il principe di Angri lo spinse ad allontanarsi dall'ambiente soffocante di Capaccio e a trasferirsi a Salerno. Qui, insieme con l'amico S. Ferrara, impiantò un albergo ed assunse, fra il 1846 e il 1847, l'appalto dei servizi postali della provincia. In entrambe queste attività non ebbe fortuna, ma egli non può essere definito, come poi fecero gli storici borbonici e in particolare il De Sivo, un "locandiero fallito", in quanto possedeva una discreta proprietà, comprensiva non solo dei lasciti paterni, ma anche di quelli avuti in eredità nel 1828 dallo zio Matteo Carducci.
Iniziato all'azione patriottica dal cognato Giuseppe Del Re, e introdotto nei circoli costituzionali di Napoli, ove si recava spesso, frequentò assiduamente il Comitato liberale e ne diffuse le idee in provincia. Proprio a Napoli, il 13 genn. 18483 il C. apprese la notizia dell'insurrezione di Palermo e, poiché i liberali della capitale avevano deciso d'iniziare l'insurrezione nel Salernitano, ritenendo impossibile la riuscita di una sommossa a Napoli per la presenza in questa città d'ingenti forze di polizia, egli insieme con il Leipnecher ricevette da Carlo Poerio l'ordine di recarsi nel Cilento.
La zona, in cui viveva una popolazione misera, arretrata, ma ardita e battagliera, resa turbolenta dalla questione delle terre demaniali, travagliata dalla carestia e da una crisi economica, era il luogo ideale per scatenare la rivolta. Il 17 gennaio insorgevano Castellabate, Pollica e Torchiara a opera di gruppi radicali della piccola borghesia. Il C. si pose a capo del movimento insurrezionale a Torchiara, assumendo poi anche il comando degli insorti dei paesi vicini. Si sperava di poter estendere il moto alla Basilicata e alla Calabria, ma la mancanza di una salda e univoca formazione politica con funzione direttiva rese caotiche le operazioni, e l'azione dei rivoltosi si risolse in scorribande di gruppi che si limitarono alla distruzione degli archivi comunali, alla imposizione di taglie ai benestanti e all'uccisione di qualche acceso borbonico.
Nonostante l'impegno e il coraggio del C., l'azione delle bande fu quindi inefficace, ed esse sarebbero state sicuramente sopraffatte dalle truppe regolari del colonnello Labene, se nel frattempo non fosse intervenuto l'atto sovrano del 29 genn. 1848 che concedeva la costituzione. Le bande furono sciolte e un indulto regio assicurò l'impunità agli insorti, che contribuirono largamente alla formazione della guardia nazionale, di cui il C. divenne colonnello. Nelle elezioni per la Camera, nella votazione di ballottaggio del 2 maggio, egli riuscì ad essere eletto deputato.
In previsione dell'apertura dei lavori parlamentari, molti deputati si riunirono il 13 maggio nella sala municipale del palazzo di Monteoliveto a Napoli, per concertare l'azione da condurre per ottenere dal re alcune modifiche alla Costituzione in senso più liberale. Il giorno dopo gruppi armati di patrioti, giunti anche dalle province, ne appoggiarono le richieste manifestando nelle vie. Temendo la violenta reazione delle truppe regie il C. lanciò un appello alla guardia nazionale del Salernitano, esortandola ad accorrere nella capitale, ma da Salerno i liberali moderati, cessato ormai l'entusiasmo, negarono ogni aiuto all'azione dei radicali. Il 15 maggio, domato il tentativo insurrezionale a Napoli, il C. dovette porsi in salvo su una nave francese diretta a Civitavecchia. La sua parve una risoluzione infelice al cognato Del Re ed egli, compreso l'errore, si giustificò in un proclama alla guardia nazionale, manifestando l'intenzione di recarsi a Roma per poter quindi raggiungere la Sicilia e darvi impulso a un'altra sommossa. Partì infatti il 3 giugno per Messina, proseguendo per Milazzo, dove si unì ai volontari siciliani diretti in Calabria. Anche la successiva rivolta di luglio finì, com'è noto, miseramente. Disperse le bande calabresi, al C. non restava possibile che l'estremo tentativo, raccolte nel Vallo del Diano le superstiti forze salernitane e lucane, di tornare nel Cilento, ove credeva che la sua presenza avrebbe rianimato la sommossa. L'impresa fallì sul nascere: il mattino del 4 luglio egli s'imbarcò dalla marina di Praia diretto a Sapri, ma a causa del mare agitato dovette sbarcare ad Acquafredda presso Maratea.
Qui si trovava il prete Vincenzo Peluso, il quale era dovuto fuggire da Sapri e rifugiarsi lì proprio per le minacce che il C. aveva fatte a lui e al vescovo di Policastro, N. M. Laudisio, durante le concitate fasi della rivolta del Cilento. Ancora pieno di rancore, egli, appresa la notizia che il C. e i suoi compagni si trovavano in quel villaggio, convocò parenti e uomini fidi, che armati di fucili si fecero incontro ai ribelli. Alcuni di questi caddero al primo fuoco; il C. ebbe un braccio fracassato e tentò, con il Lamberti, l'Abbamente e il Terzeti, di trovare scampo fra gli alti scogli. Fatto prigioniero, fu condotto dinanzi al Peluso, il quale gli rinfacciò i suoi trascorsi rivoluzionari, impedendo che mani pietose gli fasciassero la ferita. Poi, col pretesto di avviarlo a Lagonegro, per consegnarlo alle autorità regie, lo fece trascinare per viottoli impervi, sospinto a calci e schiaffi, finché uno dei sicari non gli balzò addosso per strangolarlo. Il C. rotolò a terra quasi privo di vita e fu finito con un colpo di pistola alla nuca da un altro sicario, Daniele Calderaro (Mazziotti, II, p. 16). Era il 4 luglio 1848.
Il cadavere fu gettato in un burrone, dove fu scoperto da una pastorella cinque giorni dopo e sepolto ad Acquafredda, nella chiesa della Concezione, per la pietà del sacerdote Daniele Faraco. L'istruttoria giudiziaria, aperta dalla magistratura borbonica, fu sospesa più volte senza giungere a conclusione; condotta a termine dopo il 1861 dalla magistratura italiana, portò il 13 maggio 1883 a una dura sentenza della Corte di assise di Lagonegro, che condannò undici imputati ai lavori forzati a vita. Ma essa non ebbe effetto per decisione della Cassazione.
Fonti e Bibl.:Arch. di Stato di Napoli, Arch Borbone, bb. 946 (carte, mem. ed atti relativi al C.), 954 (carte riguardanti il C.); G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Napoli 1868, p. 122; M. Mazziotti, C. C. e i moti del Cilento, Roma 1909; G. Paladino, Il 15 maggio 1848, Milano 1921, pp. 511 s.; L.Cassese, La borghesia salernitana nei moti del Quarantotto, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., XXXI (1947-49), pp. 395-425; T. Pedio, Il movimento polit. in Basilicata nel 1848, ibid., p.525; M. Fiore, C. C. nel giudizio della magistratura salernitana del suo tempo, in Rass. stor. salernitana, IX(1948), pp. 95-102; G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, III, Milano 1960, pp. 128 s., 238, 240; P. Pieri, Storia milit. del Risorgimento, Torino 1962, pp. 181, 466, 472, 556; Diz. del Risorgimento nazionale, I, p. 225; II, pp. 551 s.; Diz. storico-politico italiano, Firenze 1971, p. 282.