CORTESI URCEO, Antonio, detto Codro
Nacque a Rubiera (Reggio Emilia) il 14 0 il 17 agosto del 1446 da Cortese.
La prima data la fornisce egli stesso nel quarto Sermone (Opera, Basileae 1540, p. 131): "postridie iduum augusti natus sum". L'altra indicazione, invece, è nella Vita, accuratamente redatta subito dopo la sua morte dal discepolo Bartolomeo Bianchini, vita che è la fonte principale per tutti i suoi biografi: "Natus est Codrus Herberiae ... decimo sexto Calendas Septembris, paulo ante solis ortum" (Opera, f. a III). Il cognome Cortesi deriva dal padre Cortese, che fu notaio e che nel 1457 ottenne la cittadinanza di Modena. Usato dal C. e dal fratello come patronimico, alla loro morte fu assunto dai discendenti come un vero e proprio cognome, come attestano i libri battesimali della parrocchia di Rubiera (C. Malagola, Della vita e delle opere, pp. 142-144e App. X, XI, pp. 454-457). Ilnome Urceo (Urcei, de Urceis) deriva dal villaggio di Orzi Novi (Brescia), da cui proveniva la famiglia. Tale cognome è usato per l'ultima volta da un discendente del C. nei libri parrocchiali di Rubiera nel 1588.Dopo di allora la famiglia assunse definitivamente il solo cognome di Cortesi. Quanto al soprannome Codro, che egli stesso volle assumere e che lo rese famoso nel mondo delle lettere, esso è quello di un oscuro poeta dell'età Flavia, autore di una Teseide e di cui Giovenale (Sat. 1, 2, 111, 203-211) descrisse l'estrema miseria.
La madre Geraldina morì nel dare alla luce il fratello Pietro Antonio. Il padre Cortese, che per primo portò ad un discreto livello economico e sociale una famiglia povera e contadina, fece studiare il C. prima a Rubiera e poi a Modena con l'umanista Gaspare Tribraco de' Trimbocchi (G. Venturini, Un umanista modenese, p. 36).Secondo il Bianchini, seguito da tutti i biografi successivi, il C. non rimase a Modena che pochi mesi. Intorno al 1465, si recò a Ferrara, dove incontrò i suoi veri maestri: Battista Guarini e Luca Ripa.
Dal Guarini il C. derivò il culto della lingua greca, posta a fondamento di una cultura umanistica che ambiva ad essere non solo letteraria, ma anche scientifica e filosofica, e insieme quella autentica passione pedagogica che lo dominò per tutti gli anni del suo insegnamento, rendendolo particolarmente caro ai suoi discepoli. Benché non rinneghi mai l'insegnamento di Luca Ripa, il C. riconobbe sempre in Battista Guarini il suo vero maestro, colui che lo aveva educato "moribus et Musis" (Opera, pp. 319 s.), dandogli cioè una formazione non solo culturale e intellettuale, ma anche morale, secondo il metodo del grande Guarino.
A Ferrara rimase per circa cinque anni. Nel 1469, per intercessione del Ripa, si trasferì a Forlì, chiamato all'insegnamento delle lettere con lauto stipendio (cfr. Bianchini, Vita, in Opera, f. a IIIv: "magnis praemiis invitatus, ... publice erudivit pueros"; cfr. anche la sua lettera al discepolo forlivese Eugenio Manghi, in Opera, pp. 276 s.).
A Forlì ottenne probabilmente anche la cittadinanza, tanto che fu chiamato più volte forlivese. Secondo lo storico locale Giorgio Viviano Marchesi, del sec. XVII, ricordato dal Malagola (p. 163), il C. avrebbe restaurato e portato a nuova vitalità l'Accademia forlivese dei Filergiti, che in seguito lo considerò come un secondo fondatore.
Legatosi al signore della città, Pino Ordelaffi, il C. fu da questo chiamato ad essere il precettore del figlio naturale Sinibaldo. Secondo il Malagola (pp. 162 s.), tale chiamata dovette aver luogo nel 1477, quando Pino Ordelaffi fece uccidere Giacomo Soardo da Bergamo, allora precettore di Sinibaldo. Certo si è che, quando cominciò a seguire l'educazione dell'erede degli Ordelaffi, il C. si trasferì nel loro palazzo e a Pino consacrò alcuni componimenti poetici, due dei quali furono pubblicati nel secondo libro delle sue Sylvae (Opera, pp. 355-359): in seguito ne pianse la morte in due epitafi (Opera, pp. 386 s., 405). Mentre dimorava in casa Ordelaffi, gli capitò un incidente simile a quello che distrusse la povera suppellettile dell'antico Codro (descritto da Giovenale nella III satira). La caduta di una lucerna fece infatti incendiare la sua stanza con tutti i suoi libri amorosamente raccolti. Stravolto dal dolore, l'umanista lanciò imprecazioni e bestemmie terribili - accuratamente registrate dal Bianchini - e per sei mesi visse in triste abbandono e solitudine nella casa di un falegname. Infine ritornò nel palazzo del signore, vinto probabilmente dal grande affetto che lo legava al discepolo Sinibaldo.
Il 10 febbr. 1480 Pino Ordelaffi morì, pare avvelenato dalla moglie Lucrezia. La signoria della città passò al suo unico figlio, il bastardo Sinibaldo, sotto la tutela della matrigna e del fratello di lei, Antonio Pico della Mirandola. Ma il 18 luglio 1480 moriva di malattia anche il giovane Sinibaldo, pianto in teneri distici elegiaci dal suo maestro (Lamentatio ad lectum in quo expiravit Sinibaldus Ordelaphus, in Opera, pp. 344-350). Il 23 agosto dello stesso anno Sisto IV investiva della signoria di Forlì il nipote Girolamo Riario.
Il C. rimase a lungo assediato nella rocca di Forlì che resisteva al nuovo signore, e il 15 luglio 1481 assistette all'ingresso trionfale nella città di Girolamo Riario e di sua moglie Caterina Sforza (cfr. Raimondi, Codro e l'umanesimo, p. 44). In onore dei nuovi signori compose tre epigrammi (Opera, pp. 412 ss.). Quindi si recò a Bologna, dove il 14 ott. 1482 fu nominato professore di grammatica, retorica e poetica e, a partire dall'anno 1485-86, anche professore di greco "diebus festis" (cfr. Malagola, pp. 173-175 e App. XIV., pp. 478-495).
Lo stipendio annuo fu, come si ricava dai documenti citati in appendice dal Malagola, di 100 lire di bolognini, aumentate poi a 125 dal 1488 e infine a 150 dal 1496.
Del suo insegnamento bolognese, che lo rese famoso, anche per la fama raggiunta da alcuni suoi discepoli, come Filippo Beroaldo iunior e Niccolò Copernico, ci restano in sostanza solo i quattordici sermones o prelezioni, che occupano più della metà del volume della sua Opera omnia (pp. 1-256). Oltre al linguaggio, vivacissimo e libero sintatticamente, tanto da poter essere accostato a quello di Plauto, vi si nota un vero e proprio culto per gli autori greci, tra i quali, in primo piano, Omero e Aristotele.A Bologna il C. rimase fino alla morte. Se ne allontanò solo per un breve viaggio a Roma, che ricorda in un epigramma a Vertunno Zambeccari (Opera, p. 396) e per un viaggio a Milano nel 1494, al seguito di un'ambasceria composta da Alessandro Bentivoglio, Mino Rossi e Gianfrancesco Aldovrandi. In quell'occasione egli fu ospite della famiglia Borromeo, imparentata con i Bentivoglio (cfr. Malagola, pp. 177 s.).
Il C. morì l'11 febbr. 1500, nel cenobio del Salvatore, dove si era fatto trasportare in seguito ad un attacco di asma.
Data la gracilità della sua costituzione e le molte e frequenti malattie (cfr. Sylvarum II, De sua aegrotatione, in Opera, pp. 340-344), non c'è bisogno di pensare a una morte violenta, come fa Pierio Valeriano (De litteratorum infelicitate libri duo, a cura di E. Brydges, Genevae 1821, p. 16), o supporre che la morte fosse procurata dall'angoscia di essere stato derubato della chiave del suo forziere dal fratello Pietro Antonio, come racconta il Bianchini. Chiese i sacramenti e si confessò e comunicò con grande devozione; ma la notte prima di morire fu tormentato dalla visione del demonio (cfr. Bianchini, Vita, in Opera, f. b IVv). Anche nel suo testamento, professa con insistenza la sua fede cristiana: "In primis animum meum seu animam Omnipotenti Deo commendo... quem quidem animum semper immortalem duxi contra Epicurum oscitantem et cos qui sub Christiano nomine nihil Christiani agunt" (cfr. Bianchini, Vita, in Opera, f. c Iv). Una professione di fede che vuol essere evidentemente una risposta alle molte accuse di empietà che gli furono mosse dai contemporanei. Ricordiamo a questo proposito l'epigramma composto contro di lui da Filippo Beroaldo iunior, riprodotto dal Malagola (p. 186) e dal Raimondi (Raimondi, Codro e l'umanesimo, p. 12). Nell'unica edizione dei carmi di Beroaldo (Romae 1530, f. 49v), l'epigramma è intitolato Epitaphium Sexti epicurei e l'accusa di empietà sembra diretta contro Alessandro VI. Ovviamente, al v. 1, troviamo "Sexte" per "Codre".
Anche Erasmo (Dialogus Ciceronianus, a cura di C. Mesnard, in Opera omnia, I, 2, Amsterdam 1971, p. 665) lo accusò di simpatie epicuree. E il Bianchini raccolse puntualmente tutte le accuse mosse contro di lui, ricordò le bestemmie lanciate contro Cristo e la Vergine in occasione dell'incendio di Forlì, l'incubo diabolico la notte prima di morire, le sue molte superstizioni, per concludere in modo ambiguo: "Circa christianum dogma si non re, saltem verbis plerumque claudicabat". Certo, se si guarda al suo linguaggio faceto e spesso sboccato, di schietta impronta plautina, gli si può attribuire la spregiudicatezza di altri due cultori di Plauto, Antonio Beccadelli e Poggio Bracciolini; se si pensa poi alle sue simpatie aristoteliche, lo si può accostare all'aristotelismo laico di un Leonardo Bruni (cfr. quanto dice F. Gaeta nella recensione al libro del Raimondi, in Rinascimento, II [1951], pp. 451 s.). Ma i tempi erano mutati. Dietro la maschera comica, il C. rivela più di una volta una autentica angoscia: paradossalmente, il suo itinerario verso la fede prende le mosse proprio dal suo scetticismo e dalla sua sfiducia nella ragione umana. Anche il suo aristotelismo nasce da una parte dal rifiuto di ogni sincretismo di tipo platonizzante, dall'altra dall'adesione al clima culturale dell'università di Bologna, dove, come ha dimostrato egregiamente il Raimondi (pp. 48 s. e 124-145), la lezione umanistica si inserisce senza rotture in una gloriosa tradizione medievale tutta aristotelica o nominalistica. Certo non è facile giudicare dell'autenticità della fede di un umanista italiano del '400, di un'epoca cioè che - come ha detto Lucien Febvre (Le problème de l'incroyance au XVIe siècle. La religion de Rabelais, Paris 1942, p. 492) -"veut croire".
Ma se guardiamo alla sua opera, vi troviamo moltissime citazioni di autori sacri (cfr. Raimondi, p. 298) ed un particolare amore per il Salmista e per s. Paolo, unito ad una totale sfiducia per il pensiero dei filosofi, che per lui non ha alcun valore: "Citant Platonem, allegant Aristotelem, producunt Senecam, quorum dicta fabulas esse supra demonstravi. Insinua mihi, reverende pater, Pauli epistolas, Catenam auream divi Thomae et alia huiusmodi" (Opera, p. 64). La citazione è tratta dal Sermo I (De metamorphosi humana in beluas, che dovrebbe essere del 1494-95), che ridicolizza tutte le ambizioni intellettuali degli uomini ed è stato finemente analizzato dal Raimondi (pp. 158-165): ma si veda anche il Sermo VI(De mendaci mortalium vita), che è tra gli ultimi di quelli rimastici (1497-98) e ricalca nel titolo l'epigramma De mendaci vita humana (Opera, pp. 397 ss.). Capovolgendo dunque le parole del Bianchini, concluderemo che il C. fu, o almeno volle essere, cristiano "si non semper verbis, saltem re".
A parte le riserve sulla sua religiosità, fu stimato dai contemporanei. Il Poliziano sottopose al suo giudizio alcuni epigrammi greci, nell'estate del 1494 (cfr. A. Politiani Operum, I, Lugduni 1550, pp. 142-147). Nel 1499 Aldo Manuzio gli dedicò l'edizione degli epistolografi greci (Epistolae philosophorum, Venetiis 1499, f. IV). Infine Filippo Beroaldo senior lo ricordò con rispetto nel suo commento alle Metamorfosi di Apuleio (Apulei Asinus aureus, cum Philippi Beroaldi commentario, Bononiae 1500, p. 94).
Fra i suoi allievi ed amici, elencati accuratamente dal Malagola (pp. 286-305), e poi dal Cosenza, ricordiamo, oltre a Sinibaldo Ordelaffi, i figli di Giovanni (II) Bentivoglio (tra cui quel protonotario apostolico Antonio Galeazzo, cui è dedicata l'edizione delle sue opere), Filippo Beroaldo iunior, il suo biografo Bartolomeo Bianchini, il tolosano Jean de Pins, poi vescovo di Rieux, e, per il greco, Niccolò Copernico (su cui cfr. Malagola, pp. 306-366), e l'umanista polacco Andrzey Krzycki (Andreas Cricius: cfr. I. N. Goleniscev-Kutuzov, Il Rinascimento italiano, p. 309).
Il volume dell'Opera omnia, curato amorosamente subito dopo la sua morte, nel 1502, dai discepoli più devoti (Filippo Beroaldo iunior, con l'aiuto di Jean de Pins e Bartolomeo Bianchini, e con l'incoraggiamento di Antonio Galeazzo Bentivoglio, cui l'edizione è dedicata) contiene, accanto ai Sermones, una piccola raccolta di Epistolae (pp. 259-285) due libri di Sylvae poetiche (pp. 287-362): due Satire (pp. 362-376), un'Aegloga (pp. 376-380), e un libro di Epigrammi (pp. 380-410). Più della metà del volume è occupata dai Sermones, che rappresentano la testimonianza più significativa sulla sua vita e sul suo insegnamento. Pubblicati in un ordine del tutto casuale, sono stati riordinati cronologicamente, sia pure in via ipotetica, dal Raimondi (Codro e l'umanesimo, pp. 147-150). Diamo qui i titoli, nell'ordine suggerito dal Raimondi, perché ci sembra che in tal modo si possa ricostruire, sia pure in parte, il contenuto dell'insegnamento del C. e la sua evoluzione: 1484-85, XIV, De virtute, ad apertura di un corso su Valerio Massimo; 1485-86, VII, In laudem Homeri, con cui aprì il suo insegnamento di greco; 1486-87, XI, In Hesiodum; 1487-88, IX, In laudem vitae pastoriciae; 1488-89, VIII, In Homerum; 1489-90, V, In laudem Aristotelis; 1490-91 (?), X, In laudem litterarum Graecarum; 1491-92 (?), III, In laudem Homeri; 1492-93, XIII, In laudem liberalium artium; 1494-95, I, De metamorphosi humana inbeluas;1495-96, IV, Utrum ducenda sit uxor; 1497-98, VI, De mendaci mortalium vita; 1498-99, II, In enarratione rhetorices et Lucani; 1499-1500, XII,In quo agitur de medio. Come è stato rilevato dal Raimondi, la passione per il greco domina nell'insegnamento del Cortesi. Al primo posto egli pone Omero, cui dedica ben tre discorsi (VII, VIII, III); subito dopo viene Aristotele, cui dedica i discorsi V e XII, mentre il VI introduce ad un corso su Aristotele e Omero.
La passione per Aristotele è confermata dal codice Vallicelliano latino C 83, che contiene l'Etica Nicomachea nella traduzione di Leonardo Bruni, con brevi note autografe del C. in greco e in latino (cfr. Kristeller, Iter Italicum., II, p. 131).
Del greco tuttavia il C. fu conoscitore più appassionato che raffinato, come dimostrano le tre traduzioni latine che si conservano in due codici della Biblioteca universitaria di Bologna (busta XII, 2 e 7: cfr. Frati, Indice dei codici latini, pp. 110 s.). Il codice secondo contiene l'orazione pseudo-isocratea A Demonico; il settimo l'Isagoge di Porfirio e le Categorie (Praedicamenta) diAristotele. A parte la scelta delle opere, che sono tra le più divulgate e già tradotte in latino in età medievale, le traduzioni, come fu notato prima dal Malagola e più ancora dal Raimondi, sono quanto di più pedestre e zoppicante vi possa essere, e non rispettano le regole né della grammatica greca né di quella latina. Il Malagola, che considera i due codici come autografi (pp. 192-196), parla di "prime prove di traduzione". Almeno per il codice della Demonicea è però assai dubbia l'autografia, non solo per i grossolani errori, ma anche e soprattutto per il confronto con le note del codice Vallicelliano, che sono sicuramente autografe; è probabile quindi che almeno per il codice XII 2 si debba pensare all'opera di qualche discepolo che riproduceva pedestremente la lezione del Cortesi.
Nel volume dell'Opera omnia, anche le lettere e le poesie non sono ordinate cronologicamente; ad esempio nelle Sylvae, troviamo nel primo libro i componimenti in onore del Bentivoglio, nel secondo i carmi in onore degli Ordelaffi, composti evidentemente in precedenza. Si tratta, con tutta evidenza, della scelta da una produzione che doveva essere molto più vasta. Mancano le traduzioni dal greco, che forse non meritavano di essere conservate. Ma manca anche il finale dell'Aulularia di Plauto, cioè quei centoventidue versi che sia dai contemporanei come dai critici moderni sono considerati il suo capolavoro poetico ed erudito. Ristampati infinite volte, dopo la prima edizione di Deventer 1482, imitati ma non uguagliati dall'umanista fiammingo Martin van Doorp, amico di Erasmo, i versi plautini del C. furono universalmente giudicati in tutto degni del loro grande modello.
Come poeta, il C. riesce soprattutto nei ritmi di tipo medievale, come quando riprende in un ritornello ossessivo il lamento del salmo XV, "Omnis homo mendax" (De mendaci vita humana, in Opera, pp. 397 ss.), come quando riecheggia i canti goliardici, servendosi perfino della rima (Rhitmus die Divi Martini pronunciatus, in Opera, pp. 415-420). Poesia di tipo medievale dunque, oppure rifacimento geniale del latino di Plauto, in cui non si nota solo la sapienza del linguista, ma anche la sensibilità del poeta congeniale col grande antenato romagnolo. Del resto anche, la prosa dei suoi Sermones è eccezionale. Egli non si limita infatti a respingere il ciceronianismo dei pedanti, con una prosa composita che attingesse anche ai modelli dell'età argentea, come avevano fatto il più grande dei Beroaldo e Poliziano. A differenza di Beroaldo e di Poliziano, egli non fu infatti un grande filologo; egli fu essenzialmente un maestro, che sentì con straordinaria acutezza quello che sarà il problema centrale della pedagogia fiamminga e tedesca del '500: rendere viva una lingua morta, rendere gradevole o addirittura divertente la lettura e il commento degli antichi autori. L'origine contadina della sua famiglia e la sua acuta sensibilità sociale, che gli avevano fatto assumere il nome di Codro proprio per ricordare a tutti la sua povertà, gli fecero scegliere un latino il più possibile libero dai freni della normativa, il più possibile desultorio e parlato. Non a caso le sue lezioni sono dette Sermones.
Il suo modello, anche in prosa, è Plauto, la sua fonte è la miniera del latino arcaico, con la sua ricca creatività e con la libertà dei costrutti non ancora normalizzati. C'è in questa scelta una felice intuizione pedagogica, che anticipa la predilezione degli umanisti tedeschi per il latino della "palliata" (cfr. O. Kluge, Die neulateinische Kunstprosa, in Glotta, XXIII 119-341, p. 26). Ma vi si trova anche l'intuizione e la riscoperta simpatetica di un mondo contadino, che era stato soffocato dalla civiltà ellenizzante ed urbana di una Roma aristocratica e, tendenzialmente imperiale (cfr. E. Flores, Lett. latina e ideologia del III-II sec. a. C., Napoli 1974, pp. 57-80).
E per aver conferma di ciò basta leggere i famosi versi aggiunti all'Aulularia, badando non solo alla perfezione formale dell'imitazione, ma anche al loro contenuto. Vi troveremo un elogio aperto della libertà: "...omnes natura parit liberos / et omnes libertati natura student. / Omni malo, omni vitio peior servitus / et quem Iuppiter odit, servurn hunc primum facit", e un attacco violento contro l'avidità dei padroni: Nullae illis satis divitiae sunt, non Midae, non Croesi, non omnis Persarum copia / explere illorum Tartaream ingluviem potest" (M. A. Plauti Aulularia, Argentinae 1537, pp. 72 s.).
Accanto alle opere raccolte dai discepoli e all'aggiunta all'Aulularia, poco ci rimane della produzione del Cortesi. Resta qualche scheggia dei suoi commenti universitari, ma spesso col dubbio dell'autenticità. Le note al carme De insitione di Palladio Rutilio Tauro (Scriptores rei rusticae, Opera agricolationum ..., Bononiae, ed. Benedictus Hectoris, 1504, pp. 298 ss.), non sembrano essere veramente sue, secondo quanto dice egli stesso nel Sermo I (Opera, p. 51, in Malagola, pp. 410 s.). Più autentiche sembrano le note all'Aulularia di Plauto (Plauti Aulularia a Codro Urceo perfecta, cum,familiari explanatione, Argentorati 1511) e quelle manoscritte al Miles gloriosus (ff. 9-23v) e al Mercator (ff. 25-36v, 41-55v) che si conservano, con altre note anonime ed altre commedie plautine, nel codice Vat. lat. 2738 (cfr. Kristeller, Iter Italicum, II, p. 351). Da queste note si ha l'impressione di un commento grammaticale e linguistico piuttosto stringato, che corrisponde all'ideale metodico illustrato da Ludovico Vives nel De ratione dicendi (cfr. A. Buck, Introduzione a Der Kommentar in der Renaissance, a cura di A. Bucko. Herding, Bonn - Bad Godesberg 1975, p. 9).
Un commento insomma, che tendeva a spiegare il significato storico e linguistico del testo, senza aspirare ad essere un'opera autonoma. Non possiamo evidentemente trarre delle conclusioni sicure, poiché non disponiamo di un commento pubblicato a cura dell'autore. Ma si ha l'impressione che il C. non si abbandonasse nel commento a quell'autobiografismo scherzoso e quasi teatrale che è la caratteristica più amabile dei suoi Sermones.
Il resto della sua produzione è andato perduto. Il Sermo de virtute, pubblicato in appendice ad alcune edizioni di Valerio Massimo (Argentorati 1524; Basileae 1536) non è altro che il più antico dei suoi Sermones, il XIV, letto, secondo il Raimondi, ad apertura dell'anno accademico 1484-85, come introduzione ad un corso su Valerio Massimo (Opera, pp. 250-256). Un Pastor, che era forse una composizione poetica, andò perduto nell'incendio di Forlì. Egli stesso allude due volte ad un'opera erudita, di contenuto mitologico, che chiama De fabulis (Opera, pp. 38, 45). Infine, il Malagola accenna ad un'altra opera erudita, dal titolo varroniano di Antiquitates, che però dalla vita del Bianchini (Opera, f. b IIIv) appare chiaramente non essere mai stata condotta a termine. Molti libri dovettero andare dispersi quando, fuggito Giovanni (II) Bentivoglio di fronte all'esercito di Giulio II, il palazzo dei Bentivoglio fu saccheggiato dal Popolo (1507). In quell'occasione andò perduto anche il ritratto del C., dipinto dal Francia.
L'edizione dell'Opera omnia, curata dagli allievi, apparve per la prima volta a Bologna (per Ioannem. Antonium Platonidem Benedictum) nel 1502; poi a Venezia nel 1506; quindi a Parigi nel 1515 e infine, in formato economico e in caratteri corsivi, a Basilea nel 1540.
La prima edizione del supplemento all'Aulularia sarebbe apparsa, secondo il Malagola (p. 384), a Deventer, in Olanda, nel 1482. Un incunabolo plautino edito in tale luogo e tale data è ricordato, ma non descritto in Hain 13.075. Ricordiamo inoltre Hain 13.086: Aulularia ... opera providi Iohannis Priis [scil. Prüss] Argentine ... s. a.
Nel corso del secolo XVI, l'Auluiaria con il finale del C. e un breve commento, che sembra essere suo, fu edita più volte a Strasburgo (1511, 1513, 1517, 1520 ecc.) e a Parigi (1515) e, senza note, a Lipsia, nel 1513, da due diversi editori (Melchior Lotter e Jo. Prüss). Al finale del C. si affianca quello più lungo di Martin van Doorp nelle edizioni di Anversa del 1517 e del 1537. Non tutti gli editori dell'Opera omnia di Plauto accolsero il supplemento di Codro. Si trova nell'edizione di Bologna 1503 (per Benedictum Hectoris) e in quella di Parigi 1530 (ex officina Roberti Stephani).
Fonti e Bibl.: Sulla sua vita, la fonte principale è la lunga biografia di B. Bianchini, pubblicata insieme alle sue opere fin dalla prima edizione. G. M. Mazzuchelli, Notizie intorno allevite ed agli scritti degli scrittori d'Italia, in Bibl. Ap. Vaticana, Vat. lat. 9267, ff. 200v-201; G. V. Marchesii Vitae virorum ill. Foroliviensium, Forolivii 1726, pp. 216 s.; G. Tiraboschi, Storia dellaletter. ital., III, Milano 1833, pp. 261 s.; S. Grosso, Pel supplemento di A. U. Codro alla Pentolinaria di M. A. Plauto…, Bologna 1877; C. Malagola, Della vita e delle opere di A. U. detto Codro. Studi e ricerche, Bologna 1878 (è la fonte primaria per ogni ricerca sul C.); L. Frati, Indicedei codici latini conservati nella R. Bibl. univers. di Bologna, in Studi it. di filol. class., XVI (1908), pp. 110 s.; G. Mazzatinti, Il principato di Pino IIIOrdelaffi, secondo un frammento ined. della cronaca di Leone Cobelli, in Atti e mem. della R. Dep. di st. patria per le prov. di Romagna, s. 3, XIII (1895), pp. 1-56; J. Hutton, The Greek Anthologyin Italy to 1800, Ithaka, N. Y., 1935, pp. 122-123; E. Raimondi, Codro e l'umanesimo a Bologna, Bologna 1950 (cfr. la recensione di F. Gaeta, in Rinascimento, II, [1951], pp. 451 s.); M. E. Cosenza, Dictionary of the Italian Humanists, IV, Boston 1962, pp. 3513-3520; G. Venturini, Un umanista modenese nella Ferrara di Borsod'Este: Gaspare Tribraco, Ravenna 1970, pp. 33-36; E. Raimondi, Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna 1972, pp. 48-57. 72-79; I. N. Goleniščev-Kutuzov, Il Rinascimento ital. e le letterature slave nei secc. XV e XVI, a cura di S. Graciotti - J. Křesálková, Milano 1973, p. 309, P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad Indices.