MERLINI, Cosimo
MERLINI, Cosimo. – Nacque a Bologna il 6 ott. 1580, primogenito di Evangelista, orefice. Il M. ebbe due fratelli, Pietro Paolo e Francesco, anch’essi dediti all’arte orafa. Nell’aprile 1603 sposò Dorotea di Pietro Riva: dall’unione nacquero Giovan Battista e Marc’Antonio, che divennero orafi a loro volta. L’attività bolognese del M. non è nota, ma egli doveva essere certo un maestro affermato alla fine del 1614, quando è attestato a Firenze quale orafo attivo nelle botteghe granducali, impegnato in commissioni di prestigio: il 24 dicembre di quell’anno, infatti, il M. ricevette l’incarico di ideare e realizzare due importanti candelieri d’oro destinati alla basilica della S. Casa di Loreto, santuario al quale la famiglia Medici tributava profonda devozione.
I manufatti, commissionati dalla granduchessa Maria Maddalena d’Austria, sono oggi perduti; ma le fonti li descrivono come lavorati a sbalzo e cesello su un’anima di legno di pero e decorati con racemi vegetali e testine angeliche (Papetti).
Negli stessi anni il M. lavorò, su commissione del granduca Cosimo II, al Reliquiario della Vera Croce, detto Croce della Passione, capolavoro dell’oreficeria fiorentina secentesca, destinato alla cattedrale, la cui realizzazione è documentata tra il settembre 1615 e il settembre 1618 (Firenze, Museo dell’Opera del duomo).
L’imponente stauroteca (cm 174 x 130) si presenta come un manufatto luminoso e cromaticamente ricercato, leggero nelle pur notevoli dimensioni: una cornice polilobata in lamina d’oro (percorsa da sottili decori in smalto e intervallata lungo i bordi da gemme di forma ovale) delinea la croce, i cui bracci e i terminali, che racchiudono varie reliquie, sono in cristallo di rocca; al vertice della croce spicca un topazio d’India tagliato a mandorla, che riproduce a grandezza naturale il celebre diamante giallo «Fiorentino», oggi perduto, che dal 1602 riluceva nella tribuna degli Uffizi. Una corona di spine arricchita da granati e perle circonda, all’incrocio dei bracci, la teca che custodisce la particola più preziosa: la reliquia del lignum Crucis. L’opera, in cui trovarono nobile sistemazione alcune delle più venerate reliquie gerosolimitane di proprietà medicea, sembra rispondere a un preciso programma liturgico e simbolico, teso a compendiare nel reliquiario la memoria della Passione e ad accreditare il sovrano committente, Cosimo II, quale erede della spiritualità che fu dei re crociati, e massime di Luigi IX di Francia (Rossi, 2001).
Sull’esempio del marito Cosimo II, nel 1620 Maria Maddalena d’Austria commissionò la realizzazione di una stauroteca per la basilica di S. Maria dell’Impruneta, suppellettile destinata a conservare i due frammenti della Vera Croce, dono, secondo la tradizione, del condottiero Pippo Spano (Filippo Scolari).
Il manufatto, di gusto tardomanierista, manifesta una chiara parentela con il più noto reliquiario di S. Maria del Fiore, nell’utilizzazione del cristallo di rocca per contenere, rendendole visibili, le reliquie. Per questo motivo, unitamente a una coerenza di stile e di qualità esecutiva nel confronto tra i due oggetti, la critica recente ha proposto di attribuirne la paternità al Merlini.
Il successo professionale del M. è testimoniato, in maniera indiretta, anche dall’acquisto di terreni e case (con più rogiti tra il 1619 e il 1620) nella zona periferica dell’Impruneta: dati in gestione, i possedimenti terrieri rendevano bene, tanto da poter rivendere parte del raccolto alla Dispensa granducale; il M., peraltro, abitò sempre a Firenze, nel quartiere di S. Spirito. Dal 1618 al 1624 ebbe un ruolo preminente nella realizzazione del paliotto d’oro che i Medici intendevano offrire per l’altare di S. Carlo Borromeo nel duomo di Milano.
L’opera, commissionata da Cosimo II e ideata dall’architetto Giulio Parigi, era un’offerta votiva con la quale si impetrava la grazia al santo milanese per la salute malferma del granduca: impresa grandiosa dell’oreficeria di corte, il paliotto richiese uno straordinario impiego di mezzi e persone. Oltre al M. sono infatti menzionati Michele Castrucci e Gualtiero Cecchi, «pietristi di Galleria» addetti al commesso di pietre dure, e il gioielliere svedese Jonas Falchi; il M., che lavorò allo sbalzo e al cesello, svolse azione di coordinamento nel lavoro del gruppo. Il paliotto, del quale oggi sopravvive il solo elemento centrale, presentava una struttura tripartita: ai lati due nicchie centinate (delimitate da paraste decorate a grottesche) ospitavano le figure di due putti reggistemma in rilievo; al centro attorniata da un fitto decoro di conchiglie e cartouches, si stagliava la lastra policroma a commesso di pietre dure che rappresentava Cosimo II in atto di preghiera davanti all’altare (Firenze, Museo degli argenti). Essendo morto Cosimo II nel 1621, al compimento del lavoro il paliotto rimase a Firenze e fu esposto in palazzo Vecchio, nella Guardaroba; esso costituì un modello formale più volte replicato e suscitò l’ammirazione dei visitatori fino allo scorcio del XVIII secolo, quando fu smembrato.
Nel 1622 il M., ormai affermato orafo di corte, chiese e ottenne di essere immatricolato alla corporazione degli orefici: dai documenti si evince che egli teneva bottega sul ponte Vecchio insieme con il fratello Pietro Paolo, il quale spesso fungeva da intermediario tra lui e i committenti. In quello stesso anno al M. fu assegnata la realizzazione dell’Urna reliquiario dei ss.Marco papa, Amato abate e Concordia martire, le cui ossa erano state rinvenute durante i lavori dell’altare maggiore della basilica di S. Lorenzo.
La cassa, in lamina d’argento su struttura lignea, fu progettata da G. Parigi e realizzata in brevissimo tempo (aprile-agosto 1622) poiché a corte si desiderava che l’arredo fosse pronto per la festa del santo, il 10 agosto. Il reliquiario, di forma trapezoidale, rivela un gusto compositivo e ornamentale memore del manierismo cinquecentesco, ma reso solenne dalla grandezza del manufatto: al centro, tra due stemmi medicei in aggetto, spicca il rilievo che rappresenta Ferdinando II de’ Medici inginocchiato in preghiera, citazione dichiarata del Paliotto d’oro, sublime capodopera ordinato dal padre Cosimo II. La cassa trovò collocazione sotto l’altare maggiore della chiesa fino al 1787, quando fu spostata nella cappella dei Ss. Cosma e Damiano, detta delle Reliquie, dove si trova tuttora.
L’attività della bottega del M. doveva però essere più vasta.
Infatti, accanto a commissioni tanto prestigiose, sin dal 1620 il M. risulta impegnato anche nella fattura di oggetti minori legati alle necessità quotidiane della corte (quali vasi e suppellettili per la tavola o per la toletta) e nella riparazione di manufatti preesistenti; ugualmente è accertata l’opera, nel tempo, al servizio di chiese e abbazie del contado fiorentino. Fornì arredi liturgici alla chiesa della badia fiorentina, negli anni dell’abate Vittorino Nacci (1619-24; 1629-33): è documentato un Ostensorio di gran valore (perduto) e gli viene attribuito un Pastorale d’argento con nodo figurato (proveniente dalla badia, ora a Firenze, Museo del Bargello). L’attività orafa rivolta alla committenza ecclesiastica sembrerebbe intensificarsi lungo gli anni Trenta, quando il M. eseguì suppellettili sacre per l’abbazia di Vallombrosa (1634), per la chiesa di S. Maria Impruneta (1636-37) e, tra il 1635 e il 1638, per l’arcivescovo Pietro Niccolini, il quale volle dotare il capitolo fiorentino di alcuni arredi sacri, in parte rintracciati in anni recenti.
In tale produzione liturgica, per sua stessa natura conservatrice nelle forme e nel gusto, si distinguono i manufatti elaborati dal M. per il santuario dell’Impruneta: la grata in bronzo dorato che chiude il coretto destro (ma un tempo posta a protezione del Reliquiario della S. Croce nel tempietto michelozziano) e una Pisside figurata. La grata si presenta come un arco a tutto sesto ornato, lungo la cornice esterna, da teste d’angelo e fioroni, che racchiude al centro un fitto intreccio a giorno di girali vegetali da cui si distacca una croce latina contenente i simboli della Passione. L’artefatto, di cui i documenti riferiscono l’esecuzione a partire dal 1634, è da collegare alla solenne traslazione dell’icona della Vergine dell’Impruneta a Firenze nel maggio 1633, occasione in cui furono raccolti importanti ex voto. Seppur composta secondo simmetrie ed equilibri ancora rinascimentali, la grata, esuberante nel decoro e nelle soluzioni figurative, rivela un’evoluzione in senso protobarocco del M., il quale, consapevole della qualità dell’oggetto, orgogliosamente lo firma e lo data al 1636, richiamando nell’iscrizione anche le sue origini bolognesi. Particolarmente originale, dal punto di vista compositivo, è la pisside: sul piede circolare modanato poggiano spighe, i cui steli vanno intrecciandosi, salendo verso il fusto, con un tralcio di vite che reca un grappolo d’uva a tutto tondo con funzione di nodo; il sottocoppa illustra invece, entro ovali incorniciati da spighe, alcune prefigurazioni bibliche dell’eucaristia (la Pasqua ebraica, Sansone sconfigge il leone, Elia e l’angelo). Opera felicemente compiuta nel tentativo dell’artefice di coniugare il simbolo alla forma, la pisside dell’Impruneta manifesta una maturazione in senso naturalistico, tutto secentesco, delle istanze intellettuali e sofisticate della maniera, orientando le superfici dell’oggetto a forti contrasti di luce e ombra, grazie all’aggetto dei decori e al ricorso diffuso ai fondi sablé o puntinati. Coevo della pisside, e vicino nel gusto, è il Calice della chiesa di S. Pietro di Luco, ispirato al tema della Passione. Tra gli oggetti commissionati dall’arcivescovo Niccolini per il capitolo vale ricordare il Pastorale con le figure dei quattro santi vescovi fiorentini (s. Podio, s. Antonino, s. Zanobi, s. Andrea Corsini) e delle titolari della cattedrale (s. Reparata e la Vergine) entro le nicchie del consueto nodo esagonale (Firenze, Archivio del capitolo).
Gli ultimi anni del M. furono al servizio della corte, con la fornitura di lavori minuti e rassettature e occasionali commissioni di maggiore impegno, quali nel 1638 la collaborazione per la cappella reale in S. Lorenzo e la realizzazione di un Ostensorio per la granduchessa Vittoria Della Rovere.
Il M. morì a Firenze il 15 dic. 1641.
Alla sua morte i figli Giovan Battista e Marc’Antonio, che probabilmente affiancavano già da tempo il padre nel lavoro, ottennero dal granduca la concessione della bottega paterna in Galleria. Insieme i due fratelli siglarono, su disegno dell’architetto Alfonso Parigi, il Ciborio d’argento della chiesa dell’Annunziata a Firenze, firmato e datato al 1655. Negli anni successivi la figura di Giovan Battista scompare dai documenti, probabilmente per prematura morte; Marc’Antonio proseguì l’attività familiare, associandosi talora ad altri orefici per la realizzazione di opere impegnative. È questo il caso della Cassa di s. Ranieri nel duomo di Pisa, eseguita nel 1687 da Marc’Antonio con il più giovane Bernardo Holzmann, su progetto di Giovanni Battista Foggini. Proprio Holzmann, a conferma della stretta relazione professionale dei due, nel 1692 ebbe in concessione dal granduca Cosimo III la bottega già appartenuta a Marc’Antonio, morto nel 1688.
La tradizione orafa familiare dei Merlini proseguì con i due figli di Marc’Antonio: Cosimo il Giovane e Lorenzo. Cosimo fu ammesso in Galleria nel 1692 e tre anni dopo fu raggiunto dal fratello. Gli inventari e i quaderni contabili della Guardaroba Medicea registrano una sua vasta produzione (rimasta solo in parte) realizzata, per altro, in stretta collaborazione con gli artisti e i progettisti di corte: Cosimo fu il valido esecutore, su disegno di Foggini architetto granducale, di alcuni reliquiari per le cappelle medicee in S. Lorenzo e curò l’esecuzione, insieme con Holzmann, del Paliotto della Vergine per la basilica dell’Impruneta. Il paliotto, commissionato dal granduca Cosimo III nel 1711 come offerta votiva per ottenere la guarigione del figlio primogenito Ferdinando III, intendeva riallacciarsi alla tradizione di paliotti votivi secenteschi, donati dai Medici ai santuari venerati in momenti di crisi dinastica o di salute pubblica, come fu nel 1633 quando la Vergine dell’Impruneta venne portata in processione in una Firenze martoriata dal contagio pestilenziale; Cosimo III ripeté tale rito nel maggio 1713, ma la morte dell’erede vanificò ogni speranza di una ripresa dal palpabile e definitivo declino della famiglia. L’altare d’argento riprende, nella struttura tripartita, i paliotti precedenti, e segnatamente il Paliotto d’oro di s. Carlo Borromeo: presenta al centro un pannello centrale con il sovrano Cosimo in preghiera e due ovali laterali a bassorilievo che raffigurano, secondo un complesso programma iconografico, il patrocinio e la protezione della Vergine su Firenze e la Toscana. L’ideazione dell’opera si deve a Foggini; mentre è di mano di Cosimo il pannello centrale, un medaglione a bassorilievo incorniciato da fluenti decori fitomorfi e sovrastato dal cartiglio con la dicitura «ex voto»; gli ovali ai lati sono opera di Holzmann, a conferma della lunga contiguità di quest’artefice con la famiglia Merlini. Il paliotto, ultimato nel 1714, appare determinato nella forma ormai codificata, ma sviluppa un linguaggio tardobarocco nell’ornato fastoso e nelle raffigurazioni dolenti e cupe, indicative di una religiosità ormai crepuscolare. Tra i reliquiari è degno di nota il Reliquiario dei santi pontefici (Firenze, chiesa di S. Lorenzo), del tipo multiplo a tabella, ideato da Foggini nel 1715: nonostante il vincolo dello sviluppo verticale del manufatto, Cosimo ottenne un oggetto eminentemente plastico, in cui la lamina d’argento vibra e si apre nello spazio con effetti, anche in forza del differente trattamento delle superfici, di luci mosse e variate.
Cosimo morì a Firenze nel 1736.
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M. Picciau