MEDICI, Cosimo de’ (Cosimo il Vecchio)
Nacque a Firenze il 10 apr. 1389 da Giovanni di Bicci (Averardo) e da Piccarda de’ Bueri. Il M. festeggiava la propria nascita il 27 settembre, giorno in cui ricorreva la festività dei santi Cosma e Damiano, dai quali il M. e il fratello gemello Damiano, che si ritiene sia morto subito dopo la nascita, avevano preso il nome.
Al tempo della nascita del M. la famiglia Medici, benché piuttosto antica e illustre, non era fra quelle di spicco nella vita cittadina o nelle attività commerciali; fu durante il periodo in cui il M. esercitò il suo potere che il ramo della famiglia a cui apparteneva non solo risanò il patrimonio, ma fondò la sua preminenza a Firenze. I Medici avevano avuto prestigiose cariche nel governo della città con Ardingo, che nel 1291 era stato eletto priore delle Arti e nel 1296 gonfaloniere di giustizia. Nel corso del XIV secolo la famiglia acquisì vaste proprietà terriere nel Mugello, la strategica zona collinare a nord di Firenze, dove le ville, o fortificazioni, di Cafaggiolo e Trebbio erano situate sulla strada che conduceva a Bologna, nelle Marche e a Venezia. Queste proprietà avrebbero offerto al M. la possibilità di riparare in campagna nei momenti di tumulto in città e gli garantirono la disponibilità di seguaci fedeli, sull’aiuto dei quali poté fare affidamento durante i periodi di tensione nella città. Durante il XIV secolo i Medici avevano vissuto momenti di ribellione e di contrasti con le istituzioni cittadine; tra il 1343 e il 1360 cinque rappresentanti della famiglia erano stati condannati a morte. Nel 1378 Salvestro fu uno dei capi del tumulto dei ciompi: ciò diede ai Medici la reputazione di avere simpatie per il ceto popolare. Nel 1400 i Medici furono esclusi dai pubblici uffici per venti anni; solo il ramo di Bicci e i discendenti di Vieri di Cambio de’ Medici furono esentati da questo bando.
La principale fonte del patrimonio del M. proveniva dal banco Medici. Dal 1395 il padre del M. aveva aperto il banco a Roma, che divenne la base della ricchezza e del successo anche dei suoi discendenti. Il banco fu costituito grazie all’associazione con l’attività di affari già avviata dal cugino Vieri di Cambio e durante i primi anni di attività cooperò con il banco, anch’esso a Roma, del nipote di Giovanni, Averardo di Francesco. Nel 1397 Giovanni rientrò a Firenze e costituì una compagnia con Gentile Boni e Benedetto di Lippo de’ Bardi, con diramazioni a Venezia e a Roma, che si occupava di attività bancaria internazionale su più vasta scala. Nel secondo decennio del XV secolo i Medici erano tra i principali banchieri pontifici. Nel 1410 era divenuto papa Baldassarre Cossa (l’antipapa Giovanni XXIII), amico di Giovanni de’ Medici, e gli uffici del banco lo seguirono nel 1414 al concilio di Costanza, al quale si ritiene che il M. abbia partecipato accompagnato da Poggio Bracciolini e da Leonardo Bruni. Dopo che Giovanni XXIII fu deposto e imprigionato, un agente di Giovanni organizzò la sua liberazione e pagò il riscatto nel 1419; quando Cossa morì, a Firenze il 27 dicembre dello stesso anno, Giovanni e il M. furono nominati esecutori delle sue volontà ed ebbero la soprintendenza dei lavori di erezione della sua grandiosa tomba nel battistero di Firenze ad opera di Donatello e Michelozzo.
Dal 1420 il responsabile del banco a Roma, Bartolomeo de’ Bardi, fu depositario della Curia sotto il pontificato di Martino V. Questa carica fu mantenuta continuativamente dal banco Medici per ventidue anni e, in modo saltuario, per ulteriori due decenni. Così, per gran parte della vita del M. il banco Medici si occupò dei lucrosi affari della corte papale, che furono alla base dell’espansione del banco stesso in Europa e lo portarono a essere una tra le principali istituzioni finanziarie dell’epoca. Oltre che all’incarico ottenuto dalla corte pontificia, molto del successo del banco può essere attribuito alla fedeltà dei suoi associati. Il banco aveva alle dipendenze esclusivamente membri della famiglia Medici o loro parenti o fedelissimi amici. Dopo il consolidamento della fazione medicea, agli inizi degli anni Trenta del XV secolo, gli agenti erano abitualmente presi da un gruppo ristretto di amici fidati e parenti acquisiti per via matrimoniale, tra i quali appartenenti alle famiglie Bardi, Benci, Martelli e Portinari, l’associazione con i quali consentì ai Medici di estendere il loro potere e la loro influenza negli affari, nella politica e nella società.
Nel 1429, poco prima della sua morte, Giovanni di Bicci era il più ricco cittadino di Firenze. Egli si era comunque ritirato dall’effettiva direzione del banco nel 1420 lasciando il suo posto ai figli, il M. e Lorenzo. Il M. aveva una eccezionale predisposizione per l’attività bancaria e sotto la sua direzione il banco raggiunse l’apice del successo, espandendosi e diversificandosi fino alla metà degli anni Cinquanta, quando arrivò ad avere numerose filiali e rappresentanze in tutta l’Europa occidentale. Il M. mantenne le redini degli affari strettamente nelle sue mani, dirigendo le operazioni per mezzo di un costante flusso di corrispondenza con i suoi associati. Nel luglio 1464, solo un mese prima della morte del M., Tommaso Portinari, direttore della filiale di Bruges, relazionava direttamente con lui; in quello stesso periodo il figlio maggiore del M., Piero, scriveva ai propri figli Lorenzo (Lorenzo il Magnifico) e Giuliano descrivendo il loro nonno come un «bene avventurato mercatante» (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo avanti il principato, 163, c. 2r: 26 luglio 1464).
Alla fine degli anni Venti il M. era riconosciuto come un vero patriarca dall’intera stirpe dei Medici, che nel 1427 comprendeva 27 nuclei familiari. Intorno al 1415 il M. aveva sposato Contessina de’ Bardi, dei conti di Vernio, nel Mugello. Ebbero i figli Piero e Giovanni. Il M. ebbe anche un figlio naturale, Carlo, da una schiava circassa.
La forte autorità del M. si estendeva oltre i confini della famiglia per comprendere parenti, vicini e amici, fino ad arrivare, in qualità di pater patriae, all’intera città di Firenze; era anche un devoto pater familias, molto preoccupato per la salute delle donne della sua famiglia, comprese la cognata Ginevra Cavalcanti e le nuore Lucrezia Tornabuoni e Ginevra Alessandri. Era molto rispettoso della moglie e sorprendentemente dipendente da lei per gli affari domestici. Osservava una volta il factotum di casa, Alesso Pelli, in una lettera a Giovanni de’ Medici del 4 luglio 1442: «Cosimo è quasi guarito, senon che non escie fuori; non credo esca se Mona Contessina non torna, che lo rafazoni che è tutto scassinato» (ibid., 5, c. 451).
In quanto figlio maggiore il M. ereditò dal padre il considerevole prestigio di cui questi godeva come uomo politico e diplomatico. Furono frequenti i suoi interventi nelle consulte e pratiche, dove i più importanti cittadini fiorentini consigliavano la Signoria sulle questioni di Stato. In misura sempre crescente fu incaricato di missioni diplomatiche e fu tra i Dieci di balia e gli Ufficiali del banco, le magistrature incaricate della gestione e del finanziamento delle guerre nelle quali la Repubblica fiorentina era pressoché costantemente impegnata. Nella sua voluminosa corrispondenza, sia ufficiale sia privata, il M. dimostra un notevole interesse e una notevole competenza nella strategia militare. Definito «un condottiere d’huomini» (De Roover, 1953, p. 472), il M. fu ammiratore dei più esperti capitani di ventura del suo tempo, che furono impiegati dal Comune fiorentino durante la guerra contro Lucca, tra il 1429 e il 1433. Strinse amicizia con Niccolò Mauruzzi da Tolentino, Micheletto Attendolo e, più tardi, con Francesco Sforza. Un componimento poetico pubblicato da Lanza e attribuito al M. è indirizzato a Francesco Sforza e vi si esprime l’ammirazione per il condottiero secondo i principî che per il M. erano necessari nella politica, nella vita e nell’arte.
Il M. svolse, insieme con il cugino Averardo, un ruolo di primo piano nella guerra contro Lucca, che era in gran parte finanziata dagli ingenti prestiti del banco Medici e dei più ricchi amici del M., tra i quali Andrea Pazzi, socio del banco di Averardo, e Antonio di Salvestro Serristori, genero dello stesso Averardo. Gli anni della guerra offrirono al M. l’opportunità di mettere a frutto e di mostrare in pieno il suo talento nel prendere decisioni.
Al pari delle altre importanti famiglie nobili, in cambio della fedeltà i Medici garantivano a un gruppo di soci personali protezione e avanzamenti di carriera, in particolare negli affari politici e finanziari. La rete clientelare dei Medici era composta di congiunti, parenti, vicini e amici. Dalla corrispondenza tra i Medici e i loro amici e clienti risulta chiaro che il M. e suo cugino Averardo consapevolmente coltivarono questi legami tradizionali e che i membri della parte medicea utilizzarono qualunque mezzo del complesso sistema elettorale cittadino per far eleggere i propri amici alle cariche pubbliche, sollecitandoli, una volta eletti, a esercitare il loro potere nell’esclusivo interesse di parte. Benché fosse strettamente vietata dalla legge, questa pratica era piuttosto comune presso i cittadini più influenti di Firenze: dall’inizio degli anni Trenta del XV secolo fu il M. che divenne il più potente patrono della città e capo della parte o fazione più rilevante del sistema politico.
I principali rivali del M. nel regime dominante, tra i quali vi erano membri delle famiglie Albizzi, Peruzzi e Gianfigliazzi, intimoriti dalla progressiva crescita del potere mediceo, nel settembre 1433 tentarono di contrastare preventivamente l’egemonia medicea costringendo all’esilio il M. e gli altri capi del suo clan. Il 5 settembre il M. fu convocato presso il palazzo dei Priori con il pretesto di una pratica; al suo arrivo fu immediatamente arrestato e incarcerato. Fu quindi convocato un Parlamento sotto l’attenta sorveglianza di 500 soldati mandati dal conte di Poppi, Francesco Guidi, e fu nominata una Balia per riformare il governo. Al M., a suo fratello Lorenzo, al cugino Averardo e ad altri componenti della famiglia fu comminato il bando per un periodo che andava dai cinque ai dieci anni. Inizialmente Lorenzo ebbe il timore che il M. fosse stato ucciso, ma il M. era invece riuscito a liberarsi offrendo – come egli stesso ammise – un’ingente somma di denaro ai suoi rapitori. Andò allora in esilio a Venezia, dove il banco Medici aveva un’importante filiale. I fratelli e i componenti più giovani della famiglia trovarono così una comoda sistemazione in quella città come ospiti di riguardo presso il doge Francesco Foscari, loro amico, in attesa di sviluppi.
Il bando dei Medici, al contrario di quanto progettato, risultò decisivo per il consolidamento dell’autorità del M. a Firenze. La sua assenza dalla città servì a dimostrare che la sua ricchezza e le sue qualità di uomo di Stato lo avevano reso indispensabile. Inoltre, la presenza internazionale del banco dei Medici e il suo legame con il Papato accrebbero molto l’influenza personale del M. presso principi italiani ed europei, compresi i re di Francia e Inghilterra e l’imperatore, che disapprovarono l’azione fiorentina contro i Medici.
La rete dei rapporti di protezione dei Medici si estendeva a numerose persone e luoghi fuori Firenze; le richieste al M. di protezione e di sostegno da parte di cittadini stranieri e da parte di città costituiscono la percentuale maggiore delle lettere di raccomandazione da lui ricevute dopo il 1434. Nei suoi ricordi degli eventi del 1433-34, il M. attribuì la sopravvivenza del suo banco, che era alla base del suo potere e della sua autorità, al fallimento del tentativo di minare la fedeltà dei suoi clienti, e attribuì la sua stessa sopravvivenza e la prosperità della quale successivamente egli godette alla benevolenza e alle azioni accorte dei suoi amici fidati.
La lealtà dei sostenitori dei Medici rimasti a Firenze e la pressione sul governo cittadino da parte dei loro amici all’estero furono importanti per il mantenimento dell’influenza del M. e per prepararne il rimpatrio. E l’esilio, che avrebbe potuto mettere fine alla carriera di un rozzo capo fazione, si trasformò in un trionfo grazie alla personalità del M. e alla fiducia che egli nutriva nella sua missione. Rifiutando decisamente ogni proposta di complotto finalizzato al suo rientro, il M. sostenne con fermezza che egli sarebbe rientrato in città solo così come l’aveva lasciata, ossia per ordine della Signoria. Questa posizione di prudenza e di correttezza verso le istituzioni fu ricompensata presto, al punto che nel febbraio 1434 una lettera proveniente dalla ancora ostile Signoria elogiava il suo comportamento come irreprensibile. Nel settembre 1434, esattamente un anno dopo la sua condanna all’esilio, fu estratta una Balia pressoché interamente filomedicea. Anche successivamente, benché i suoi amici lo spingessero a rientrare a Firenze, egli rimase in attesa di un ordine ufficiale «non volendo fare niente contro il volere della Signoria» (Ricordi, p. 100). D’altro canto, la fazione antimedicea sfidò imprudentemente la Signoria e le istituzioni repubblicane da essa rappresentate: il piano di attaccare con la forza delle armi il palazzo dei Priori fu respinto dal papa, che in quel momento si trovava a Firenze. Il M. fu così richiamato e pubblicamente riconosciuto come il più importante cittadino di Firenze. I suoi nemici furono a loro volta esiliati e i loro reiterati tentativi di ribellarsi con l’aiuto di Milano, governata da Filippo Maria Visconti, furono sconfitti definitivamente nel 1440, nella battaglia di Anghiari dall’esercito fiorentino al comando del quale erano il cugino del M., Bernardetto de’ Medici, e il suo amico Neri Capponi.
Dopo il 1434 la deliberata manipolazione del sistema elettorale si era affinata a tal punto che trasformò in breve tempo la fazione medicea da fazione interna al sistema politico fiorentino in un vero e proprio regime.
La rete di clientele dei Medici si allargò fino a comprendere una gran parte della cittadinanza. Le elezioni ai pubblici uffici furono controllate da Balie dominate da amici dei Medici, i quali acquisirono poteri straordinari: designavano accoppiatori di loro fiducia per riempire le Borse elettorali con i nomi dei sostenitori del Medici. Questa situazione era giustificata sulla base delle continue guerre e delle crisi economiche da esse provocate, ed era accettata dalla maggior parte dei cittadini grazie ai successi del M. e dei suoi più vicini sostenitori nell’affrontare questi problemi. Il M. piegò l’opposizione tenendo un basso profilo e conservando il più possibile l’apparenza di essere soprattutto un primus inter pares e facendo sembrare la maggior parte delle sue decisioni come prese non da lui stesso ma da altri, così come riporta il suo biografo Vespasiano da Bisticci e come è confermato dalle testimonianze presenti nelle consulte e pratiche nelle quali si discutevano le principali questioni relative al governo.
Soprattutto dopo il 1434 il M. ricoprì diverse cariche importanti: fu dei Dieci di balia nel 1437-38, nel 1439, nel 1440, 1441, 1451-52 e nel 1453-54; degli Otto di guardia nel 1445 e nel 1459; degli Ufficiali del Monte dal 1445 al 1448 e dal 1453 al 1455. Grazie agli interventi dei suoi alleati nelle borse, il M. divenne gonfaloniere di Giustizia nel gennaio e febbraio del 1435, poco dopo il ritorno dall’esilio, nel momento in cui furono emanate le riforme chiave che costituirono le basi dello «stato» mediceo. Il M. rivestì la stessa carica ancora nel gennaio e febbraio del 1439, e ciò gli consentì di ricevere ufficialmente gli illustri partecipanti al concilio fiorentino che riuniva rappresentanze della Chiesa d’Oriente e della Chiesa d’Occidente e che lo stesso M. aveva in gran parte finanziato. Ma soprattutto la posizione del M. a Firenze dipendeva, come quella dei principes civitatis della Roma repubblicana, da quella indefinibile qualità alla quale Vespasiano da Bisticci si riferiva come «autorità». Tale caratteristica è dimostrata soprattutto dal peso che le opinioni del M. avevano all’interno delle consulte e pratiche, al punto che quando egli non era presente, molti ritenevano che prima di prendere una decisione occorresse sentire il suo parere.
L’autorità del M. ebbe un solenne riconoscimento pubblico in occasione della consacrazione della cattedrale di Firenze, nel 1436, da parte di papa Eugenio IV, dopo che era stata portata a termine la costruzione della cupola di F. Brunelleschi. Alla fine della messa il cardinale di S. Marcello, Antonio Casini, annunciò le indulgenze ottenute in quell’occasione speciale per la remissione dei peccati delle anime del purgatorio: «ogni ano sei et sei quarantene»; successivamente, «stimolato dipoi da prieghi del nobile cittadino Cosma de Medici, corretto in fino in 7». Il M. continuò a implorare affinché le indulgenze aumentassero, e la questione si concluse con l’accordo con il cardinale per dieci anni e dieci quarantene «avendolo già a tutti gli altri cardinali e signori di Firenze negato» (Belcari in Saalman).
Ma non sempre prevalse la posizione del M.: agli occhi della popolazione la sua autorità crebbe grazie al legame con Francesco Sforza, il leggendario condottiero le cui imprese erano molto ammirate dai Fiorentini e che divenne duca di Milano nel 1450 grazie alle sue conquiste e al matrimonio con la figlia di Filippo Maria Visconti. Il M. ebbe però notevoli difficoltà a convincere gli ottimati e le istituzioni ad aiutare finanziariamente lo Sforza nelle sue guerre e ad accettare lui come principale alleato al posto della tradizionale Venezia. Alla fine il M. ebbe la meglio, e lui e lo Sforza portarono la penisola verso una lunga e complessa serie di guerre che ebbero termine solo nel 1454, con la pace di Lodi stipulata tra Firenze, Venezia, Milano, Napoli e il Papato. Paradossalmente, questo successo aprì definitivamente la strada, alla metà degli anni Cinquanta, alla crescente ed esplicita opposizione alle modifiche della costituzione repubblicana affermatesi con il M. e quindi alla più grande sfida al suo primato. Nel partito dei Medici non mancavano i fautori di un ritorno alle tradizionali pratiche elettorali repubblicane, mentre altri sostenevano, al contrario, l’energico controllo da parte della famiglia. La posizione del M. sembra essere stata in proposito moderata, al punto che nel 1455 rifiutò l’offerta di Francesco Sforza di un aiuto militare per mantenere l’autorità dei Medici.
Negli ultimi anni di vita del M. alcuni tra i suoi più stretti amici, tra i quali Angelo Acciaiuoli e Dietisalvi Neroni, cercarono di prendere il suo posto nella considerazione dello Sforza quali portavoce della Repubblica fiorentina.
In ogni caso, la maggior parte dei cittadini più importanti di Firenze era favorevole a mantenere lo status quo che comportava una combinazione di atteggiamenti più duri e più concilianti. Nel 1458 il Catasto, base di una esazione più equa rispetto alle disposizioni successive al 1434 che avevano favorito i ricchi fautori dei Medici, fu ripristinato secondo il volere popolare. Poco tempo dopo, truppe guidate dal signore di Faenza, Astorgio Manfredi, furono inviate a Firenze dal duca di Milano e fu quindi nominata una Balia per tenere un nuovo scrutinio, a seguito del quale fu creato un nuovo e solido Consiglio mediceo detto «de’ Cento», i cui membri erano selezionati direttamente dalla Signoria e da tutti coloro che avevano ricoperto l’incarico o che erano stati estratti per la carica di gonfaloniere di Giustizia dal 1434. Tale consolidamento del regime si mantenne fino a dopo la morte del M., quando la questione della sua «successione» provocò una rinnovata opposizione al figlio Piero, che fu alla fine tenuta sotto controllo grazie all’aiuto milanese e di altre armate.
Allo stesso modo, mentre l’esperienza e l’avvedutezza del M. avevano tenuto a bada l’incombente declino del banco Medici, esso decadde dopo la sua morte a causa della combinazione dell’inabilità da parte del figlio Piero, dell’inesperienza del nipote Lorenzo e, più in generale, a causa delle avverse condizioni economiche.
Il M. fu il più importante mecenate fiorentino della prima metà del XV secolo nel campo delle arti e della letteratura. Benché le opere da lui commissionate siano state ritenute soprattutto come un’evidente espressione del potere politico senza precedenti detenuto dalla sua famiglia, nel suo mecenatismo, così come nel suo patronato, egli si adeguò agli stessi modelli e ideali di altri importanti cittadini, tra i quali suo padre. Come loro, il M. e i suoi figli commissionarono opere ispirate alla riscoperta delle forme classiche, allo scopo di celebrare la propria famiglia e la propria città. Il mecenatismo del M. era parte integrante del suo patrimonio e, come il patronato personale e politico, era espressione dei suoi interessi e della sua parte politica.
In un intervento il M. disse di Firenze: «hec civitas dedita sit mercature, litteris et otio» (Arch. di Stato di Firenze, Consulte e pratiche, 52, c. 62v). L’unica sua osservazione relativa all’arte fu un commento sulla capacità di giudicare come abilità trasferibile da un campo all’altro. Scriveva al cugino Averardo: «Benché none abiamo quella sperienzia de’ fatti dell’arme che a chi lli praticha chontinuamente, pure non è che veduto quello si fa per gli altri non si possa giudicare chi faccia meglio: chredo tu no sii um buono dipintore et pure giudicheresti che le fighure di Giotto stessono meglio che quelle del Balzanello» (Ibid., Mediceo avanti il principato, 4, c. 246). Le sue opinioni sull’arte e la letteratura, che erano alla base della sua attività di patronato, furono espresse nel poema in lode di Francesco Sforza, dove si affermava che come nella guerra, l’arte e la vita dovevano essere caratterizzate da «arte, ‘ngegno, ordine e misura» (Lanza, II, pp. 55 s.). Per Vespasiano da Bisticci egli fu il padrino della virtù, il mecenate e benefattore che «soveniva gli uomini che avevano qualchè virtù» in quanto egli provava un grande piacere nell’osservare «la varietà degli ingegni» (II, pp. 200, 204). La scelta degli artisti e delle opere da commissionare sembra essere dettata soprattutto da questo principio.
Le prime opere commissionate dal M. furono quelle ereditate dal padre, come la tomba dell’antipapa Giovanni XXIII di Donatello e Michelozzo nel battistero del duomo di Firenze. Come esponenti di primo piano dell’arte del cambio, padre e figlio ricoprirono poi un ruolo importante nel finanziamento e nella commissione del 1419 a Lorenzo Ghiberti di una statua di bronzo dedicata al patrono dell’arte, s. Matteo, sulla parete esterna del pilastro di nordovest dell’oratorio di Orsanmichele. Nel 1419 Giovanni di Bicci commissionò a Filippo Brunelleschi la costruzione della sacrestia (la «sagrestia vecchia») per la chiesa di S. Lorenzo, parrocchia dei Medici, che doveva servire come luogo di sepoltura. Dopo la morte di Giovanni, nel 1429, il M. e il fratello Lorenzo incaricarono Donatello del completamento e della decorazione della sacrestia, con l’installazione di una tomba destinata ai loro genitori. Alla morte del fratello, avvenuta nel 1440, il M. assunse l’esclusiva responsabilità del progetto di ricostruzione secondo lo stile rinascimentale dell’intera chiesa di S. Lorenzo, dedicata al santo protettore del defunto.
Riverenza per la famiglia, lealtà verso gli amici, i vicini e i sostenitori, unite al desiderio di abbellire l’immagine civile dei Medici rappresentarono uno stimolo importante all’attività del M. in quanto patrono delle arti. Ma il suo personale spirito religioso rappresentò un motivo più importante benché non sia stato preso sempre troppo sul serio. Quando non aveva ancora trent’anni, nel 1418, nella sua biblioteca si trovavano molti testi religiosi e nella sua casa molte immagini devozionali.
Il restauro del convento domenicano di S. Marco, a pochi passi dalla dimora dei Medici di via Larga, fu la principale opera commissionata dal M. e fu iniziata alla metà degli anni Trenta. Per affrescare le celle e gli spazi comuni del convento il M. scelse il Beato Angelico (Guido di Pietro), che era un membro della comunità monastica e un artista ammirato dal M. per le sue opere di carattere religioso, presenti anche nel palazzo dei Medici.
Le annotazioni di mano del M. in una copia delle Institutiones di Cassiano dimostrano il suo interesse per la vita monastica; egli inoltre aveva fatto costruire una speciale doppia cella a S. Marco come personale luogo di ritiro spirituale.
Sulla decisione del M. di ricostruire S. Marco, Vespasiano da Bisticci metteva l’accento sul fatto che nella conduzione dei suoi affari come banchiere e come politico il M. «non poteva essere ch’egli non vi avessi messo assai della coscientia, come fanno i più di quegli che governavano gli stati et vogliono essere inanzi agli altri». Durante un’udienza con papa Eugenio IV il M. auspicava «che Iddio gli avessi misericordia et conservassilo in questi beni temporali» (pp. 177 s.) e il papa gli suggerì di investire 10.000 fiorini in S. Marco per scaricare il peso della sua coscienza. La conversazione narrata da Vespasiano da Bisticci rappresenta una forma di contratto spirituale, e quando il restauro del convento fu completato, il papa con una bolla attestò che l’atto di carità del M. aveva l’effetto di espiazione dei peccati. L’inizio della bolla fu inciso sull’architrave della porta di accesso alla sacrestia di S. Marco.
Il M. procurò i libri per la biblioteca che Michelozzo costruì in S. Marco e alla metà degli anni Cinquanta fece restaurare la badia fiesolana, che dotò, anche in questo caso, di una biblioteca e di una cella a lui riservata: il rinnovamento della chiesa e del convento di quella badia fu l’ultima grande opera commissionata dal M., e rimase incompiuta dopo la sua morte.
A parte il palazzo di famiglia, tutte le opere direttamente commissionate dal M. furono relative alla costruzione o alla decorazione di chiese e cappelle: nell’insieme esse rappresentano una grande azione volta alla sopravvivenza dopo la morte. Il palazzo Medici, la cui costruzione fu iniziata nel 1445 e portata a termine alla fine degli anni Cinquanta, rappresentò fisicamente la casa Medici e la sua glorificazione.
Il progetto prevedeva che vi abitassero tutti i discendenti di Giovanni di Bicci. All’esterno il palazzo rievocava la robustezza delle case del periodo comunale, mentre i dettagli classicheggianti esprimevano il nuovo entusiasmo per le forme antiche così come la dignità e il ritegno che Cicerone, lo scrittore preferito del M., riteneva appropriati al cittadino virtuoso. All’interno il palazzo fu riccamente decorato secondo il gusto raffinato dei suoi abitanti, divenendo così una sorta di deposito di oggetti di famiglia nei più innovativi stili e generi dell’arte fiorentina.
La maggior parte degli oggetti creati per il palazzo era di carattere devozionale. Ne facevano parte opere di Donatello, l’artista preferito del M.: di tutti gli oggetti creati per lui in circa quarant’anni, nessuno esprime la prodigiosa originalità di Donatello come il David bronzeo, simbolo per i Fiorentini di moralità civile e di libertà nonché complessa e sofisticata unione degli interessi del M. per i temi cristiani, classici, civili e militari. L’interesse del M. per la guerra e per la vita militare appare anche dalla vasta collezione di armature e di armi che egli teneva nella sua camera e nel suo studiolo.
Il cuore del palazzo era rappresentato dalla cappella, una delle poche costruite in una casa privata nel corso del XV secolo. Situata proprio al centro del palazzo, fu decorata da Benozzo Gozzoli con affreschi raffiguranti il motivo del viaggio dei magi. Metafora del percorso spirituale della ricchezza e del potere che si sottomettevano a Cristo, questo soggetto fu uno dei preferiti della famiglia Medici: molte altre rappresentazioni dei magi, da parte di artisti come il Beato Angelico, Filippino Lippi e Domenico Veneziano, sono elencate nell’inventario dei beni di famiglia presenti nel palazzo Medici compilato dopo la morte di Lorenzo de’ Medici, nel 1492.
Benché avesse ricevuto un’istruzione finalizzata all’attività di banchiere, il M. acquisì anche una preparazione letteraria grazie alle frequenza delle discussioni degli umanisti come Roberto de’ Rossi, che promuoveva il ritorno agli studi classici e lo studio degli antichi autori cristiani.
Secondo Vespasiano da Bisticci il M. ebbe una «bonissima peritia delle lettere latine», inoltre «era molto afectionato agli uomini dotti, et conversava volentieri con tutti, et maxime con frate Ambruoso degli Agnoli, con meser Lionardo d’Arezo, con Nicolaio Nicoli, con meser Carlo d’Arezo, con meser Poggio» (pp. 168 s.). Niccolò Niccoli e Poggio Bracciolini erano fin dalla gioventù suoi cari amici, ed egli generosamente li aiutò economicamente nella loro ricerca di codici di testi classici. Con il loro aiuto mise insieme una ricca biblioteca, che fin dal 1418 contava oltre settanta volumi. Donò molti volumi alla biblioteca del convento di S. Marco, tra i quali la collezione di manoscritti di Niccolò Niccoli dopo la morte di quest’ultimo e donò libri anche alla biblioteca del convento della badia fiesolana. Molti dei volumi da lui commissionati furono forniti da Vespasiano da Bisticci.
Diverse opere furono dedicate o presentate al M., dall’Hermaphroditus di Antonio Beccadelli detto il Panormita, alla traduzione latina di Leonardo Bruni degli Oeconomica attribuiti ad Aristotele. Alla metà degli anni Cinquanta traduzioni degli scritti aristotelici furono compiute per il M. da Giovanni Argiropulo. L’interesse del M. per le idee neoplatoniche si espresse con il patrocinio dell’attività di Marsilio Ficino, figlio del primo medico di famiglia dei Medici. Il M. concesse a Ficino l’utilizzo di una abitazione nella proprietà di Careggi, e Ficino omaggiò il M. presentandogli la traduzione delle opere di Platone.
Il M., da tempo sofferente di gotta, morì nella sua villa di Careggi il 1° ag. 1464.
Gli ultimi anni della sua vita erano stati rattristati dalla perdita, nel 1459, dell’amato nipote Cosimino, il figlio di cinque anni di Giovanni, dalla morte dello stesso Giovanni, avvenuta nel 1463, e dalla sua malattia. Comunque, benché avesse formalmente lasciato la direzione del banco ai figli nel 1453, egli non si era mai ritirato completamente dalla gestione degli affari e della politica. Egli stesso aveva predisposto ogni particolare per il funerale, la tumulazione e la commemorazione. La sepoltura fu posta sotto una lapide del pavimento della chiesa di S. Lorenzo, collocata subito prima dell’altare maggiore; per essa il M. aveva commissionato a Donatello due pulpiti raffiguranti gli eventi principali della Rivelazione, la Crocifissione e la Resurrezione; aveva poi dato disposizioni affinché i suoi funerali fossero semplici e affinché vi partecipassero soprattutto i rappresentanti della grande famiglia dei Medici, coloro che abitavano nelle ville di Careggi e Cafaggiolo e il clero di S. Marco, S. Lorenzo e della Badia a Fiesole.
L’unica carica che gli fu riconosciuta in una Repubblica nella quale non possedeva alcun titolo per esercitare il suo potere gli fu conferita dopo la sua morte, nel marzo del 1465, quando un decreto cittadino gli rendeva onore in qualità di pater patriae, in quanto il M.: «cum summa atque amplissima beneficia in rem publicam florentinam bello et pace contulerit, semperque patriam suam omni pietate conservaverit, adiuverit, auxerit eique magno usui et glorie fuerit, atque usque ad supremum virum ac civem optimum decent, non secus ac pater familias propriam domum omni cura, studio, diligentiaque gubernarit pro eius maximis virtutibus beneficia et pietas» (Arch. di Stato di Firenze, Provvisioni, Registri, 155, cc. 261v-263v).
La fama del M. presso gli scrittori contemporanei fu alterna: criticato per l’accentramento del potere nelle sue mani, fu però anche apprezzato per la sua saggezza e il suo equilibrio, nonché per il suo successo. Egli ebbe anche fama presso il popolo, che lo apprezzava per la sua abilità come diplomatico e uomo di Stato difensore dell’indipendenza e della libertà fiorentine.
Il suo epistolario rappresenta la testimonianza migliore sulla sua vita quotidiana e le sue principali preoccupazioni. La corrispondenza relativa al M. può essere suddivisa in cinque gruppi principali: le lettere familiari, che lo ritraggono come un attento e amorevole pater familias; le lettere agli amici, che testimoniano la sua instancabile attività di patrono e capo partito; la corrispondenza con gli impiegati nel banco, che documenta l’accorto ma anche audace uomo d’affari, le lettere al cugino Averardo, nelle quali si rivelano le stratega politico e il soldato; le lettere che come un capo di Stato scambiava con l’amico e alleato Francesco Sforza.
Visto nella prospettiva del nipote Lorenzo di Piero, che accrebbe il governo personale a Firenze, e in quella dei discendenti che circa sessanta anni dopo la morte del M. diventeranno duchi di Firenze, il M. è stato spesso descritto come signore di Firenze. In realtà, nonostante le modifiche da lui apportate alla costituzione della città per assicurare un posto di primo piano ai suoi sostenitori negli uffici pubblici, Firenze si mantenne istituzionalmente una Repubblica, alla vita della quale parteciparono molte tra le famiglie della sua stabile e resistente classe dirigente fino a che la città non fu conquistata dalle truppe imperiali nel 1530. La vita del M. può essere più correttamente descritta come quella di un uomo assolutamente convinto di avere i requisiti migliori per servire la sua patria come cittadino di primo piano, patrocinatore e protettore.
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