Donati, Corso (in un documento bolognese anche Bonacursus)
Nato circa il 1250 (certamente non dopo il 1253, perché nel 1278 era già membro del consiglio dei Cento, per l'accesso al quale l'età minima richiesta era di 25 anni), figlio del cavaliere Simone, appartenente a una delle famiglie non più ricche (non figura, infatti, nel giro delle più note case bancarie e mercantili di Firenze), ma fra le più autorevoli per vecchia tradizione nobiliare e più potenti per prestigio sociale e per aderenze politiche, ma anche fra le più facinorose, Corso fu, per un ventennio, il personaggio più in vista nella Firenze di D., il quale, se non entrò in dimestichezza con lui - non c'è alcun accenno in proposito - come, invece, sia pur tenzonando poeticamente, col fratello Forese, tuttavia, certamente, lo conobbe molto bene, come tutti a Firenze, allora. Aveva le case sulla piazza di San Piero Maggiore, a poco più che un centinaio di metri dalle case degli Alighieri. Era di bellissima persona, facile, suadente parlatore, splendido anche oltre le possibilità domestiche, di natura impulsivo e spericolato, pronto sempre ad agire e a rischiare con i mezzi estremi della prepotenza e della violenza, cinicamente sicuro di sé e della sua superiorità, sprezzante con amici e nemici, soccorrevole con i primi, spietato con i secondi. Aveva il temperamento del capo-parte, ma, per eccesso passionale e rifiuto della prudenza e dell'accortezza, non dell'uomo politico.
Creato cavaliere, non si sa in quale anno, ma certo giovanissimo, la sua figura rimane ancora un po' nell'ombra dietro quella del padre Simone, uno dei capi della Parte guelfa. La sua natura violenta, senza scrupoli, si manifestò nei riguardi delle sorelle: una, Piccarda, strappata dal chiostro di Monticelli per darla in moglie a Rossellino della Tosa (Pg XXIV 10, 13-15; Pd III 31 ss., IV 9, 112); l'altra, Ravenna, già rimasta vedova di due mariti, si era ritirata con i figli, come conversa, nel convento domenicano di S. Jacopo a Ripoli, facendo offerta dei suoi beni al convento. Di qui le ire di Corso, che non voleva che i beni (del resto non suoi, ma dell'ultimo marito di Ravenna) uscissero dalla famiglia. Impose alla sorella di lasciare il chiostro e di porre le due figlie sotto la tutela sua, di Corso. Ne venne, fra 1280 e 1282, una lunga lite, nella quale un Adimari, Giacobino, di famiglia guelfa ma inimicissima dei Donati, prese le difese del convento, mentre altri cavalieri fiorentini, poi della parte di Corso, sostennero quest'ultimo. La conclusione, in cui intervenne anche il papa, fu che Corso e le monache si spartirono l'eredità delle fanciulle. Impetuoso nei consigli del comune, nel febbraio 1285 si fece fautore dell'alleanza con Lucca e Genova contro i Pisani, ma corse voce, incontrollabile, che poi si ammansisse, per i denari avuti dal conte Ugolino della Gherardesca; e nello stesso mese fece pure l'arrischiata proposta che il comune s'impadronisse di tutti i luoghi dell'impero circostanti al territorio fiorentino.
Ogni tanto la città era sollevata dalla presenza di quest'uomo inquietante, perché, per il prestigio del casato e della persona, era spesso chiamato rettore in questa o quella città. Così, fra l'aprile 1285 e il marzo 1286 fu prima capitano del popolo e poi podestà di Bologna; nel 1287 podestà a Padova; nel 1289 a Pistoia, nel 1293 ancora capitano a Bologna, e nel 1293-94 a Parma. Ma quando tornava da questi uffici nella sua città, sempre era al centro delle operazioni guerresche e dei torbidi civili. Lo si trova al seguito di Guido di Montfort, capitano della Lega guelfa toscana, a combattere gli Aretini al Poggio S. Cecilia; e nell'ottobre dello stesso anno (1286) è il capo di quella banda di nobili che, a mano armata, tenta di sottrarre al supplizio capitale uno dei maggiorenti guelfi, Totto dei Mazzinghi di Campi, condannato per assassinio. Il colpo di mano non riuscì per la resistenza delle forze popolari, ma Corso se la cavò con una lieve pena pecuniaria. Il suo nome già correva fuori di Firenze, oltre che per le cariche in varie città, per la parte decisiva avuta nella battaglia di Campaldino (11 giugno 1289) contro gli Aretini. Probabilmente per la sua qualità, allora, di podestà di Pistoia, comandava le forze unite pistoiesi e lucchesi. Contravvenne, di sua iniziativa, rischiando la pena di morte, all'ordine di attaccare i nemici se non su ordine del capitano generale; e fu la vittoria dei Fiorentini e dei collegati, di cui Corso menò sempre gran vanto, sostenendo che senza il suo concorso e dei magnati la milizia popolare fiorentina non avrebbe potuto vincere. Smanioso di azione, sostiene gagliardamente contro Pisa (marzo 1290) la causa di Nino Visconti, giudice di Gallura; e denunzia la mollezza con cui la guerra era condotta dal governo fiorentino e nella quale egli era portatore " del vittorioso e felice stendardo del re di Napoli ", l'alleato e protettore dei guelfi fiorentini.
L'emanazione delle leggi fiorentine speciali contro i magnati (gli Ordinamenti di Giustizia) ferì profondamente Corso e i suoi fautori magnati. In una lettera del febbraio 1293, diretta al comune di Bologna, che l'aveva chiamato come capitano del popolo, confessava di non poter lasciare Firenze se non con grande pericolo dei figli e dei fratelli, minacciati dai nuovi, odiati Ordinamenti. Infatti, approfittando della sua assenza (era podestà a Parma) nel giugno 1294 le autorità comunali fiorentine riapersero contro di lui il processo per l'usurpazione dei beni delle nipoti. Il momento pare bene scelto, anche perché il numerosissimo casato dei Donati, che non era mai stato unito, ora era travagliato anche di più da gravi lotte interne: un gruppo capeggiato da Corso, l'altro da messer Maso Donati e dai figli di Biciocco Donati. Corso, tornato dalla podesteria a Parma, in uno scontro alla fine del 1294 ferisce il cugino messer Simone Calastrone Donati e un suo servo, ma nel processo che ne seguì e che riguardò anche l'assassinio di un popolano per mano di un altro Donati, Corso riuscì a mescolare le cose e con la protezione del nuovo podestà ebbe solo una pena pecuniaria e l'interdizione dalla carica podestarile per cinque anni, mentre l'innocente Simone Calastrone fu condannato a morte e alla confisca dei beni. Contro così patente ingiustizia i popolani insorsero, ma Corso ne uscì ugualmente indenne.
Comincia a profilarsi in questi anni, più nettamente, il conflitto fra i Donati e i Cerchi. Ragioni personali, non ultima la vicenda matrimoniale di Corso, unito in prime nozze con una Cerchi, morta improvvisamente non senza il sospetto che il marito l'avesse fatta avvelenare, s'intrecciano con motivi più esplicitamente politici, quali il riserbo tenuto dai Cerchi rispetto agli attacchi dei Donati e di altri magnati contro gli Ordinamenti di Giustizia. Specialmente acre l'antipatia fra Corso e Vieri de' Cerchi, detto da Corso il " somaro di Porta " (Porta San Piero). In seconde nozze Corso aveva sposato la ricca ghibellina, vedova di un Ubertini da Gaville, potenti feudatari del Valdarno superiore. Che fosse di famiglia ghibellina pare non preoccupasse il fanatico guelfo che era Corso: c'era in palio una dote di 6000 fiorini. I Cerchi e alcuni degli Ubertini cercarono d'impedire il matrimonio. Ciò diede nuova esca alle inimicizie, cui si ricollega l'episodio di un altro seguace dei Cerchi (Bianchi), il poeta Guido Cavalcanti, che in un accesso d'ira cercò di uccidere Corso sulla pubblica piazza (1296). Ma di contro ai Cerchi, spesso inerti e incerti, legalitari, cresceva l'autorità di Corso e del suo gruppo. I podestà susseguentisi, messer Cante dei Gabrielli da Gubbio e messer Monfiorito da Coderta di Treviso, lo appoggiano apertamente, pur contro gli Ordinamenti di Giustizia. Anche il papa Bonifacio VIII volge apertamente le sue simpatie verso il gruppo di Corso (i Neri). Negli anni 1298-1299 Corso spadroneggiò, di fatto, in Firenze, con manifeste punte contro il potere popolare, specialmente in fatto di tassazione. Tutto ciò provocò, il 2 maggio 1299, un tumulto popolare che mise termine, momentaneamente, alle prepotenze di Corso e dei suoi: il suo fautore e complice, il podestà Monfiorito, è costretto a fuggire, convinto di corruzione. Corso è condannato a una multa di mille libbre, che egli si rifiuta di pagare; onde è posto al bando. Con l'appoggio del papa è chiamato a Orvieto alla carica di podestà (fine 1299) e l'anno successivo (1300) il papa lo nomina suo rettore della Massa Trabaria, fra l'alta Val Tiberina e l'Urbinate. Non è, perciò, presente ai gravi scontri fra Cerchi e Donati il Calendimaggio del 1300; ma pur da fuori (ora è a Roma, chiamatovi dal papa, che se ne vuol fare strumento per la sua politica in Toscana) egli trama il famoso convegno dei suoi seguaci del maggio 1300 nella chiesa di S. Trinita, con chiari propositi di sovvertimento del governo popolare. Perciò, il 10 maggio 1300, dal priorato precedente quello di D. è condannato a morte in contumacia e ad avere rotte e distrutte le case; ciò che fu fatto. Ma un anno e mezzo più tardi, alla venuta di Carlo di Valois, prepara la sua rivincita. Nel novembre 1301, con pochi compagni, entra in Firenze, per Porta Pinti, e si prende le sue vendette: apre le carceri dei delinquenti, ad essi e ai suoi seguaci abbandona per cinque giorni la città al saccheggio, con preferenza, naturalmente, delle case dei suoi avversari. Le sentenze contro di lui sono cassate. È il vero padrone della città e tale rimarrà per più di tre anni, nei quali cade anche la prima condanna di D., fino alla primavera del 1304, ma tra forti contrasti nella sua stessa parte: si staccano da lui alcuni dei suoi maggiori aderenti: messer Rosso della Tosa e altri, mentre Corso civetta con i popolani e col nuovo vescovo, Lottieri della Tosa, inimicissimo di messer Rosso. Demagogicamente si fa accusatore (luglio 1303) della dilapidazione del denaro pubblico fatta dai suoi stessi compagni. Ma il popolo minuto diffida di lui, perciò egli torna agli amici di Parte guelfa, benché essi lo guardino con sospetto per questi suoi disinvolti passaggi da Parte a Parte. Nei tumulti e saccheggi e incendi del febbraio e giugno 1304 ha gran parte; ma ciò non vale a rialzare molto la sua posizione già scossa, che egli tenta di restaurare anche con maneggi con i guelfi di Prato e di Lucca e con i guelfi Neri di Pistoia, esuli, dai quali è nominato capitano-podestà (maggio 1305). I molti, oramai, maneggi lo mettono in sospetto anche presso i suoi aderenti più stretti. L'atteggiamento equivoco durante l'assedio posto a Gargonza dai Neri fiorentini contro i Bianchi, e soprattutto il suo terzo matrimonio con la figlia del più temuto capitano ghibellino, Uguccione della Faggiola nemico di Firenze, accrescono questi sospetti presso i capi dei Neri, Rosso della Tosa, Pazzino dei Pazzi, Geri Spini, Betto Brunelleschi. Solo per un momento alcune famiglie di grassi popolani (i Medici fra gli altri) si alleano con lui, ma presto lo abbandonano, quando vedono che egli tresca con i conti Guidi, con gli Aretini, con Uguccione e perfino con i Bianchi fuorusciti. I suoi nemici si coalizzano, temendo un colpo di mano con aiuto esterno, dell'oramai anziano e podagroso capoparte, ma sempre pericoloso. Il 6 ottobre 1308, al suono delle campane a stormo, è dichiarato traditore per i suoi contatti con Uguccione, e le forze popolari muovono contro le sue case. Con uno stratagemma sono allontanati gli armati che Uguccione mandava in soccorso al genero, e Corso, costretto a fuggire dalla città, è raggiunto da armigeri catalani al servizio del comune e ucciso dal loro capo, presso il convento vallombrosano di San Salvi, appena fuori dalle mura.
È dubbio che Corso avesse le qualità che, in questo tempo, portano altri capiparte alla signoria di città, anche toscane. Egli si guastò col gruppo oligarchico dominante dei Neri, gli mancò presto l'appoggio di Bonifacio VIII, non seppe trarre a sé i popolani, gelosissimi degli Ordinamenti di Giustizia, che Corso Donati ostentava di disprezzare. Certo fu una figura di estrema energia, fondamentalmente un asociale insofferente di freni, secondo taluno (Davidsohn), un Catilina su misura toscana, che s' impose al rispetto e al timore degli amici e anche dei nemici. Guittone d'Arezzo lo esaltò nelle sue Rime e il fiorentino Taddeo Alderotti gli dedicò un De conservanda sanitade. D. stesso, che pure fu vittima delle soperchierie e delle vendette del ‛ barone ', lo indica, sì, come il colpevole principale di ciò che avvenne a Firenze in quegli anni, e lo considera tipo d'uomo dedito al malfare, ma, in fondo, non lancia contro di lui le invettive che non risparmia ad altri. Né è da pensare che abbia avuto dei riguardi per la parentela che, attraverso la moglie Gemma Donati, legava gli Alighieri ai Donati, parentela, del resto, impossibile a precisare.
D. non lo nomina mai direttamente, nel corso della sua opera; ma tre volte si riferisce a lui; una volta, nella tenzone con Forese (Rime LXXVII12-14), in un'aspra allusione alla vita dissoluta di Forese e dei suoi fratelli, di Bicci e de' fratei posso contare / che, per lo sangue lor, del male acquisto / sanno a lor donne buon cognati stare, " sanno essere e mantenersi verso le loro donne buoni cognati " (Barbi-Maggini), cioè non le trattano da mariti, ovvero, ma meno probabilmente, commettono adulterio l'un con l'altro. Più diretto il riferimento alle malefatte di Corso nell'episodio di Piccarda Donati (Pd III 106-108), uomini ... a mal più ch'a bene usi, dove l'accento negativo ma non violento di Piccarda accresce, anziché diminuire, la sinistra luce gettata sulle azioni del fratello. I particolari della cattura e della fine di Corso (anche qui è un familiare che parla, Forese) sono ripresi da D. in Pg XXIV 82-87 in un fosco fortissimo quadro quasi di tregenda; infatti, seguendo e ampliando una leggenda popolare sulla morte del barone, D. suppone che Corso sarebbe stato trascinato a coda di cavallo sino all'Inferno: La bestia ad ogne passo va più ratto, / crescendo sempre, fin ch'ella il percuote, / e lascia il corpo vilmente disfatto: " Parole di potenza, più che figurativa, morale: e suonano come un alto, giusto compenso ai dolori di Dante ", ben chiosa il Momigliano.
Bibl. - Non esistendo una vera e propria monografia su Corso, il repertorio più ricco di notizie su di lui si trova in Davidsohn, Storia III e IV, passim, con i rinvii alle Forschungen dello stesso autore. Cfr. anche Due lettere di Corso Donati, in Raccolta di studi critici dedicati ad Alessandro D'Ancona, Firenze 1901.