MELLINI, Cosma di Pietro
Documentato dal 1264 al 1292, fu il capostipite di una delle botteghe di marmorari romani, oltre cinquanta artefici riconducibili per lo più a sette ceppi familiari, riuniti convenzionalmente sotto la comune definizione di Cosmati, che si avvicendarono nei secoli XII e XIII nell’esecuzione di arredi architettonici e liturgici, caratterizzati dal commesso di marmi antichi e paste vitree in giochi geometrici vivacemente policromi.
La prima citazione di un «Gusmato marmorario filio domini Petri Mellini» è del 1264 (Giovannoni); si tratta di un documento dell’Archivio dei Ss. Andrea e Gregorio al clivo di Scauro sul monte Celio, in cui il nome del M. compare quale beneficiario di una concessione in enfiteusi.
Il M. è stato sicuramente identificato con l’artista che ha apposto il suo nome in una laconica epigrafe sulla parete sinistra all’estremità del corridoio-vestibolo che immette nella cappella del Sancta Sanctorum, ricostruita tra il 1277 e il 1280 per volontà di Niccolò III allo scopo di custodire le reliquie che appartenevano al Tesoro pontificio. L’iscrizione («Magister Cosmatus fecit hoc opus») indica che, nonostante vi fossero di certo varie maestranze di diversa provenienza, la direzione dei lavori e del cantiere, a esclusione della decorazione pittorica, spettava a un unico magister. Tuttavia resta aperto il problema se l’«hoc opus» in epigrafe si riferisca all’opus musivum o complessivamente all’opus architectonicum oppure a tutti e due i generi.
In questo senso, il M. potrebbe aver rivestito non solo il ruolo di marmorario, pavimentatore e mosaicista, ma forse anche quello di architetto (Gardner, pp. 20-26) o meglio ancora di imprenditore (Claussen, Marmo e splendore …, 2002, p. 162).
In ogni caso, le strutture e le decorazioni architettoniche della cappella duecentesca, curate scrupolosamente nei particolari e con un inusitato sfarzo di materiali, rivelano l’intervento non di un comune marmorario, ma del più abile di loro, il quale, in armonico disegno, seppe creare con equilibrio e misura uno dei pochi complessi edilizi sacri gotici di Roma, attribuendosene in epigrafe l’esclusiva paternità. Le pareti interne della cappella del Sancta Sanctorum, a una sola campata con una piccola abside rettangolare, sono suddivise in tre registri. Il primo di essi, quello inferiore, è rivestito interamente per l’altezza di m 4 con spolia, ovvero lastre di marmi antichi, fissate con grappe di ferro. Il secondo registro è marcato nelle quattro pareti da una cornice marmorea con fregi e foglie d’acanto sotto abachi decorati a ovoli, motivo che richiama quello esterno della cappella. Su tale cornice marmorea poggia un finto ambulacro di otto colonnine tortili di marmo per parete con scanalature dorate, che sorreggono archi trilobi modanati, sovrastati da un’altra elegante cornice di marmo scolpita con ovoli. Le colonnine tortili sono di due tipi: uno a doppia spirale morbida, l’altro più simile al tipo tortile classico, e si bilanciano ritmicamente nello spazio della campata principale. I triangoli tra gli archi trilobi sono decorati con dischetti incassati. I capitelli minori della galleria sono ridotti e semplificati rispetto ai capitelli maggiori delle due colonne di porfido, che sorreggono l’architrave davanti al vano d’altare, e delle quattro incassate agli angoli, che sono fatte di blocchi lapidei di circa cm 45 di altezza. Presi singolarmente, i capitelli presentano peculiari diversità di esecuzione. Infatti 27 capitelli minori sono di tipo romano e tradizionale; 7, invece, si avvicinano più al tipo gotico «moderno». I capitelli maggiori, poi, sono connessi direttamente alle cornici rispettive e fanno corpo con l’opera muraria delle pareti. I fini tabernacoli tra le colonnine dello pseudoambulacro sono abitati da personaggi che assistono a quanto avviene nel sottostante spazio del sacello: profeti, apostoli, pontefici e santi, in qualche modo coinvolti nella storia della cappella, affrescati ai lati della Vergine col Bambino. Evidentemente la decorazione a fresco (di epoca successiva) era voluta nel progetto originario. Lo sviluppo di questo registro, insieme con il terzo sovrastante, è particolarmente interessante perché costituisce l’adattamento, in direzione di una riduzione delle dimensioni e di una generale compressione, dell’alzato del transetto della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi. L’adattamento del modello assisiate alla cappella lateranense fa ritenere che il M. fosse più giovane del collega di Assisi. Si può dire che il Sancta Sanctorum presenti il più abile adattamento sopravvissuto in tutta l’architettura romana del Duecento della travée gotica. Di squisito gusto gotico è anche la volta a crociera, marcata da costoloni a sezione acuta con una chiave di volta a foglie scolpite. Notevole inoltre il sontuoso pavimento a dischi intrecciati che dirige i passi del celebrante verso l’altare.
Un «Cossmato marmorario», in cui è stato visto il M., compare infine nel 1279 e nel 1292 come testimone nella stipula di contratti nel palazzo Vaticano (Claussen, Marmo e splendore …, 2002, p. 166); il personaggio risulterebbe appartenere alla cerchia degli artisti di fiducia di Niccolò III (Cempanari, p. 231).
Alla bottega dei Mellini, che fu a lungo confusa con quella cui apparteneva Cosma di Iacopo di Lorenzo (vedi F. Gandolfo, in Dizionario biografico degli Italiani, XXX, Roma 1984, pp. 66-69), furono commissionati incarichi di notevole rilievo. I quattro figli del M., Iacopo (documentato nel 1293: Claussen, Corpus Cosmatorum, II, 2002, p. 222), Pietro (documentato nel 1292 e nel 1297: ibid., p. 221), Deodato (documentato nel 1290 e nel 1332: ibid., pp. 210-221) e Giovanni (documentato nel 1293 e nel 1299: ibid., pp. 222-232), e il nipote Lucantonio, figlio di Giovanni (documentato nel 1293: ibid., p. 233), compaiono infatti più volte in opere eseguite fra lo scorcio del Duecento e l’inizio del secolo successivo. Essi seppero rispondere alle nuove esigenze del gusto sia con l’autorità di chi era depositario di una tradizione, che nella qualità dei materiali impiegati riponeva ancora gran parte del proprio prestigio, sia piegando il proprio talento all’impegnativo compito di costituire secondo i nuovi sistemi dell’edilizia gotica nordica, fornendo di fatto un’alternativa, anche per quanto concerne le committenze, al deciso imporsi di Arnolfo di Cambio (Bassan). Tra di loro spiccano Deodato e Giovanni. Il primo fu artefice dei cibori di S. Maria in Cosmedin e della cappella di S. Maria Maddalena in S. Giovanni in Laterano, quest’ultimo smembrato in vari pezzi addossati alle pareti interne del chiostro. Egli è ricordato inoltre nella chiesa di S. Pietro a Tivoli e, con il fratello Iacopo, nella realizzazione del pavimento di S. Giacomo alla Lungara. Il suo nome ricorreva in un’epigrafe, oggi scomparsa, della cappella Capizucchi a S. Maria in Campitelli. L’intervento di un «magister Deodatus de Urbe» è attestato, infine, da un’iscrizione, che risale al 1332, posta sull’architrave del portale maggiore del duomo di Teramo (Creti, p. 44).
Di maggiore spicco è però la personalità di Giovanni, artista di rilievo nell’ambito della scultura romana negli anni di Arnolfo, ma con una grande capacità di riflessione e di elaborazione che, tuttavia, «non collimava con un codice e una moda pressoché totalizzanti» (Romano, 1990, p. 171). A Giovanni si devono alcuni pregevoli monumenti funerari, firmati: il primo è quello di Stefano de’ Surdi a S. Balbina (circa 1295), una tomba semplice a sarcofago, con i lati corti rialzati, di notevole originalità formale leggibile nel connubio tra la morbida resa volumetrica e il linearismo teso; il secondo è quello di Guglielmo Durando in S. Maria sopra Minerva (circa 1296), di evidente derivazione arnolfiana, ma non privo di soluzioni originali (la forma del baldacchino non architravato, per esempio); il terzo è quello di Gonsalvo García Gudiel in S. Maria Maggiore (circa 1299), quasi una replica integrale del precedente, in cui, però, il volto del defunto acquista una potenza fino a questo momento inespressa. Assai vicine sono le tombe di Matteo d’Acquasparta in S. Maria in Aracoeli (probabilmente opera di bottega) e del cardinale P.V. Duraguerra (Pietro Valeriani) in S. Giovanni in Laterano (forse di un suo seguace). Giovanni lavorò ancora all’altare maggiore della basilica lateranense in collaborazione con il figlio Lucantonio (Romano, 1990; Creti, pp. 44 s.).
Fonti e Bibl.: G. Giovannoni, Note sui marmorari romani, in Archivio della R. Società romana di storia patria, XXVII (1904), pp. 5-26; P.C. Claussen, Corpus Cosmatorum, I, Magistri doctissimi Romani. Die römischen Marmorkünstler des Mittelalters, Stuttgart 1987, pp. 207-210; II, 1, Die Kirchen der Stadt Rom im Mittelalter 1050-1300…, ibid. 2002, ad ind.; S. Romano, Giovanni di Cosma, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien. Atti del Convegno … Roma 1985, a cura di J. Garms - A.M. Romanini, Wien 1990, pp. 159-171; E. Bassan, in Enciclopedia dell’arte medievale, V, Roma 1994, p. 374 (s.v. Cosmati); J. Gardner, L’architettura del Sancta Sanctorum, in Sancta Sanctorum, Milano 1995, pp. 19-37; P.C. Claussen, Marmo e splendore. Architettura, arredi liturgici, spoliae, in M. Andaloro - S. Romano, Arte e iconografia a Roma dal Tardoantico alla fine del Medioevo, Milano 2002, pp. 162, 166; L. Creti, I «Cosmati» a Roma e nel Lazio, Roma 2002, p. 44; M. Cempanari, Santa Sanctorum Lateranense. Il santuario della Scala Santa dalle origini ai nostri giorni, I, Roma 2003, pp. 101, 220-232; A. Monciatti, I «Cosmati»: artisti romani per tradizione familiare, in Artifex bonus. Il mondo dell’artista medievale, a cura di E. Castelnuovo, Bari 2004, pp. 90-101.