CORSINI, Neri iunior, marchese di Lajatico
Nacque a Firenze il 13 ag. 1805 dal principe Tommaso e dalla baronessa Antonietta Hajeck von Waldstädten. Nel 1834, anno in cui ottenne la concessione granducale del titolo marchionale di Lajatico, sposò Eleonora Rinuccini.
Secondo le tradizioni familiari s'avviò a ricoprire alte cariche amministrative e politiche, iniziando la carriera come segretario del ministro delle Relazioni estere. Lo 11 dic. '39 Leopoldo II lo nominò governatore militare e civile di Livorno, con il grado di general maggiore onorario e di comandante supremo del litorale toscano e della marina militare. Il tirocinio in una città dalle diffuse tendenze politiche radicali contribuì a sviluppare in lui una maggiore sensibilità per le tensioni sociali e le richieste politiche già avanzate dalla borghesia liberale; e spiega perché presto si dimostrasse aperto a certe istanze di rinnovamento in senso costituzionale. La atmosfera politico sociale di Livorno che già nel corso del '46 appariva turbata, divenne infatti ancora più tesa nell'anno successivo, in conseguenza della svolta segnata dall'avvento di Pio IX, ma anche a causa di una situazione economica particolarmente difficile. Sotto l'impressione delle agitazioni popolari il C., visto che il granduca, dopo l'emanazione della legge sulla stampa, non si poneva risolutamente sulla via delle riforme, inviò il 17 luglio 1847 al sovrano un rapporto particolareggiato: la sicurezza derivatagli dalla nascita e il giudizio politico acquisito nel suo incarico gli consentivano una notevole libertà di opinioni e di linguaggio.
Il C. giudicava, appunto, la legge sulla stampa una concessione non spontanea ma forzata, e perciò di scarsa utilità per accrescere la popolarità del governo. Auspicava la rapida istituzione della Consulta, costituita non solo da funzionari, ma da "uomini indipendenti presi dalle diverse parti del granducato e dalle diverse classi della società" (intendendo, naturalmente, sempre i "proprietari" e non i "proletari"); e, infine, suggeriva la pubblicazione di un giornale non ufficiale, anche se ispirato dal governo, che tuttavia non si mostrasse troppo ligio alle direttive ministeriali.
I suggerimenti del C. furono accolti solo in minima parte. Difatti il governo, sotto la crescente pressione dei liberali, istituì, il 24 agosto, la Consulta di Stato, ma con una composizione diversa da quella suggerita dal Corsini. Questi, nondimeno, lo stesso giorno, fu nominato ministro degli Esteri e direttore del dipartimento della Guerra, pur continuando a mantenere il governatorato di Livorno. Qui, frattanto, continuavano le agitazioni per chiedere l'immediata istituzione della guardia civica, promessa, ma non realizzata dal sovrano. Quando poi questa venne concessa, la notizia fu accolta in città - come scrisse il C. - da un "baccanale rivoluzionario". Il 9 settembre, sotto la impressione di questi fatti, egli inviò un altro rapporto al granduca nel quale sosteneva che solo una riforma sostanziale come lo Statuto poteva placare la tensione crescente e che conveniva concederlo "subito" e "spontaneamente". Poi, in occasione di altri gravi tumulti, valendosi dei suoi pieni poteri, attivò la guardia civica (22 settembre), per riportare l'ordine in città.
Le sue decisioni e la sua insistenza a favore dello statuto non furono gradite al granduca e al governo. Il 24 settembre, a sua insaputa, questi decisero di togliergli tutti i suoi incarichi, sostituendolo agli Esteri con il conte Luigi Serristori e a Livorno con il generale Giuseppe Sproni. Convocato a Firenze, il C. fu ricevuto il 26 da Leopoldo II; e nel corso dell'udienza insisté ancora per la pronta emanazione dello statuto. Visti inutili i suoi sforzi e comprendendo di essere stato esautorato, presentò ufficialmente le proprie dimissioni. Subito dopo, si allontanò dalla Toscana e si recò a Roma; qui ottenne di essere ricevuto da Pio IX, ma uscì amareggiato dall'udienza giacché, anche per i continui interventi del padre, il senatore romano principe Tommaso, non aveva potuto illustrare le sue idee al papa. Comunque, pur durante il soggiorno romano si adoperò a favorire, per incarico del governo toscano, le trattative che mons. Boninsegni stava conducendo per convertire in lega politica la lega doganale, già stipulata tra vari Stati italiani. E, in ogni caso, affidò il racconto dettagliato di tutti questi avvenimenti ad una Lettera al conte Pietro Ferretti (21 ott. 1 47). subito stampata a Bastia (riportata anche in Zobi, Storia civile della Toscana..., Appendice, V, pp. 125-135).
Alla metà di ottobre il C. era di nuovo in Toscana, ove si moltiplicavano le agitazioni per la riorganizzazione della guardia civica e dell'esercito. I moti furono particolarmente accesi a Livorno: dopo il noto tumulto del 6, il 30 genn. 1848 ebbe luogo una grande manifestazione popolare per la richiesta della costituzione. Gli eventi napoletani e siciliani e l'emanazione dello statuto albertino resero inevitabile anche la concessione dello statuto toscano, promulgato il 15 febbr. 1848. Il 17 marzo veniva formato il primo governo costituzionale, presieduto da Francesco Cempini e poi da Cosimo Ridolfi: il C. fu chiamato a ricoprirvi la carica di ministro degli Affari Esteri e della Guerra. E la sua entrata in carica precedé solo di qualche giorno l'inizio della prima guerra d'indipendenza.
Così, tra i suoi primi atti, fu la stesura della nota, inviata il 20 marzo all'incaricato di affari austriaco, per spiegare le ragioni che avevano indotto il granduca a inviare in Lombardia le proprie truppe e i volontari. Dopo l'inizio delle ostilità il C. si recò anche egli a visitare le truppe toscane; e, per la sua presenza a un fatto d'armi (13 maggio) fu decorato sul campo da Carlo Alberto, con la gran croce dell'Ordine mauriziane, (per la sua attività al fronte e la parte avuta nella decisione di sostituire nel comando delle truppe toscane il gen. D'Arco Ferrari con il De Laugier cfr. G. U. Oxilia). Alle elezioni per il Consiglio generale (giugno '48) fu eletto deputato dal collegio fiorentino di S. Maria Novella, dopo la rinunzia di Ferdinando Zannetti. E proprio in Parlamento, l'8 luglio, dovette rispondere all'interpellanza di V. Malenchini sulla scarsa consistenza delle truppe toscane al fronte e sulla eventuale esistenza di trattative tra la Toscana e gli altri Stati per la condotta comune della guerra. Dalla sua risposta risultò evidente che lo scarso contributo toscano dipendeva dalle difficoltà di organizzare una forza militare adeguata in un paese del tutto impreparato.
È noto che l'opposizione sempre più decisa di una parte della Camera e i moti fiorentini del 30 e 31 luglio 1848, alla notizia dei rovesci militari, determinarono la caduta del ministero Ridolfi (17 agosto) e la nomina del governo Capponi al quale il C. non partecipò. Ma, nelle elezioni del novembre '48, dopo la caduta del Capponi e la formazione del ministero democratico Montanelli-Guerrazzi, venne confermato deputato, per il collegio di Borgo San Lorenzo. Dopo la fuga del granduca, quando si giunse alla formazione del governo provvisorio Guerrazzi-Montanelli-Mazzoni, il C. non si oppose; chiese però inutilmente che vi venissero aggiunti il gonfaloniere di Firenze, Ubaldino Peruzzi, e lo Zannetti, comandante della guardia civica. Il governo provvisorio dovette subito affrontare l'eventualità di un intervento militare piemontese volto a restaurare l'autorità del granduca, grazie anche all'appoggio delle truppe toscane del generale De Laugier, allora di stanza in Lunigiana.
In tale situazione, il C., come altri moderati, fu oggetto di minacce da parte dei democratici più estremi; anzi, il 18 febbr. '49, il suo nome fu compreso nella lista degli ostaggi che, secondo le decisioni del Circolo del popolo, dovevano essere scelti nelle città toscane e chiusi nella fortezza di Livorno. Il Guerrazzi respinse la proposta; ma il C. si rifugiò a La Spezia e poi a Genova, pronto a intervenire a fianco dei Piemontesi e del De Laugier.
L'intervento piemontese non ebbe luogo, mentre, invece, le truppe austriache invasero la Toscana per consolidare l'autorità granducale già restaurata dalla sollevazione fiorentina del 12 aprile. E quando, il 28 luglio 1849, Leopoldo II rientrò in Firenze, il C. fu tra coloro che si recarono ad ossequiarlo. In seguito, fece parte del gruppo dei moderati che ispirava il giornale Lo Statuto, ed ebbe anche l'incarico di esporre al Baldasseroni le loro posizioni politiche; ma i suoi giudizi sostanzialmente positivi sull'operato del governo non piacquero al Ridolfi che li trovò troppo benevoli ed acquiescenti.
Nel decennio successivo il C. non ebbe cariche governative, anche se fece parte, per due volte, della rappresentanza municipale fiorentina. Rimase, però, legato alla corte per la sua carica di ciambellano e mantenne il grado di general maggiore e la qualifica onoraria di consigliere di Stato, Finanze e Guerra. Conservava, però, un interesse sempre vivo per gli eventi politici, come mostra la sua corrispondenza con Leopoldo Galeotti, dalla quale emergono i suoi giudizi, abbastanza positivi sull'operato della commissione governativa che aveva attuato la restaurazione e critici, invece, sull'intervento militare austriaco. Pur mantenendo le sue idee costituzionali, mostrava sempre il suo attaccamento alla dinastia lorenese ed alla autonomia toscana.
Tale atteggiamento conservò anche nel momento risolutivo della storia del granducato: il 27 apr. 1859.
Già il 18 marzo, prevedendo l'imminenza della guerra, scriveva al presidente Baldasseroni una lettera subito pubblicata, a Torino, (Lettera di s. e. don Neri Corsini dei principi Corsini, marchese di Lajatico al ministro Baldasseroni). Il C.,sempre fedele ai Lorena, esaminava le soluzioni possibili per mantenere l'ordine e consolidare il regime granducale in forma costituzionale. Scartato a priori l'allineamento con la politica austriaca, discuteva le altre due ipotesi: neutralità o adesione alla iniziativa piemontese. Ma, pur riconoscendo che l'idea di nazionalità italiana era il retaggio di una ristretta minoranza, riteneva che la neutralità fosse impraticabile, perché foriera di disordini, se non di guerra civile. Se, invece, il governo avesse aderito spontaneamente all'alleanza franco-piemontese avrebbe veramente "camminato con il paese", impedendo i tumulti e continuando a dirigerlo. E concludeva dichiarando di ritenere che i principi debbono governare i popoli "secondo dei loro bisogni, della loro indole, delle loro tendenze e della posizione geografica e non secondo gli interessi di una potenza straniera".
Le proposte del C. non ottennero alcun successo. Quando però, iniziata la guerra, si delineò il pronunciamento del 27 aprile, il granduca ritenne opportuno servirsi nuovamente del C., che alle nove del mattino fu convocato a palazzo Pitti. Vi si recò subito, dopo esser passato dalla legazione sarda per verificare se la sua presidenza di un ministero costituzionale poteva contare sull'appoggio piemontese. Il Bon Compagni, ministro sardo a Firenze, lo invitò a tentare il possibile. A palazzo Pitti, il Baldasseroni gli riferì che il granduca era disposto ad aderire alla guerra contro l'Austria, a riattivare lo statuto e che lo incaricava di formare il governo, pregandolo di adoperarsi per evitare disordini. Agli esponenti moderati e lafariniani, riuniti nella legazione sarda, questa soluzione non parve sufficiente: il C. fu rinviato a Pitti per chiedere l'abdicazione del granduca a favore del figlio Ferdinando. Egli presentò a Leopoldo II questa richiesta, la quale venne rifiutata dal sovrano che decise di abbandonare la Toscana. Il C. narrò dettagliatamente questi avvenimenti nella Storia di quattro ore dalle 9 antimeridiane alle 1 pomeridiane del 27 aprile 1859 (Firenze 1859), in forma di lettera al figlio.
Il governo provvisorio toscano si servì subito di lui, inviandolo commissario straordinario al quartier generale sardo. Nonostante il Bon Compagni lo avesse presentato al re, il C. incontrò difficoltà ad essere ammesso al quartier generale, perché considerato rappresentante di un paese ancora strettamente autonomista. Dai numerosi carteggi dell'epoca, il suo atteggiamento appare assai interessante, perché può bene esemplificare la rapida evoluzione in senso unitario della maggior parte dei moderati toscani; ma certo il C. giunse a tale conclusione più presto degli altri.
Lo dimostrano, in particolare, le lettere scambiate col Ridolfi e col Galeotti, assai importanti perché riferiscono i suoi colloqui con Vittorio Emanuele II, con il Cavour e altre personalità piemontesi e con Napoleone III. Ancora il 7 maggio, constatando che il ritorno dei Lorena era "pur troppo" impossibile, egli sosteneva l'opportunità di mantenere la autonomia toscana, magari sotto un sovrano di casa Savoia. Ma la "fusione", che alla fine di maggio gli appariva un'utile soluzione temporanea, diventava la sola possibile e definitiva il 20 giugno, quando scriveva al Galeotti:' "Se la Toscana dovesse rimanere autonoma, io fusionista sarei un opponente e in imbarazzo"; lo stesso giorno ribadiva questa posizione, scrivendo al Ridolfi: "Io vorrei che tutti si persuadessero che oggi non si tratta di piernontizzare, né di toscanizzare, ma si tratta di sostituire alle antiche divisioni una nazione nuova, il regno italico" (cfr. Lettere di N. Corsini a L. Galeotti..., p. 48 e E. Poggi, Memorie storiche del governo della Toscana...,III, Documenti, p. 24).
Dopo l'armistizio di Villafranca, non si perse d'animo e, con calma e fiducia, scriveva al governo toscano perché non disperasse a causa delle condizioni di armistizio che imponevano anche la restaurazione lorenese e resistesse tenacemente. Il 3 luglio era a Torino, insieme al Peruzzi, per presentare al re i Voti della Consulta toscana affinché Vittorio Emanuele conservasse il protettorato della Toscana "fino all'ordinamento definitivo del paese".
Il 25 dello stesso mese, sempre con il Peruzzi, era ricevuto a Parigi da Napoleone III al quale consegnava un indirizzo analogo: e l'imperatore, pur non dando speranze per l'annessione, escludeva qualsiasi intervento militare a favore dei Lorena.
Il C., in una lettera al Galeotti, scritta dopo il colloquio e un incontro con il Walewski, insisteva perché si continuasse a chiedere l'annessione, senza sgomentarsi.
Da Parigi il marchese passò a Londra, come inviato del governo toscano. Qui la situazione, politica era nettamente mutata, dopo la caduta del governo Derby e il ritorno del Palmerston. E, infatti, fin dai suoi primi rapporti, il C. riferì del favore del governo inglese per la politica annessionistica toscana, invitando a giungere, al più presto, al voto di annessione, "secondo che ci detta la ragione, lo spirito nazionale e il vero interesse italiano" (cfr. Lettere politiche..., p. 133).
Su tali posizioni si mantenne sempre, operando in stretto contatto con i principali uomini di governo inglesi, del cui atteggiamento informava con esattezza. Nella sostanza, il Palmerston riteneva opportuna l'unione, anche se non si nascondeva le difficoltà che avrebbe incontrato: l'Inghilterra avrebbe partecipato al congresso di Zurigo, affinché non venissero pregiudicate definitivamente le sorti della Toscana; l'opinione pubblica inglese era favorevole. Per questo, operando in un ambiente molto più facile, il C. non condivideva i consigli di cautela e prudenza del Peruzzi che, a Parigi, si trovava ad affrontare un compito diplomatico assai più ingrato. Respingeva, quindi, le proposte dei Peruzzi e dei Matteucci di far dichiarare dall'Assemblea, dopo il voto di decadenza dei Lorena, che la Toscana si sarebbe rimessa alle decisioni di Napoleone III e delle altre potenze; così come si opponeva risolutamente all'ipotesi di una reggenza del principe Girolamo Napoleone, preferendo, se mai, quella del principe di Carignano. Consigliava, inoltre, che la lega dell'Italia centrale avesse solo un carattere militare e non politico e amministrativo.
Simili informazioni erano tanto più preziose per il governo toscano in quanto l'atteggiamento ufficiale del governo inglese era assai più riservato e taluni diplomatici britannici non nascondevano le loro simpatie per la restaurazione; e valsero certamente a rafforzare la politica rigidamente unitaria del Ricasoli, nel suo latente contrasto con la persistente vocazione autonomistica di molti moderati. Il C. (che nelle elezioni per l'Assemblea toscana era stato eletto deputato per il collegio di Borgo San Lorenzo) riteneva addirittura che il voto d'annessione pronunziato da quel consesso dovesse essere sufficiente e non si dovesse ricorrere ad alcun plebiscito. Ma soprattutto, sicuro dell'appoggio inglese, ripeteva di continuo che non bisognava mai sgomentarsi, cedere alle "lusinghe" o temere eccessivamente le minacce (cfr. le copie dei dispacci del C. al Ridolfi, luglio-novembre '59, in Arch. di Stato di Firenze, Carte Bianchi-Bastogi, filza 4, inserto 2).
La missione in Inghilterra del C. finì improvvisamente. Ammalatosi di vaiolo negli ultimi giorni di novembre, morì a Londra il 10 dic. 1859. Alla salma, riportata in patria, furono tributate il 17 dicembre onoranze solenni nella basilica di S. Croce dove fu sepolta.
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