Cose belle e utili: la nascita del prodotto industriale
In Italia, di ‘disegno’ – e di ‘prodotto’ industriale – non si può parlare finché il Paese non vive una realtà industrializzata: e, dunque, solo dopo la Seconda guerra mondiale. Ma alla VII Triennale di Milano, nel 1940, fu esposta una serie di oggetti realizzati da un avanzato artigianato meccanizzato, in occasione di una Mostra internazionale organizzata da Giuseppe Pagano Pogatschnig (1896-1945), architetto, designer e teorico, nella quale, per la prima volta, si utilizzò appunto il termine produzione di serie.
Data emblematica, questa del 1940, per il disegno industriale italiano, anche se la ricerca progettuale degli anni precedenti era già stata molto interessante, pur in assenza delle sollecitazioni dell’industria. Di fatto, la storia e le fortune del design made in Italy coincideranno con la storia e la cronaca del nostro processo di industrializzazione: più probabilmente, però, la nascita della ‘figura’ del designer, del progettista di modelli che l’industria produce su vasta scala e con mezzi meccanici, va collocata ad apertura del decennio Cinquanta, quando si instaura, a dirla con Gillo Dorfles (1957), una «vera e propria coscienza del concetto di industrial design».
Necessario, dunque, indicare con un neologismo, protodesign (coniato da chi scrive, in occasione della mostra Gli anni Trenta: arte e cultura in Italia, Milano, Palazzo Reale, gennaio-aprile 1982, nel saggio Il protodesign italiano: le origini del disegno industriale), quelle produzioni precedenti, ma che ben rientrano in una puntuale definizione, sempre ascrivibile a Dorfles ad apertura degli anni Cinquanta, nella quale si sottolinea come di «disegno industriale» si può parlare solo in presenza di una progettazione che implichi una produzione di serie (piccola/grande) – anche di artigianato meccanizzato –, presente e viva intorno a Milano e nell’Italia settentrionale, nella quale si coniughino quelle valenze estetiche (quell’amore per il bello, potremmo più semplicemente dire) che sono proprie del DNA dell’Italia. Neologismo utile, dunque, per definire quel nuovo rapporto tra arte e industria, disegno e prodotto che si va gradualmente instaurando nei primi decenni dello scorso secolo, e che fornisce risposte sia in termini di produzione sia anche di ‘poetica’, di nuovi linguaggi.
Il ruolo dei futuristi
Protodesigner, di conseguenza, il progettista/creatore che nel nostro Paese affonda le radici nel Manifesto per la ricostruzione futurista dell’Universo, firmato da due artisti, Giacomo Balla (1871-1958) e Fortunato Depero (1892-1960), l’11 marzo 1915, ‘ufficiale’ inizio di una lunga vicenda inventiva, la prima riflessione di fatto sul rapporto arte-artigianato-industria. È implicita in loro la presa di coscienza dell’industrializzazione dell’esistenza – e di come tutta la vita sarebbe poi stata retta (e per molti decenni) dalla vita della fabbrica –, anche se intendono realizzare una sorta di rifondazione antropologica proprio a partire da questo tipo di struttura economica.
Tale figura ancora meglio si definisce nelle parole dell’artigiano/artista torinese Nicola Galante (1883-1969) che nel 1917, in «Noi», rivista internazionale d’arte d’avanguardia fondata da Enrico Prampolini (1894-1956) e Bino Sanminiatelli (1896-1984), introduce la nozione di oggetto «dal palazzo alla forchetta da tavola». Galante sostiene, infatti, come sia indissolubile la forma dalla funzione, come l’aspetto decorativo sia da affidare ai caratteri specifici dei materiali adoperati, come il colore sia da usare «senza timidezze» perché «non plasmi rappresentazioni, neanche geometriche né intacchi l’arte pura, arte che sta e vive a sé».
D’altro canto, la possibilità di una diversa produzione di oggetti era già stata ipotizzata dallo stesso Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), quando scriveva, nel primo «Manifesto» (1909) che
un automobile [al maschile!] da corsa con il suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo […] è più bello della Vittoria di Samotracia [o che] è la solidità di una lastra di acciaio che ci interessa, cioè l’alleanza incomprensibile e inumana delle sue molecole e dei suoi elettroni.
Della contemporaneità, di fatto, i futuristi colgono l’«essenza tecnica», la esaltano nella velocità, nel dinamismo, nell’energia, anche se si sono poi dovuti ‘limitare’ alla progettazione di interni destinati a chi si sente in armonia con il proprio tempo. E hanno progettato e realizzato elementi d’arredo (mobili, lampade e complementi) e ‘oggettistica’, si direbbe oggi – cuscini, arazzi, tappeti, tende, paraventi, cornici, scatole, portafiori, vassoi e così via –, nei loro atelier/laboratorio, meglio e più puntualmente definiti Case d’Arte. Diffuse su tutta la penisola, da Rovereto (Depero) a Milano (Fedele Azari, Cesare Andreoni e Giovanni Pizzorni, detto Pizzo), a Torino (Pippo Oriani, Nicola Diulgheroff, Mino Rosso), da Roma (Balla, Anton Giulio Bragaglia, Prampolini), a Bologna (Guglielmo Sansoni, detto Tato), a Firenze (Ernesto Michahelles, in arte Thayaht), da Imola (Mario Guido Dal Monte) a Palermo (Pippo Rizzo, Vittorio Corona, Giovanni Varvaro), hanno proposto un eterogeneo e raffinato patrimonio di creatività e di manualità artigiana, affidando ai loro manufatti valenze tali da trasformarli in ‘oggetto artistico’, non più merce, ma simbolo, emozione.
Dalle arti ‘applicate’ all’industria: le Biennali di Monza
La storia italiana delle ‘cose belle e utili’, sia per il piccolo oggetto d’uso sia per l’oggetto di maggiori dimensioni, dal mobile all’automobile, è legata alle arti decorative o meglio alle cosiddette arti applicate (appunto) all’industria. Oggetti d’uso ben rappresentati nelle quattro edizioni della Mostra internazionale delle arti decorative, Biennali prima, Triennali poi, che si tennero nella Villa Reale di Monza dal 1923 al 1930, luogo d’incubazione e di esordio, oltre che straordinaria possibilità di confronto con l’oltralpe, di un linguaggio ‘italiano’, a poco più di cinquant’anni dall’Unità d’Italia.
Esposizioni volute da Guido Marangoni (1872-1941) – deputato socialista dal 1904 al 1921, sovrintendente ai Musei civici milanesi, organizzatore delle scuole d’arte della Società Umanitaria e autore anche di un’Enciclopedia delle arti decorative in sei volumi, pubblicati fra il 1926 e il 1927 – per «resuscitare e rilanciare quelle arti della decorazione che formarono un tempo l’orgoglio di ogni regione italiana» («Bollettino municipale di Milano», gennaio 1918) e per porre un argine alla decadenza dei prodotti industriali italiani, limitando la concorrenza straniera, soprattutto quella ungaro-austro-germanica, dal miglior livello qualitativo sia produttivo sia estetico.
Già nel 1917 Marangoni aveva proposto una grande mostra periodica e, addirittura, la creazione di un Istituto superiore di arti applicate, indispensabile strumento per il rinnovamento del settore. Si consociano così il comune di Milano (come promotore e organizzatore), il comune di Monza (mettendo a disposizione la sede per le esposizioni e per la scuola nella Villa Reale di Giuseppe Piermarini) e la Società Umanitaria. Quest’ultima istituzione, fondata nel 1893 da Prospero Moisè Loria (1814-1892), un possidente milanese che lasciò al comune la sua ingente fortuna – dodici milioni di lire/oro – perché si costituisse una Casa del lavoro, si era già occupata, soprattutto ad apertura del nuovo secolo, di un’ampia serie di temi e problemi direttamente legati al ‘disegno industriale’: dalle problematicità della manodopera di questo nuovo settore, alla divulgazione. Articolato e puntuale è il contributo, pratico e teorico, che diede non solo all’evolversi del dibattito sulle arti minori e applicate e sulla figura dell’artista/artigiano, ma anche alla formazione professionale e alle attività per incentivare la cultura e l’educazione «morale ed estetica» del popolo.
Prima delle Biennali di Monza
Cose ‘belle e utili’ erano già state in scena, anche in Italia, in occasione delle Esposizioni, «sujet de delire du XIX siècle», frequenti e certo eterogenee (solo la convenzione di Parigi del 28 novembre 1928 ne regolamenta l’organizzazione): regionali (prima del 1861, ma anche dopo) e nazionali, hanno anch’esse contribuito al crescere della ‘cultura del progetto’. Per non dire di quelle ‘internazionali’ e ‘universali’ che hanno luogo anche nel nostro Paese (Pansera 1994). Nella memoria collettiva, la Great Exhibition of the works of industry of all nations, ovvero quella Grande Esposizione delle opere dell’industria di tutte le nazioni che si tenne a Londra, nel 1851, nel Crystal Palace – una gigantesca serra in ferro e vetro –, appositamente costruito per ospitarla. Eventi tutti che principalmente offrirono all’architettura l’occasione di rappresentarle e di sintetizzarne le intenzioni.
Se i temi affrontati includevano soprattutto il termine arte, era specialmente l’industria la vera protagonista di queste manifestazioni espositive, nelle quali si evidenzia la particolarità del rapporto tra «produzione e comportamento intellettuale», a dirla con il critico e storico Marco Rosci (n. 1928). Un rapporto dove il decollo dell’industria è ritardato da diffusi pregiudizi idealistici e spiritualistici, dove l’istituzione però di «scuole d’arti applicate all’industria», di cui si comincia a parlare già nel 1860, è sollecitata dai Congressi delle Camere di commercio del Regno: la prima aperta a Biella, la seconda a Torino, nel 1869 (dove nel 1862 era stato istituito, inaugurato – sarà poi soppresso – un Museo artistico-industriale nel Parco del Valentino, su modello del South Kensington Museum, tre anni dopo l’istituzione del Regio Politecnico, per favorire l’aggiornamento e la ricerca), per volontà del politico ed economista Quintino Sella (1827-1884). Per non dire del contributo alla crescita e all’evolversi del dibattito arte/industria che offrirono le riviste: Camillo Boito (1836-1914) assunse, nel 1892, la direzione de «L’arte italiana decorativa e industriale» (rivista unica del genere in Italia per oltre un decennio, voluta dal ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, di fatto organo ufficiale delle scuole d’arte e di formazione artigiana che dipendevano da questa istituzione, tra le prime pubblicazioni europee impegnate a fornire modelli grafici per l’industria) e, tra il 1897 e il 1914, diede un puntuale contributo alla didattica quale presidente della milanese Accademia di Belle Arti di Brera.
Le Esposizioni nazionali
Da decenni si svolgevano in Europa esposizioni in ogni nazione: occasioni di incontro, più che luoghi di dibattito, tra un’incommensurabile serie di prodotti di una realtà in movimento e un larghissimo pubblico, opportunità anche di istruire e aggiornare (a Parigi, l’Esposizione del 1889 si presenta come «une immense leçon des choses à l’usage des grandes personnes»), e di far conoscere nella diversità. Nove le esposizioni che si svolgono in Italia nell’Ottocento, cui è sottesa una certa qual competizione con il resto del vecchio continente: ‘politica’ la prima, a Firenze, nel 1861, all’indomani dell’unificazione così come quella di Torino del 1898, inaugurata pochi giorni prima dei moti milanesi.
Le più significative, comunque, quelle di Milano del 1881 e di Torino del 1884. L’attenzione viene polarizzata soprattutto sugli oggetti messi in scena: tema l’arte e l’industria, separate nella maggior parte delle sezioni, ma con interessanti sovrapposizioni in alcuni settori.
A Milano si era mobilitata la classe imprenditoriale locale: ottomila gli espositori, ospitati in eclettici edifici effimeri appositamente realizzati ai Giardini pubblici e nel parco della Villa Reale. Labor omnia vincit lo slogan, lo «scopo puramente industriale». E si succedevano spazi dedicati alla ceramica e alla vetraria, all’industria della carta, alle ‘arti usuali’, agli ‘oggetti d’uso’: a sbalordire le luminarie, così come l’ascensore idraulico e la rete telefonica installata al suo interno, mentre al Teatro alla Scala si celebra il trionfo del progresso con il ballo Excelsior.
Tre anni dopo, al Parco del Valentino, dove ogni edificio si caratterizza per una «fisionomia speciale, sicché di fuori subito subitamente ne apparisse lo scopo» (dal catalogo di presentazione dell’Esposizione), la manifestazione torinese, la prima Esposizione generale italiana, venne articolata in due sezioni: l’Esposizione industriale e la Mostra delle Belle Arti (ma era presente anche una sezione internazionale dedicata all’elettricità, la cui consacrazione si sarebbe tenuta solo nove anni dopo, nel 1893, a Chicago, in occasione dell’Esposizione internazionale – la World Columbian Exposition –, dedicata al quattrocentesimo anniversario dell’arrivo di Cristoforo Colombo).
Significativa la presenza di mobili e utensili della sezione delle Industrie manifatturiere, carrozze, tramways, vetture ferroviarie e un treno speciale nella sezione ‘Materiale da locomozione’.
Il clima d’insieme era quello di una dilagante ‘coscienza modernista’, segnale del fatto che Torino volesse porsi come centro di ricerca e di elaborazione appunto di quel nuovo rapporto tra arte e industria che avrebbe portato sia all’Esposizione generale italiana del 1898 (con una pregnante presenza di oggetti d’uso nel Palazzo delle Industrie manifatturiere dove, in una galleria di ben 200 m, si allineavano mobili, tessuti, abiti, oggetti in metallo, cuoio, pelle ecc., sino ad arrivare nell’Ottagono delle ceramiche), sia alla messa in scena dell’Esposizione internazionale del 1902.
La Prima Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna: Torino 1902
Nuova stagione dell’Italia unita, con l’ascesa al ministero degli Interni di Giovanni Giolitti: ed ecco le due grandi esposizioni ‘internazionali’ (tipologia espositiva organizzata nell’intervallo fra due Expo universali e a tema) e un volto nuovo del nostro Paese, coincidente con quello sviluppo industriale che rappresenta il substrato su cui va a innescarsi il già ricordato Manifesto per la ricostruzione futurista dell’Universo, primo e più esplicito momento di attenzione da parte degli artisti nei confronti della ‘produzione industriale’.
A Torino, così, nel 1902, si apre la Prima Esposizione internazionale d’arte decorativa moderna: l’obiettivo è quello di presentare al pubblico italiano ed europeo il meglio della produzione internazionale nell’ambito dell’architettura, dell’arredamento, delle arti applicate e offrire, a dirla con il critico d’arte Vittorio Pica (1864-1930) «uno spettacolo nuovo e abbastanza bizzarro», suscitando «le più leggiadre visioni poetiche». Di fatto, rappresenta il trionfo – e la conclusione – dell’Art nouveau: un termine attribuito per estensione a quel movimento europeo che, se deriva dal nome del negozio aperto a Parigi nel 1895 da Siegfried Bing (che forniva «installazioni moderne, mobili, tinture, tappeti, oggetti d’arte»), assume successivamente diverse denominazioni: Liberty o Modern style in Inghilterra; Modernismo in Spagna, Jugendstil in Germania, Sezessionstil in Austria, Floreale in Italia. Movimento che si snoda tra il 1890 e la Prima guerra mondiale, e che si propone di intervenire nel processo di industrializzazione nel campo dell’architettura e dell’arredamento, tendendo ad affiancare alla funzionalità della produzione la creatività progettuale:
Bisogna che l’arte penetri dappertutto, che porti nel più umile oggetto il suo marchio e il suo fascino, orni tutte le forme materiali dell’esistenza […] occorre che dai cardini di una porta al cuoio di un portafoglio, dalle cornici di un quadro a un braccialetto, dalla sedia al tappeto ogni cosa porti un’impronta e un sorriso d’arte (dalla rivista «Arte decorativa moderna», uscita in occasione dell’Esposizione internazionale di arte decorativa a Torino del 1902).
A Torino espongono i più importanti rappresentanti internazionali del Modernismo: dai tedeschi Peter Behrens (1868-1940) e Bruno Paul (1874-1968,) dal belga Victor Horta (1861-1947) al francese René Lalique (1860-1945), sino ai Glasgow four, ossia gli scozzesi Charles Rennie Mackintosh (1868-1928), Herbert MacNair (1868-1955), Margaret (1865-1933) e Frances (1873-1921) Macdonald, i più apprezzati. Nuovi, tra costoro, anche i criteri espositivi che si erano posti, comune l’obiettivo di elaborare uno stile nuovo, non solo superando l’eclettismo e la gerarchia delle arti, ma puntando su una progettazione unitaria capace di riscattare lo scadimento e la degenerazione del gusto causati dal diffondersi dei processi produttivi industriali e diffondendo i valori estetici in ogni tipo di prodotto: dalla carta da parati al gioiello, dall’illustrazione al mobilio.
Temi dell’esposizione sono il disegno urbano, la nuova architettura, la produzione e l’arte industriale, e nel programma si specificava che per arti decorative si intendeva tutto ciò che
non può essere accolto nel campo dell’arte pura […], tutto ciò che ha tratto dalla casa in cui viviamo, alle vie, alle piazze, ai giardini che circondano e rendono più belle le nostre dimore; dai più modesti oggetti famigliari alle sontuose decorazioni di un palazzo (G. Sacheri, Il programma dell’Esposizione, «L’ingegneria civile e le arti industriali», 1901, 9, p. 131).
A testimoniare l’esperienza italiana, l’eclettico e internazionale Raimondo D’Aronco (1857-1932), al quale si debbono i padiglioni allestiti al Parco del Valentino, di cui non rimane traccia, se non in una rara documentazione fotografica, accusati da molta critica di aver imitato la viennese Wagnerschule.
La manifestazione, comunque, ben testimonia l’acme della volontà di rinnovamento, e gli italiani, nella Galleria degli Ambienti, presentano un’articolata presenza di mobili, sia pezzi unici dal gran lusso floreale a serie più economiche: dalle creazioni con legni pregiati, avorio, rame, madreperla, pelle di cammello e di daino di Carlo Bugatti (1856-1940) agli arredi in piccola serie, lisci, eleganti e funzionali destinati a una borghesia colta e aperta alle novità d’oltralpe di Giacomo Cometti (1863-1938).
E non mancarono il Padiglione dell’automobile e del ciclo, il Padiglione del cinematografo e, ad anticipare il food design, un Padiglione olii e vini – su progetto di Annibale Rigotti (1870-1968) –, una vera novità dell’esposizione, come anche gli spazi dedicati alla foto e all’auto.
Esposizione internazionale del Sempione: Milano 1906
Ecco poi, nel 1906, a Milano, l’Esposizione internazionale del Sempione, dedicata ai trasporti, a tutto ciò che richiamasse il dinamismo e al traforo inteso come vittoria dell’uomo sulla natura, tesa a esporre le nuove tecnologie e a illustrare quel nuovo clima che testimoniava il desiderio di imprenditori, scienziati e politici non solo di pensare al futuro, ma anche a Milano come città caratterizzata dall’innovazione, dal lavoro e dalla solidarietà.
Un’esposizione che, comunque, non lasciò gran traccia nella storia, soprattutto per l’assenza di numerosi Paesi stranieri, anche se a diffonderla fu l’incisivo manifesto di Leopoldo Metlicovitz (1868-1944) che rappresenta un vigoroso uomo nudo di schiena con lo sguardo rivolto al futuro, accovacciato su una locomotiva che sta per sbucare dal tunnel del Sempione in una larga pianura; all’orizzonte il duomo di Milano o forse il Castello Sforzesco e, al suo fianco, un’elegante donna che personifica l’Industria.
Dispiegata su quasi un milione di metri quadri espositivi, tra il parco alle spalle del Castello Sforzesco (da allora Parco Sempione) e la Piazza d’Armi – dove dal 1923 sorgerà la Fiera di Milano –, collegati da una leggerissima ferrovia elettrica sopraelevata che compiva in quattro minuti il percorso dall’Arco della Pace all’attuale piazza Buonarroti, l’esposizione ospitava ben 225 edifici realizzati da mediocri architetti e caratterizzati dall’omogenea tinteggiatura color bianco sporco, illuminati di notte grazie ai miracoli dell’elettricità.
Rilevante la mostra retrospettiva sui trasporti e alcuni padiglioni dedicati all’automobile, presenti Fiat, Isotta Fraschini e Pirelli (aziende che rincontreremo) a ‘rispondere’ – idealmente – alle tedesche Benz, Opel, Daimler. Nel Parco aerostatico erano allineati diversi tipi di palloni riempiti di aria e/o gas e la mostra aeronautica, una delle prime del genere, esponeva gli ‘oggetti volanti’ di due pionieri: l’aerocicloplano – un biplano montato su una bicicletta la cui ruota posteriore trasmetteva, mediante cinghie, il movimento alle eliche – progettato da Aldo Corazza (1878-1964) e l’aeronave Italia, di Almerico da Schio (1836-1930), il primo dirigibile della nostra storia. E nel Padiglione Ansaldo-Armstrong di Genova si proponevano modelli di imponenti corazzate e delle più moderne locomotive.
Di grande interesse anche la Galleria internazionale del lavoro per le arti industriali: ogni giorno centinaia di operai davano qui vita a diversi cicli completi di lavorazione, un modo nuovo di esporre macchine, non immobili, ma tese a produrre sotto gli occhi del visitatore. Grande pubblicità all’evento fu data dall’incendio che distrusse la Galleria delle arti decorative la quale, come araba fenice, rinacque in quaranta giorni: autori, con Orsino Bongi (1875-1921), Galileo Chini (1873-1956), il più significativo esponente del Liberty italiano, e il ‘giovane’ Marcello Dudovich (1878-1962). Chini e Dudovich: due nomi che, a buon diritto, figurano nella storia delle arti decorative e grafiche, progenitrici del product e del visual design.
Presenti i pezzi d’ammobiliamento di gran lusso di Eugenio Quarti (1867-1929) e di raffinata semplicità di Vittorio Ducrot (1867-1942), gli snelli arredi di Ernesto Basile (1857-1932), la ben differenziata produzione di Carlo Zen (1851-1918) e della sua Fabbrica italiana mobili. E, ancora, ecco gli alleggeriti ferri battuti di Alessandro Mazzucotelli (1865-1938), i vetri della Luigi Fontana e l’art de terre della SCI (Società Ceramica Italiana) di Laveno e della Richard Ginori. Richard Ginori, SCI e Fontana saranno le prime, agli inizi degli anni Venti, a riorganizzare la produzione e la propria immagine, chiamando Giò Ponti (1891-1979), Guido Andloviz (1900-1971) e Pietro Chiesa (1892-1948). A corollario dell’Expo di Milano, corse automobilistiche (l’arrivo dei partecipanti alla Coppa d’oro dei 4000 km – primo Vincenzo Lancia su Fiat – coincise con il Congresso internazionale dell’automobile) e concorsi aeronautici.
La prima Esposizione ‘universale’ italiana: Torino 1911
Cinque anni dopo, per celebrare il cinquantenario dell’Unità d’Italia, si organizzarono, in parallelo e affrontando temi diversi, tre esposizioni nelle città che erano, o che erano state, capitali del Regno Unito. E allora a Roma vi fu la parte storica, artistica ed etnografica, in cui Balla e Duilio Cambellotti (1876-1960) misero in scena gli autentici primitivi che ancora vivevano alle porte della città con i loro manufatti invariati nei secoli; a Firenze vi fu, invece, la mostra del ritratto italiano e della floricoltura; a Torino l’Esposizione internazionale dell’industria e del lavoro: una trentina i Paesi ospiti e, a incrementare l’afflusso del pubblico, offerte a prezzo ridotto per i biglietti da e per la città, da parte delle ferrovie.
Ordinata ancora al Parco del Valentino – gli edifici ufficiali eclettici ed enfatici –, affiancò mostre, concorsi, feste, ma anche presentazioni di nuove apparecchiature elettriche e meccaniche, esposte in attività; inoltre fu installata una grande centrale per produrre energia entro i recinti della manifestazione:
Le macchine innumeri, poderose ed agili, rutilanti e fragorose, sembrano avere un’anima, tanto esse appaiono come potenti e intelligenti collaboratrici dell’uomo, mentre invece dell’uomo sono la meravigliosa creazione e le docili schiave (dal «Giornale illustrato dell’Esposizione», 1911).
Numerosi i cimenti di dirigibili e di aviazione, mentre la conclusione della gara Roma-Torino avrebbe coinciso con l’inaugurazione del campo volo di Mirafiori, il primo aeroporto cittadino. Nel Padiglione delle industrie artistiche si esponeva
dal mobile al ninnolo, dalla stoviglia di uso domestico alla ceramica e al bronzo decorativi, dall’addobbo di ambiente fino alle più piccole futilità, tutto può essere bello o brutto, geniale o banale, squisito o volgare a seconda che sia foggiato dalla mano di un artista o da quella di un artigiano incolto […]. C’era tutta una lunga strada da percorrere al riguardo, tutta una paziente educazione da fare. In questa Mostra c’è la vittoriosa manifestazione di quello che l’Italia fece (dal «Giornale illustrato dell’Esposizione», 1911).
Presenti i più famosi mobilieri torinesi, come l’eclettico Vittorio Valabrega (1861-1952); curioso il concorso per l’arredamento di un albergo-modello alpino per il Touring club italiano. Grand Prix e medaglia d’oro alla Manifattura ceramica di Chini. Interessante il lussuoso Padiglione della moda, allestito dal pittore Giorgio Ceragioli (1861-1947), con grandi diorami e manichini che rappresentano tre diversi momenti della vita del cosiddetto gran mondo (Alla Patinoire; Ad un Paper Hunt; Sulla Spiaggia): obiettivo testimoniare come l’Italia potesse creare e imporre con il buon gusto una sua propria moda nazionale.
E, con uno scatto in avanti di ben tre decenni, non si può non ricordare, nell’ottica delle esposizioni, quella ‘mancata’ Esposizione universale che avrebbe dovuto tenersi a Roma nel 1942. Questa Olimpiade della Civiltà, dissolta dai venti della guerra e di cui ci resta uno straordinario programma – e un forse più discutibile quartiere –, si sarebbe dovuta caratterizzare per l’internazionalismo e l’unitarietà.
Il programma di Monza e la prima ‘uscita’ delle Biennali
Il programma del Consorzio Milano/Monza/Umanitaria, completo e ambizioso che voleva nella Villa Reale un luogo di formazione e un momento espositivo, si concretizzò in breve: l’Istituto superiore per le industrie artistiche (ISIA) si inaugurò il 12 novembre 1922 come Università delle arti decorative, una scuola che si qualificò come «il principale centro propulsivo di influenza sulla costituzione di nuovi modelli per le arti industriali» (Gregotti 1986), e che si sarebbe proposta e imposta come il Bauhaus italiano. Di gran fama i suoi docenti, tra i quali Pagano, Edoardo Persico (1900-1936), Marcello Nizzoli (1887-1969). Di fatto una palestra che offriva uno stimolante spazio di lavoro: «Scuola all’italiana – commenterà Ponti sulla rivista «Domus», da lui fondata nel 1928 – dove l’allievo e il maestro fanno ed inventano insieme». L’ISIA sarebbe stato chiuso nel 1943 per ragioni politiche, ma la stessa istituzione (dalla poco felice denominazione) si sarebbe poi riaperta dopo la guerra – tra gli anni Settanta e Ottanta – a Venezia (sia pure per breve tempo), a Urbino, a Roma, a Firenze e a Faenza, dando luogo alle prime facoltà pubbliche di Disegno industriale italiano.
Il 19 maggio 1923 si aprì poi la prima edizione della Biennale e nel breve trascorrere di tre manifestazioni (1923-1925-1927) il loro ‘inventore’/coordinatore, Marangoni, vide anche concretizzarsi uno degli obiettivi che si era prefisso: mettere a punto un ‘linguaggio’ comune a quelle arti decorative/applicate che si avviavano a diventare le progenitrici del protodesign degli anni Trenta e poi di quella progettazione di serie che proprio l’istituzione avrebbe tenuto a battesimo nell’edizione del 1940.
Tra le altre, numerose, interessanti presenze, la I Biennale internazionale delle arti decorative ospitò l’esordio della prima, straordinaria donna artigiana/ artista e imprenditrice, Elena König Scavini (1886-1974), che dal 1919 (la sua avventura terminò nel 1937) ben rappresentò, con la sua ‘industria’, l’Ars Lenci, il gusto quotidiano della borghesia di quegli anni permettendo di cogliere il polso della cultura diffusa di un’epoca, interessante ‘caso’ di rinnovamento dell’artigianato artistico e di rielaborazione della tradizione nelle arti decorative. Un acronimo, LENCI, dal motto/obiettivo Ludus Est Nobis Constanter Industria (ovvero «Il gioco è per noi un costante lavoro», come si può tradurre un po’ forzosamente dal latino): e il termine industria, sapientemente scelto, ben sottolinea l’attività creativa dell’azienda, così come il marchio di fabbrica, costituito da una trottola avvolta elicoidalmente a un filo, descritto anche da un documento del ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (Ufficio centrale brevetti, 15/3/1921, nr. 17955, Reg. dei Marchi vol. 168, N. 38), dove si precisa come sia destinato a contraddistinguere «giocattoli in genere, mobili, utensili per falegname, arredi e corredi per bambini».
Giocattoli e non solo espone in due sale di questa prima edizione anche Depero: la Sala trentina, traboccante di opere/oggetto, suscitò il diffidente dissenso della critica, che lo accusò di essere solo «uno squillatore di fanfare che usciva da una fiera di campagna» (R. Papini, Le arti a Monza nel MCMXXIII, 1923, p. 16). Mentre il suo Padiglione del libro, nel 1927, nel giardino della Villa Reale, per la casa editrice Bestetti-Tumminelli, dove le parole diventano componenti architettoniche e i caratteri tipografici vengono utilizzati come veri e propri ordini, confermeranno la sua felice, spiazzante trasgressione.
In occasione dell’ultima edizione nella sede monzese, la IV, nel 1930, sempre nel giardino della Villa, la Società Edison, che distribuiva l’elettricità, ‘sponsorizzò’ (si direbbe oggi) la Casa elettrica, un particolare edificio firmato da Luigi Figini (1903-1984) e Gino Pollini (1903-1991), progettato per
esporre tutti gli apparecchi elettrici destinati a sostituire nelle varie funzioni domestiche il personale di servizio, e ad allietare e rendere sempre più confortevole l’abitazione moderna (dal catalogo di presentazione)
di fabbricazione sia straniera sia italiana. Ed ecco ben presente quella Società Ercole Marelli di Sesto San Giovanni che, dopo aver imposto anche all’estero il suo ventilatore, aveva iniziato ad ‘applicare’ i suoi motorini ad apparecchi domestici, costituendo la SCAEM (Società Costruttrice di Apparecchi Elettrodomestici Marelli) che divenne la più importante produttrice di aspirapolvere, oltre che di lucidatrici, spargicera, macinacaffè, tutti denominati (con una certa presunzione) Primo.
Gli arredi della casa erano all’avanguardia del comfort casalingo, mobili funzionali disegnati da Guido Frette (1901-1984) e Adalberto Libera (1903-1963), mentre tutti i servizi (dalla cucina al bagno) erano stati curati da Piero Bottoni (1903-1973). La Casa elettrica si presentava come un progetto/manifesto del razionalismo, che caratterizzerà non solo gli anni Trenta: esplicito era l’interesse del movimento per i nuovi materiali, soprattutto metallici, e per un crescente rapporto con la produzione industriale. E proprio Figini e Pollini, per i quali era irrinunciabile la creatività anche nella serialità, scrivevano:
Il mobile d’oggi deve rientrare nell’architettura, deve tornare a subirne il metro e le leggi. Diversità di dimensioni, di materiali, di durata, non impediranno a un interno di ‘essere ancora’ dell’architettura (in Appunti e moralità, catalogo della mostra a Il Milione, ottobre 1932).
E concludevano che si doveva auspicare la nascita di un «clima moderno», utilizzando quell’aggettivo a specificare una delle caratteristiche di quel movimento che, con fatica, iniziava a farsi strada anche nel nostro Paese.
La Grande guerra e la progettazione aeronautica
La mobilitazione per la Prima guerra mondiale, come per tutti i conflitti, aveva dato impulso alla ricerca nell’ambito dell’industria chimica, di quella farmaceutica e di quella della gomma, potenziate anche dalla cessata importazione, ma soprattutto aveva sollecitato lo sviluppo degli apparati siderurgici e meccanici. E l’industria aeronautica affonda qui le sue radici, anche se, in realtà, furono le aziende della ceramica e del vetro le prime a coinvolgere artisti e architetti per realizzare prodotti ‘moderni’.
Ma anche l’aeronautica italiana si avvalse di ingegneri/designer, così come le carrozzerie/aziende automobilistiche: «Per universale riconoscimento fummo i primi nel mondo» proprio per il design aeronautico, ha ben documentato anche lo storico e critico Giovanni K. Koenig (cfr. Bassi 2004). Il fascismo, infatti, favorì questa nuova industria.
Nel 1910 l’ingegnere Giovanni (1886-1957) fondò la Caproni – proprio l’anno dopo la prima grande esposizione italiana di aviazione a Milano – e i suoi aerei adottarono una particolare architettura, funzionale e molto elegante. Lo affiancò, dal 1933, Cesare Pallavicino, diplomatosi nel 1922 come costruttore aeronautico al Politecnico di Torino, al quale si dovranno poi, nel 1946, poco prima che emigrasse in Argentina, i primi modelli della Lambretta per la Innocenti, lo scooter che, come vedremo, rimise in moto l’Italia, affiancandosi alla Vespa della Piaggio, progettata anch’essa da un ingegnere aeronautico, Corradino D’Ascanio (1891-1981), mentre Secondo Campini (1904-1980) firmò il primo aereo a reazione italiano (1940).
A Sesto San Giovanni e a Bresso, nell’hinterland milanese, la Breda aveva aperto (1917) grandi hangar di montaggio di motori aerei per produrre aerei da turismo e poi velivoli militari, e una scuola di volo. Qui Filippo Zappata (1894-1994) – rientrato in Italia dopo una produttiva esperienza nello stabilimento del pioniere dell’aeronautica Louis Blériot (1872-1936), ove gli era stata data la possibilità di realizzare il suo primo velivolo, lo Z.110 (1939) e il quadrimotore passeggeri Blériot 5120 –, disegnò il grande quadrimotore Breda BZ308. All’avanguardia nelle soluzioni tecnico-costruttive, si caratterizzò soprattutto per una qualità estetica unica, risultato di un’armoniosa integrazione fra soluzione progettuale, tecnica costruttiva, ricerca aerodinamica. Già costruito per due terzi alla fine dell’aprile 1945, volerà soltanto nel 1948, ma per poco, impossibilitato a utilizzare la pressurizzazione, uno dei tanti ‘scotti’ che l’Italia pagherà a causa della guerra persa.
La Breda, però, si era specializzata dalla fine dell’Ottocento nella produzione di carrozze ferroviarie e treni: tra i suoi progettisti Pagano che, sul fronte del disegno industriale, sarà anche impegnato, con Ponti in questo caso, nel design degli interni, e Giulio Minoletti (1910-1981), progettista dell’elettrotreno Settebello (1950), emblema italiano del treno di lusso.
Dalla Grande guerra si era usciti vittoriosi, con grande vitalità e con la capacità soprattutto delle piccole aziende di affrontare con agilità i problemi della riconversione grazie a una struttura semiartigianale. Le linee programmatiche del fascismo, inoltre, dal 1930 al 1940, decennio in cui l’estetica del regime si sarebbe integrata con quella della grande industria, tenderanno a realizzare nel più breve tempo possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica della nazione.
Dal carrozziere al car designer
Un’industria che, fin dalla sua nascita, all’inizio del secolo scorso, seppe coniugare, e per lungo tempo, la dimensione artigianale con quella imprenditoriale fu certo quella automobilistica: e la creatività sopperì al gap tecnologico nei confronti degli altri Paesi maggiormente industrializzati.
Torino divenne quasi sinonimo di carrozzeria/carrozzieri, di car design e di car designer. La Fiat (Fabbrica Italiana Automobili Torino), fondata nel 1912 da Giovanni Agnelli (1866-1945), rilanciò, nell’ottica di grandi volumi produttivi in serie, la Società anonima fabbrica italiana automobili Torino, voluta già nel 1899 da un gruppo di aristocratici proprietari terrieri e di borghesi, entusiasti del nuovo mezzo di trasporto. Con la Fiat 508 Balilla, presentata alla Fiera di Milano del 1932, avrà inizio la motorizzazione di massa in Italia: tra i progettisti, Dante Giacosa (1905-1996), ingegnere, in Fiat dal 1929 soprattutto per affrontare il tema dell’utilitaria e, a partire dal 1933, con incarichi di sempre maggior responsabilità. Capo progetto, disegnò la Fiat 500 (Topolino), messa in produzione nel 1936 e, a capo dell’Ufficio tecnico vetture dal 1935, impostò e seguì la Fiat 1100. Successivamente, nel secondo dopoguerra, ecco la 600 (1955-1956) e la Nuova 500 (1957), «la prima macchina dell’italiano», che sostituirà, per muoversi, la bicicletta e lo scooter. Studi per vetture e taxi a trazione elettrica, quasi profetici, saranno effettuati già nel 1941 da Mario Revelli di Beaumont (1907-1985), consulente Fiat, forse più conosciuto per essere il maggior esponente italiano di quello stile flamboyant che implicava linee sinuose e particolarmente aerodinamiche, con particolare sfoggio di carenature.
Sempre nel capoluogo piemontese operava Giovanni Battista, detto Pinin, Farina, dal 1962 Pininfarina di cognome (1893-1966). Dopo le scuole elementari, si formò sul campo e ottenne successi come pilota automobilistico: nel 1920 effettuò un viaggio a Detroit, dove venne ricevuto da Henry Ford, e nel 1930 aprì la Carrozzeria Pinin Farina. Già prima della Seconda guerra mondiale produsse autovetture dal disegno rivoluzionario che lo portarono, dopo l’interruzione dovuta al periodo bellico, a disegnare e realizzare la berlinetta Cisitalia 202 (1947), una «scultura in movimento»: imponendo così un nuovo stile, nell’ambito del quale la resa volumetrica dell’oggetto-auto non era più vista come assemblaggio di pannelli bidimensionali, e iniziando poi, come car designer, a progettare per numerose case automobilistiche straniere.
Pilota automobilistico e imprenditore, Vincenzo Lancia (1881-1937) fondò, ancora a Torino, nel 1906, la sua impresa, sempre caratterizzata dall’innovazione tecnologica: la Lambda (1923) fu, infatti, la prima vettura a struttura portante, come l’Aprilia (1937).
«Giù il cappello quando passa una Lancia!»: fu addirittura Henry Ford a sottolineare con questo apprezzamento il marchio. E data 1912 l’apertura della carrozzeria di Giovanni Bertone (1884-1972), la cui officina agli inizi era specializzata unicamente in carrozze e carri di vario genere. Lo affiancò presto il figlio Giuseppe, conosciuto come Nuccio (1914-1997), progettista di automobili sportive Lancia che aprirà, dopo la guerra, un importante centro di ricerca affiancando la produzione di vetture di serie (del 1954 la Giulietta Sprint) a quella di pezzi unici sperimentali, i cui elementi si ritrovavano poi nelle auto di serie, che rappresentano ancora oggi l’espressione più avanzata dello stile italiano e dell’innovazione tecnologica.
Ma anche Milano e la Lombardia offrirono un loro contributo alla progettazione automobilistica: ed ecco Isotta Fraschini che costruiva ‘a mano’ auto di lusso: una leggenda divenuta mito.
Aperta nel 1900 da Cesare Isotta e dai fratelli Fraschini (Vincenzo, Oreste, Antonio), durante la Prima guerra mondiale produsse camion e rimorchi per il trasporto delle truppe. Riprese poi a mettere a punto automobili di fascia molto alta, destinata a una clientela internazionale, come la Tipo 8 (1919), la prima ad avere un motore a otto cilindri costruito in serie, massima espressione di eleganza, l’auto più desiderata al mondo: il suo costo circa 150.000 lire, il suo mercato gli Stati Uniti. Agli inizi degli anni Venti, le Isotta Fraschini erano comprate da personaggi famosi come Gabriele D’Annunzio e Rodolfo Valentino, che spesso ostentava le sue due coupé de ville, il modello più esclusivo e costoso. A tutti gli effetti queste auto costituivano uno status symbol, come è ben testimoniato in film come Sunset Blvd (1950; Viale del tramonto) di Billy Wilder. I problemi economici suscitati dalla crisi del 1929 mobilitarono per un suo salvataggio perfino Ford che venne bloccato da un intervento di Benito Mussolini, allertato dai preoccupati Agnelli. Nel 1932 Isotta Fraschini entrò così nel gruppo Caproni e la società venne messa in amministrazione controllata e poi liquidata dopo la guerra, durante la quale produsse motori aeronautici e autocarri. La cabina degli autocarri era progettata da Ugo Zagato (1890-1968) che nel primo dopoguerra aveva aperto a Milano una sua carrozzeria, collaborando con Alfa Romeo e con Vittorio Jano (1891-1965) e mettendo a punto modelli sportivi come la 6C 1500 e la 6C 1750.
La produzione automobilistica milanese coincise, infatti, soprattutto con quella dell’Alfa Romeo: la grinta e il dinamismo delle auto dell’Anonima lombarda fabbrica automobili (fondata nel 1910) si potenziarono con l’ingresso dell’ingegner Nicola Romeo (1876-1938). Iniziò così la grande stagione dei bolidi rossi, progettati da Jano, strappato alla Fiat, che contribuì a far crescere il mito Alfa grazie alla realizzazione di una lunga serie di eccezionali propulsori. Jano approdò poi alla Lancia, dove fu nel team che progettò la prima Aurelia, presentata nel 1950, la B10, una berlina caratterizzata da una linea armoniosamente arrotondata, il motore a 6 cilindri a V da 1,8 litri, la scocca portante con sospensioni, le quattro ruote indipendenti.
Alle spalle di Jano vi era l’amico Enzo Ferrari (1898-1988), che esordì come corridore automobilistico proprio all’Alfa e fondò la sua scuderia a Modena nel 1929, specializzandosi nella messa a punto di veicoli da corsa e collaborando a lungo con l’azienda milanese finché, nel 1939, aprì una propria casa automobilistica. Data 1943 l’officina di Maranello, 1946 la nascita della Ferrari Automobili e, nel 1947, vi fu il varo della prima Ferrari da corsa, affiancata poi da prestigiosi modelli da competizione e da gran turismo.
L’importanza delle Triennali di Milano negli anni Trenta
Dopo un lungo dibattito, si era deciso il trasferimento della manifestazione Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali moderne e dell’architettura moderna – una novità l’inserimento nel tema espositivo dell’architettura – dalla Villa Reale di Monza al capoluogo lombardo, per il successo ottenuto e per le difficoltà di raggiungere l’hinterland: anche se si era ipotizzata (fin da allora!) e progettata una metropolitana leggera.
Nel 1933 così, a testimonianza e riconoscimento del successo riscosso anche oltralpe, nel Parco Sempione, disegnato nell’Ottocento da Emilio Alemagna (1833-1910), fu inaugurato il Palazzo dell’arte. Questo flessibile contenitore, espressamente destinato a ospitare le Triennali, progettato da Giovanni Muzio (1893-1982), era illuminato da luce naturale e ospitava anticipatori servizi: dall’ufficio postale alla postazione dei pompieri, dalla biblioteca a un teatro, da un bar a un ristorante collegato alla terrazza giardino sul tetto. E in occasione della sua apertura, a fianco del novecentesco e ‘classico’ edificio, svettava anche una torre, costruita con tubi Dalmine, firmata da Ponti e dall’ingegner Cesare Chiodi (1885-1969), la Torre Littoria.
In questa quinta edizione, il concetto di industrializzazione già informava progetti d’arredo presentati. Esplicito era poi l’interesse per i nuovi materiali anche nazionali, come il linoleum (il lini oleum della tradizione romana), il buxus, l’anticordal (un alluminio al 98%), l’acciaio – a cui fu dedicata una casa, la Casa a struttura d’acciaio, nel Parco Sempione –, il tubo metallico, che la ditta Columbus piegava con un uso felicemente improprio per ricavarne sedie, poltrone, tavoli, scrivanie, archetipi recensiti sulle riviste di settore e inseriti nei film dei telefoni bianchi dell’epoca, ma dalla scarsa fortuna commerciale, utilizzati soprattutto per attrezzare spazi collettivi e pubblici e poi per le colonie italiane d’oltremare.
Materiali nuovi, materiali autarchici: come la faesite, intelligentemente utilizzata per le sue proprietà elastiche. E anche Franco Albini (1905-1977) la utilizzerà per più prodotti, applicandovi quella sapienza costruttiva che da sempre seppe declinare nei suoi arredi mediante forma, colore, funzionalità, comfort.
Ventuno le costruzioni nel Parco, e ben due dedicate all’aeronautica: Stazione per aeroporto civile il titolo e il tema che Prampolini affrontava con questo «padiglione futurista italiano», coerente ogni aspetto del progetto/prodotto che ben testimoniava l’attenzione alla modernità del movimento, alla contemporaneità del tempo. Ma anche i razionalisti friulani, Cesare Scoccimarro (1897-1953), Pietro Zanini (1895-1990) ed Ermes Midena (1895-1972), si cimentarono nel Parco erigendo una Casa dell’aviatore che si affacciava su un campo da volo, la rimessa con officina a ospitare un Breda ad ali ripiegate e, naturalmente, un’automobile. Questo avveniristico prototipo, una costruzione «con ossatura d’acciaio e materiale di rivestimento a doppia parete», si puntualizza nella descrizione in catalogo (p. 621), era destinato a «uno sportivo che si dedichi principalmente all’aviazione […] pensato scapolo».
Nel 1936 si aprì la sesta edizione, che si doveva, moralmente, a Pagano (dimissionario) e a Persico (da poco scomparso), e che si era proposta di creare una coscienza artistica e civile nelle industrie e di determinare quella ‘unità’ che non significa né compromesso né patteggiamento, ma intima e profonda aderenza delle arti alla vita, come aveva scritto Pagano, che voleva la Triennale luogo di ricerca continua, e a tal fine aveva istituito un Centro studi. L’essenza dell’esposizione, al di là delle dodici mostre scandite in articolate sezioni, era rappresentata dal Salone della Vittoria, frutto di un concorso vinto da Persico, Giancarlo Palanti (1906-1977), Nizzoli e dal pittore e scultore Lucio Fontana (1899-1968).
Vi si voleva testimoniare una sintesi (ben riuscita) tra architettura e arti figurative all’insegna di una creatività direttamente connessa all’esperienza razionalista. Il carattere monumentale del progetto voleva inoltre esprimere un «atto di fiducia nella grandezza dell’Europa pacificata» (dalla relazione d’accompagnamento), ma sarebbe stato in parte mutilato dalla censura del regime (come, d’altro canto sarebbe mancata, tra le esperienze architettoniche tedesche, quella dell’epurato Walter Gropius).
Nonostante il clima generale di chiusura e di autarchia che caratterizzava l’Italia fascista in quegli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, nel Palazzo dell’arte si ospitavano comunque significative figure d’oltralpe che avrebbero inciso non poco sulla cultura italiana del progetto: dal finlandese Alvar Aalto (1898-1976), che avrebbe catalizzato l’interesse di numerosi progettisti, a Max Bill (1908-1994), che aveva allestito il padiglione svizzero.
Al Palazzo dell’arte negli anni Quaranta
Nell’aprile 1940, nell’imminenza della guerra, all’interno della VII Triennale, si aprì infine la già citata Mostra internazionale della produzione in serie, organizzata «per aiutare a pensare la forma come pensata dalla collettività», dove vennero esposti i primi prodotti che tennero esplicitamente conto del processo industriale come modello metodologico di progettazione, realizzati da alcune delle più significative industrie italiane, da Fiat, a Olivetti, a Pirelli. Tema, già dibattuto in Europa fin dagli inizi del secolo, ma ignorato in Italia, lo standard: che per i razionalisti concretizzava il principio di socialità e qualità, una scelta etica e pedagogica, più che economica e produttiva.
In questa stessa edizione esordirono anche Livio (1911-1979) e Pier Giacomo Castiglioni (1913-1968) e Luigi Caccia Dominioni (n. 1913), curatori della Mostra dell’apparecchio radio. Venti ‘radioricevitori’ proponevano polemicamente soluzioni alternative all’apparecchio racchiuso in un mobile, definendosi in una forma autonoma: la loro proposta suggeriva non tanto ridotte dimensioni quanto un oggetto definito nella sua realtà tecnica e funzionale, in bachelite e in variegati colori, il radioricevitore Phonola a cinque valvole. Ma già nel 1938 Albini aveva utilizzato due lastre portanti in cristallo Securit che ne lasciavano vedere i meccanismi.
Anche i mobili per ufficio erano protagonisti di una rassegna: tendenza diffusa quella dell’efficienza, tutti gli strumenti e i piani di lavoro a portata di mano, i materiali costruttivi metallici, leggeri e resistenti. Numerose le macchine per scrivere e i telefoni: a progettare le prime Nizzoli, per Olivetti, che, come vedremo, dieci anni più tardi avrebbe proposto l’archetipo della portatile, la Lettera 22 (1950).
E, di fatto, abbiamo così già citato molti protagonisti di quella che è certo la prima stagione della progettualità italiana, il meglio di quel made in Italy che dopo la Seconda guerra mondiale caratterizzerà la ripresa e affiancherà felicemente quella ricostruzione alla quale sarà dedicata l’VIII Triennale. Commissariata e affidata a Bottoni, nel 1947 darà un prezioso contributo alla rinascita di Milano progettando il QT8 (Quartiere Triennale Ottava), un quartiere sperimentale, nella zona Nord-Ovest della città, con al suo interno il Monte Stella (dedicato alla moglie di Bottoni), un’altura artificiale costituita con i detriti degli edifici crollati durante il conflitto e con materiale proveniente dalla demolizione degli ultimi tratti dei bastioni.
In questo quartiere modello di novantaquattro ettari, si proposero, in un preciso impianto urbanistico, unità abitative innovative, mettendo a frutto studi e progetti che avevano caratterizzato la ricerca del Movimento moderno: strutture residenziali economiche, destinate a una fruizione di massa, realizzate ricorrendo a uno stile architettonico razionale, essenziale, funzionalista, la cui bellezza nasceva dalla semplicità e dalle potenzialità delle tecnologie contemporanee impiegate per ottenere i migliori risultati ai minori costi. Al QT8 furono installati, ad es., i primi pannelli vibrati per pareti e furono utilizzati elementi prefabbricati in cemento. Vi si realizzarono impianti centralizzati di riscaldamento e di condizionamento, blocchi bagno-cucina, e vi fu proposta un’organizzazione degli spazi tendente a ricavare il massimo comfort in una superficie minima. E se certo si incontrarono difficoltà nella realizzazione di un così vasto quartiere cittadino, i risultati positivi dell’intervento furono soprattutto quelli urbanistici, il verde e il paesaggio integrati con le case: e ai concorsi banditi rispose una moltitudine variegata di professionisti, con numerosissimi giovani che ‘saranno famosi’.
Artisti, architetti, ingegneri
Se i futuristi ebbero un importante ruolo nel dibattere, affrontare e organizzare le ‘cose belle e utili’ che il nuovo clima suggeriva, furono soprattutto i razionalisti che negli anni Trenta contribuirono a diffonderlo: la formazione nel 1926 del Gruppo 7 (composto da Sebastiano Larco, Frette, Carlo Enrico Rava, Figini, Pollini, Giuseppe Terragni, Libera) e le loro dichiarazioni relative «alla stretta aderenza alla logica, alla razionalità che deve avere la progettazione», pur riferendosi più esplicitamente al manufatto architettonico, si trasferirono ben presto all’oggetto e agli arredi. Il design, dunque, per dirla con Persico, fu un modo per andare «oltre l’architettura». E furono proprio gli architetti e gli ingegneri a impegnarsi nella progettazione integrale dell’habitat, ma anche gli artisti furono molto attenti alle trasformazioni tecnologiche.
Tra i primi artisti/progettisti che si impegnarono nei confronti dell’oggetto d’uso, applicando la grammatica e la sintassi delle arti maggiori a quelle ‘minori’ e dimostrando un esplicito interesse per la macchina (agli albori del secolo erano apparse le prime automobili e dunque le prime carrozzerie) e per la nascente industria, ci fuono dunque i futuristi.
Occorre ricordare subito Nizzoli, pittore di formazione, il cui nome è indissolubilmente legato all’Olivetti, e Bruno Munari (1907-1998), anch’egli artista/progettista, entrambi capostipiti della stirpe dei designer ‘non architetti’, per i quali il futurismo significò soprattutto essere sempre legati al proprio tempo e in cui la metodologia progettuale fu attenta alle esigenze della contemporaneità.
Sarà determinante per Nizzoli – che si avvicinò ben presto alla ricerca astratta, quasi un’anticipazione del suo esordio tra le file dei razionalisti – l’incontro, a Milano nel 1931, con Persico (napoletano di nascita, storico, critico d’arte e architettura, condirettore di «Casabella», ma anche progettista, proprio con Nizzoli, di allestimenti e negozi). Il nome di Nizzoli coincide quasi con quello di Olivetti: un’azienda fondata a Ivrea, in Piemonte, nel 1908 da Camillo (1868-1943) per la produzione di macchine per scrivere, poi da calcolo – le si deve anche il primo calcolatore elettronico italiano, l’Elea 9003, il cui design era stato firmato da Ettore Sottsass Jr (1917-2007), nel 1959 –, che si caratterizzò fin dagli anni Trenta – grazie ad Adriano (1901-1960), succeduto al padre nel 1932 come direttore generale dell’azienda –, per una politica culturale che puntava sia sulla qualità e modernità del prodotto sia sull’ambiente.
Nel credo che «un buon congegno deve rispettare le caratteristiche di un buon congegno» Adriano desidera che le sue «macchine [siano] armoniose» ma che «la loro bellezza non [abbia] nulla di gratuito» (Venturini 1984).
Vennero così chiamati numerosi progettisti, sia per rinnovare la grafica, la comunicazione aziendale, i prodotti (significativo il coinvolgimento del pittore Alberto Magnelli, 1888-1971, nel 1932 per la realizzazione della MP1, la prima macchina per scrivere portatile) sia per costruire in seguito una sorta di città ideale in cui inserire le residenze di operai e impiegati e gli edifici di servizio. Nizzoli, nell’Ufficio pubblicità Olivetti dal 1935, sarà responsabile del prodotto fino al 1960 e gli si debbono l’addizionatore MC4S (Summa, 1940), la macchina per scrivere Lexikon 80 (1948), «uno dei primi esempi di un oggetto a carrozzeria la cui linea filante fosse concepita non come mero involucro cosmetico ma come risultante di un’attenta corrispondenza con la struttura interna del meccanismo incluso» (Dorfles 1957) e la Lettera 22 (1950), la portatile per antonomasia.
Anche Munari proveniva dalle file del Futurismo e approderà in quelle del Movimento arte concreta (MAC): si impegnò nella continua sperimentazione di sempre nuovi strumenti di comunicazione, ma soprattutto nutrì un pregnante interesse per il fruitore (quasi sempre implicito il messaggio per l’osservatore «prova anche tu», a partire dalle sue ‘macchine inutili’, sculture ‘aeree’ del 1933) e per i bambini, per i quali pubblicò un’innovativa serie di libri già nel 1945. Scultore, illustratore, grafico fu appassionato didatta per l’infanzia (numerosi i suoi ‘giochi’) e affrontò solo nel 1952 i primi prodotti: due giocattoli in gommapiuma (il gatto Meo e la scimmietta Zizi, premio Compasso d’oro nel 1954), felice riuso di quella gommapiuma inventata da Pirelli per proteggere i serbatoi degli aerei dagli spezzoni delle bombe. E per i giochi didattici iniziò a collaborare con Bruno Danese e Jacqueline Vodoz che, dalla metà degli anni Cinquanta, editarono oggetti di uso quotidiano per la casa e per l’ufficio dalla funzionale essenzialità accompagnata da un forte segno di riconoscibilità comunicativa. Ed ecco il posacenere Cubo (1957) e la serie di lampade dalle forme geometriche di cui Munari studiò anche il packaging. Risale al 1964 la Falkland, caratterizzata dall’accentuato verticalismo, ottenuto grazie a un lungo tessuto elastico (da qui il suo secondo nome, Calza), scandito da anelli metallici di diverso diametro. Sempre per i bambini, Munari progettò anche l’Abitacolo (per Robots, 1970, Compasso d’oro 1979), una struttura abitabile che concentra le funzioni diurne e notturne, utilizzabile a seconda dei momenti d’uso.
Un architetto divulgatore
Giò Ponti iniziò a operare ai primi anni Venti: architetto poliedrico, fu un eclettico creatore di forme e si impegnò in una complessità di settori, dalla microscala del soprammobile alla pianificazione urbanistica. La sua prima esperienza fu indirizzata ad ammodernare la settecentesca manifattura ceramica Richard Ginori (i suoi decori classici e solenni vennero attraversati da una sottesa vena ironica). Anticipatrice la proposta di mobili Domus Nova dalle limpide forme, progettati con Emilio Lancia (1890-1973) e ideati per il grande magazzino La Rinascente (1928), da vendere anche ‘per corrispondenza’, destinati alla media borghesia, e caratterizzati da prezzi decisamente contenuti. Erano illustrati in un bel catalogo che li presentava come «arredamenti moderni». Nel 1927, Ponti aveva anche costituito un gruppo di architetti (con Emilio Lancia, Tommaso Buzzi, Michele Marelli, Paolo Venini e Pietro Chiesa) che, con il marchio Il Labirinto (una «firma associativa», come puntualizza Tonelli Michail nel saggio del 1987, p. 11), proponeva oggetti e mobili destinati a un pubblico alto borghese e con Fontana Arte inizia a realizzare lampade e mobili in vetro. È datato 1931 uno straordinario apparecchio a sospensione a dischi lamellari.
Nel secondo dopoguerra, se fondamentale fu il suo contributo per le aziende del mobile – basti citare la seggiola Superleggera (Cassina, 1957), prodotta ancora oggi, una rivisitazione della Chiavarina o Campanina, un prodotto artigianale d’alta ebanisteria messo a punto ai primi dell’Ottocento appunto a Chiavari, caratterizzata dalla leggerezza (un chilo e settecento grammi) del legno di frassino e dalla trasparenza della seduta in canna d’India intrecciata –, Ponti progettò anche per altre industrie, che si rivolgevano a lui proprio perché fautore dell’industria come ‘maniera’ del 20° sec., «perno della nostra costituzione sociale». Disegnò così macchine per cucire (la Visetta, 1948), apparecchi illuminanti e sanitari, cui tese a dare una forma fisiologica e non geometrica (come per Ideal Standard). Soluzioni tipiche pontiane furono la parete organizzata (1949), la testiera-cruscotto (1953), la finestra arredata (1954), l’alloggio uniambientale. Ma a Ponti si debbono anche innumerevoli arredi navali (negli anni Cinquanta, quando l’Italia riconvertì in navi passeggeri/da crociera le imbarcazioni requisite per la guerra) e il Grattacielo Pirelli (1956) – ideato con Antonio Fornaroli e Alberto Rosselli (1921-1976) – per anni simbolo della Milano moderna.
Ponti fu soprattutto però un divulgatore dell’‘innamoramento’ per l’arte da parte dell’industria: «l’industria è la maniera del XX secolo» sosteneva, «è il suo modo di creare sul binomio arte e industria, l’arte è la specie, l’industria la condizione» («Domus», giugno 1932, pp. 323-24). A fianco di «Domus», ecco così la meno conosciuta testata «Stile» (1941-1947), diretta ancora da Ponti, che recensiva tutto ciò che era «espressione, ornamento o strumento della nostra vita e della nostra incantevole casa» e che pubblicava «progetti regalati», come i mobili-tipo di Carlo Mollino (1905-1973).
Un enfant terrible del progetto
Enfant terrible dell’architettura e del ‘disegno’, personalità complessa e anticonformista, Carlo Mollino (1905-1973), architetto e designer, figlio d’arte – il padre, l’ingegner Eugenio (1873-1953) –, si laureò a Torino nel 1931 e iniziò nello studio paterno la sua attività (1930-36), che si svolse in gran parte nel capoluogo piemontese. La poliedricità del suo carattere (pilota di aeroplani e di auto da corsa, scrittore, fotografo, sciatore, viveur) lo fece spaziare dall’architettura (dai centri sportivi ai condomini) alla fotografia alla scenografia, dall’aeronautica all’automobilismo (l’auto su telaio Osca, 1954, e il bisiluro Damolnar, 1955), agli arredi:
la sua ricchissima fantasia si muove, così, in una eccitazione quasi fiabesca ed assaggia lo spazio e lo scompone e lo modella con l’aria smaliziata di un ‘puro folle’ (G. Pagano, «Costruzioni-Casabella», gennaio 1941, 157).
Numerosi suoi arredi, pezzi unici, erano destinati a case private: vi si fonde l’utilizzo di tecniche costruttive artigiane con la sperimentazione di nuovi materiali e nuove tecnologie, come il compensato curvato a strati sovrapposti. I suoi progetti di mobili sono rimasti per lo più allo stadio di prototipi o in piccolissima serie e saranno rieditati a partire dal decennio Settanta.
La fortuna, critica e di mercato, lo toccò solo dopo la morte avvenuta nel 1973: la prima grande retrospettiva dedicatagli è stata, nel 1989, a Parigi, al Centre Georges Pompidou e solo nel 2006 la sua città natale, Torino, gli ha dedicato un’importante rassegna alla Galleria civica d’arte moderna e contemporanea. Il suo linguaggio eclettico e fantasioso – che precorre ogni trend del secondo dopoguerra –, trasfigura tavoli, sedie, divani, specchi, rifacendosi sia al mondo animale sia a quello umano (femminile soprattutto), un surreale zoomorfismo e antropomorfismo che rende i suoi oggetti unici. I suoi ‘riferimenti’ spaziavano dal catalano Antoni Gaudì (1852-1926) a Mackintosh, dallo statunitense Charles Eames (1907-1978), allo svizzero-francese Le Corbusier (1887-1965) ad Aalto. Non fu un caso che volle chiamarlo a collaborare il bolognese Dino Gavina (1922-2007), imprenditore/ pioniere della trasgressione, che anticipò il recupero del rapporto arte/design e che nel 1953 iniziò a produrre in un negozio-laboratorio a Bologna, lo chiamò a collaborare.
La ricostruzione e le riconversioni: Vespa e Lambretta
Dal 1946 al 1950, in Italia, il ritmo della ricostruzione e della rinascita si fece tumultuoso: si succedevano eventi significativi, si elaboravano pensieri e si realizzavano progetti che hanno lasciato il segno, la cui traccia resiste impavida al tempo e all’obsolescenza.
Nel 1946 Arturo Toscanini, tornato dall’esilio americano, inaugurò la Scala ricostruita: fu uno di quegli atti fondativi che restano nella storia e nel cuore non solo di Milano, ma dell’intero Paese. Nel 1948 Adriano Olivetti, imprenditore illuminato, fondò il movimento Comunità e pubblicò l’omonima rivista: un coraggioso tentativo di andare oltre gli steccati ideologici e formali, in nome di un umanesimo solidale e moderno.
Nel 1946 ricominciò a uscire «Domus», diretta da Ernesto Nathan Rogers (1909-1969) – fondatore con Gian Luigi Banfi (1910-1945), Lodovico Belgioioso (1909-2004) ed Enrico Peressutti (1908-1976) del gruppo BBPR che, dagli inizi degli anni Trenta, si era già inserito nel dibattito sull’architettura moderna –, il quale sostituì per qualche tempo (fino al 1949) il padre fondatore, Ponti, imprimendole un taglio decisamente progressista e impegnato sul fronte della ricostruzione architettonica. Alla quale, come abbiamo visto, dette un concreto contributo la Triennale, con un’edizione ‘epocale’, l’ottava, nella quale vennero impostati e in qualche modo affrontati i temi che saranno il leit motiv di tempi a venire: urbanistica e architettura sociale, oggetti e arredi per le nuove case operaie e borghesi che stavano sorgendo nelle periferie.
Anche in questo secondo dopoguerra la riconversione delle aziende che si erano, e non poco, impegnate sul fronte bellico, offrì frutti significativi. Piaggio e Innocenti riutilizzarono ormai inutili componenti aeronautiche per mettere a punto mezzi a due ruote dal rivoluzionario assetto di guida – ‘vi ci si siede comodamente’, ‘ci si può riparare dal vento’, ‘può essere utilizzato anche dalle donne’ –, che permettevano agli italiani di motorizzarsi a costi contenuti. Ed ecco gli scooter più famosi. La Vespa (1946-47), che uscì dagli stabilimenti toscani di Pontedera – il cui nome certo richiamò la sua ‘vita’ sottile, ma soprattutto costituiva l’acronimo della denominazione Veicoli Economici Società Per Azioni –, a carrozzeria portante, con forma chiusa tondeggiante: la ricordiamo anche in Roman holiday (1953; Vacanze romane) di William Wyler cavalcata da Audrey Hepburn e Gregory Peck. E la Lambretta (1949-50), nata sulle rive del milanese fiume Lambro, da cui prese il nome: a struttura tubolare portante, più aggressiva e giovanile rispetto alla rivale, acquistabile a rate. Entrambe furono progettate da ingegneri aeronautici, da D’Ascanio (che abbiamo già incontrato e che aveva messo a punto già nel 1930 un prototipo di elicottero) la prima; da Pallavicino e Pier Luigi Torre la seconda. Due mezzi che consolidarono questa tipologia (affrontata da numerosissime altre aziende motociclistiche, le cui denominazioni ricordano uccelli da preda, come Nibbio, Aquilotto ecc.) e rivoluzionarono il sistema dei trasporti.
Meno conosciuta la riconversione della spezzina San Giorgio del gruppo IRI che, dalla produzione di strumenti e attrezzature per la Marina militare, divenne un centro avanzato di progettazione e produzione di elettrodomestici, dai ventilatori da tavolo e a colonna, alle lucidatrici e alle lavatrici. Ma la prima macchina per lavare il bucato in casa, il Mod. 50, fu proposto da Candy (nuovo e più accattivante nome, dal 1945, delle Officine meccaniche Eden Fumagalli di Monza), esposta, con grande successo di pubblico, alla Fiera campionaria di Milano del 1946.
Anche nel settore del mobile vi fu la riconversione di materiali e fondazione di una nuova azienda: Arflex, costola di Pirelli, fu creata proprio nel 1950 da un gruppo di giovani tecnici della Pirelli (Aldo Bai, Pio Reggiani, Aldo Barassi) che si fecero imprenditori e riutilizzarono la gommapiuma e il nastro elastico dell’azienda da cui provenivano per rivoluzionare la progettazione e la realizzazione di divani e poltrone, affrancandole dalla mano del tappezziere. E furono subito coinvolti progettisti già affermati come Albini e ‘giovani’ come Marco Zanuso (1916-2001), tra i primi architetti a interessarsi dei problemi dell’industrializzazione del prodotto e dell’uso di nuovi materiali e nuove tecnologie, il quale teorizzò, inoltre, la pari dignità tra la macro e la microscala della progettazione.
Aveva intanto appena aperto i battenti Azucena (1947), piccola impresa di arredi fondata dagli architetti Ignazio Gardella (1905-1999), Caccia Dominioni, Corrado Corradi Dell’Acqua (1905-1982), per produrre in piccola serie mobili e componenti d’arredo da loro progettati, riprendendo una straordinaria tradizione. Le fece da contraltare, quasi ‘spezzando’ il passato e innovando con intuitiva spregiudicatezza, Kartell, che l’ingegner Giulio Castelli (1920-2006), allievo al Politecnico di Milano di Giulio Natta (1903-1979), fondò nel 1949. Un mondo di plastica ripopolò le cucine e gli interni. Forme innovative e soprattutto colori inaspettati, nonché costi contenuti, caratterizzarono quei casalinghi, oggetti di sempre: dal secchio al portaimmondizie, dallo scolapiatti al battipanni. Li disegnarono i suoi amici architetti, da Anna Ferrieri (1920-2006), che diventerà sua moglie, a Gino Colombini (n. 1915), a Roberto Menghi (1920-2006): e non fu che l’inizio di un’avventura straordinaria.
A chiudere
E siamo al 1950, all’apertura di un decennio che vedrà consolidarsi in Italia l’industria, il commercio, gli affari e la cultura: anche quella del progetto, in un intreccio che costituisce una delle peculiarità del nostro Paese, dove il rapporto fra arte e industria risale comunque agli anni Trenta, alimentato dalla fittissima rete di laboratori artigiani, da non poche pubblicazioni di settore e, soprattutto, dalla promozione di grandi istituzioni come la Triennale di Milano, nonché da luoghi di divulgazione come La Rinascente e vetrine internazionali come la Fiera campionaria del capoluogo lombardo, riaperta nel 1946 che, fatta persona dalla penna di Dino Buzzati su «Il Corriere della sera», si celebra
Volere o no sono la speranza, il nuovo, il possibile, il domani incarnato […]. Io vi porto le favole del Duemila già risolte in macchine, in ordigni, e tante bellissime cose pratiche da usare in casa vostra.
«Cose pratiche» e belle, progettate da artisti/architetti/designer che hanno ben saputo sintetizzare l’antica cultura della forma con l’arte applicata e la tecnologia in un trinomio che già lascia intravedere perché proprio il disegno industriale del nostro Paese, in molteplici declinazioni e tipologie, abbia conosciuto e continui a conoscere tanta fortuna nel mondo. Da sempre, i progettisti italiani hanno saputo ‘aggiungere’ al prodotto valenze sia tecniche sia estetiche, sempre all’insegna dell’eticità: una predisposizione particolare che coniuga memoria e innovazione, e che permette di identificare obiettivi che rinnovano lo scape che ci circonda.
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