MIGRATORIE, CORRENTI
Migrazioni internazionali (XXIII, p. 250; App. I, p. 848; II, 11, p. 312). - La distinzione tra migrazioni politiche ed economiche risponde a una fondamentale dualità di situazioni, benché a volte i due fenomeni s'intreccino. Le une e le altre sono state oggetto di rilevazioni statistiche diverse (in genere i profughi non sono stati registrati come immigrati) e presentano diversità anche dal punto di vista giuridico (i profughi per lo più hanno acquistato rapidamente la cittadinanza del paese che li ha accolti, mentre per gli immigrati si pongono varî problemi di protezione giuridica). È consigliabile quindi trattarne separatamente, tanto più che gli spostamenti di popolazione a carattere politico possono considerarsi, nonostante la loro ampiezza, episodici - quelli provocati dall'ultima guerra sono ormai quasi estinti - mentre i flussi a carattere economico, per quanto numericamente assai rilevanti, sono fenomeni connessi alla struttura demografica ed economica dei varî paesi e quindi durevoli.
Migrazioni politiche. - Il fenomeno delle migrazioni politiche, specialmente in relazione alle situazioni determinatesi prima della seconda guerra mondiale a in conseguenza di questa, è già stato illustrato nell'App. II (v. anche minoranze nazionali e rifugiati, in questa App.), ma esso va nuovamente preso in considerazione sia per esaminarne gli sviluppi nei paesi europei sia per rilevarne i termini, e le cause, in altri paesi del mondo, soprattutto in Asia.
La Germania è la regione europea che ha ricevuto il maggior afflusso di profughi in questo secondo dopoguerra. Già alla fine del 1946 i Tedeschi espulsi dai territorî orientali della Germania stessa, dalla Polonia, dalla Romania, dalla Cecoslovacchia, dall'URSS, ecc. e rifugiatisi nella Germania Occidentale ammontavano a 7 milioni e quelli accolti dalla Germania Orientale a più di 3 milioni e mezzo, e si calcola che le due Germanie, alla fine del 1957, avessero rispettivamente ricevuto altri 4 milioni e mezzo e almeno un altro milione di profughi. L'assorbimento di questi nuovi arrivati non è stato certo facile, dato anche il periodo di disorganizzazione della vita economica in cui si è verificato l'afflusso, ma l'eccesso di mano d'opera, che ha pertanto caratterizzato per anni l'economia tedesca, tenendo basso il livello dei salarî ha indubbiamente facilitato lo sforzo di investimento. D'altra parte l'afflusso dei rifugiati ha attenuato gli squinbrî per sesso e per età provocati dalla guerra nella struttura demografica e in complesso, ormai che l'aumento dell'occupazione ha consentito l'integrazione economica dei nuovi arrivati, il fenomeno può ritenersi che abbia avuto nella Germania Occidentale effetti più positivi che negativi. Meno favorevoli forse sono state le conseguenze nella Germania Orientale, ma le informazioni relative sono piuttosto insufficienti.
Oltre all'esodo dei profughi tedeschi, gli spostamenti di frontiere e i mutamenti di regime politico provocati dalla seconda guerra mondiale hanno suscitato altri movimenti di massa di Europei e per lo più dall'Europa orientale verso paesi della stessa zona e verso l'Europa centrale e meridionale, o addirittura verso il Vicino e l'Estremo Oriente: partenze più o meno volontarie, espulsioni e anche trasferimenti organizzati. A guerra terminata buona parte di coloro che erano fuggiti o erano stati deportati è rientrata in patria, ma bisogna tener conto di coloro che non hanno potuto o voluto ritornarvi e distinguere, secondo la terminologia dell'Organizzazione internazionale del lavoro, da un lato, le personnes déplacées e i réfugiés in senso proprio, stranieri per il paese che li ha accolti, e dall'altro i réfugiés nationaux e le minoranze trasferite d'autorità, che hanno immediatamente goduto del diritto di cittadinanza nel paese d'arrivo.
L'intensità di questi movimenti iniziatisi con la guerra si è affievolita considerevolmente dopo il 1948, ma ha avuto una ripresa notevole nel 1956 e 1957, con partenze dall'Ungheria, dalla Iugoslavia e dalla Cina. I soli dati numerici precisi su questi spostamenti sono quelli relativi ai profughi registrati, non con uniformità di criterî, da varie organizzazioni internazionali (Comitato intergovernativo per i profughi, UNRRA, Organizzazione internazionale profughi o IRO, e, dal 1951, Alto Commissariato profughi delle N. U.), mentre i numerosi profughi che sono riusciti a sistemarsi con i proprî mezzi sono sfuggiti a qualsiasi rilevazione. Si calcola che gli Europei profughi per effetto della seconda guerra mondiale (compresi quelli fuggiti successivamente dall'Ungheria e esclusi quelli arrivati in Israele) di cui si sono occupate le organizzazioni internazionali siano stati circa 2 milioni. In massima parte, dopo il 1947, i profughi hanno preferito al rimpatrio la sistemazione nel paese dove avevano trovato asilo e, più spesso, altrove. Si è avuta così una corrente di riemigrazione che si è svolta principalmente sotto gli auspici dell'IRO tra il 1947 e il 1951. Alla fine del 1957 i profughi europei che erano stati ufficialmente "sistemati" in altri paesi (soprattutto S. U. A., Australia, Canada) tramite l'IRO, e quindi il CIME, si calcola fossero 1.300.000.
Un notevole numero di profughi sotto mandato internazionale - difficile a precisare - ha trovato poi modo d'integrarsi nell'economia dei paesi che hanno offerto il primo asilo e, ottenuta ormai la cittadinanza, non si distingue più dalla popolazione dei paesi stessi. Si tratta soprattutto di individui di origine tedesca rifugiatisi in Austria e in Germania, di profughi dalla Iugoslavia in Italia, di Greci originarî della Romania e dell'URSS entrati in Grecia. La loro integrazione, nonostante le iniziative prese dall'Alto Commissariato delle N. U. e dai varî governi per facilitarla, ha suscitato problemi complessi, e ancora restano "casi difficili" da risolvere. Nell'autunno 1957, in vista appunto dell'esistenza di più di 100.000 assistiti nei campi-profughi, l'Assemblea generale delle N. U. deliberò di prorogare per altri cinque anni il mandato dell'Alto Commissariato, che avrebbe dovuto scadere il 31 dicembre 1958.
Quanto ai cosiddetti réfugiés nationaiux - i cui spostamenti, provocati o no da mutamenti di frontiera, hanno per lo più preso la forma di espulsioni - va ricordato che essi hanno conservato la nazionalità d'origine o che, avendola perduta, hanno ottenuto quella del paese d'asilo di cui già dividevano lingua e cultura. Oltre ai profughi di nazionalità tedesca, entrati in Germania, di cui si è già parlato, si sono avuti profughi di nazionalità italiana affluiti in patria dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia passate sotto la sovranità della Iugoslavia (circa 200.000), dalle isole dell'Egeo (30.000) e dalle ex-colonie italiane in Africa (220.000); profughi finlandesi rifluiti in Finlandia dai territorî ceduti all'URSS soprattutto nel 1940 (485.000) e in misura minore nel 1945 e che nel 1950 potevano già dirsi completamente sistemati; minoranze turche espulse dalla Bulgaria nel 1950 o già emigrate volontariamente verso la Turchia (più di 150.000 persone). Trasferimenti di minoranze e rimpatrî si sono pure avuti nell'Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Iugoslavia, Bulgaria), ma si hanno scarse informazioni in proposito sia per l'ampiezzza sia per le condizioni e le ripercussioni di questi movimenti.
L'immigrazione in Israele (v., in questa. App.) dalla proclamazione dell'indipendenza del paese (maggio 1948) costituisce un fenomeno unico sia per la sua entità in rapporto alla popolazione del paese di destinazione, sia per la composizione etnica omogenea, nonostante le diverse provenienze, sia per le sue origini ideologiche e per la politica non solo liberale ma attiva seguita dal governo ebraico. Dal 15 maggio 1948 al 31 dicembre 1957, 900.000 persone sono affluite in Israele, dove la popolazione ebraica era già salita, grazie alle due precedenti ondate di afflusso (1924-25 e 1934-36), da 85 mila unità nel 1914 a 456 mila nel 1939, per accrescersi poi, durante l'amministrazione britannica, soltanto di 50.000 nuovi immigrati ufficiali e di qualche migliaio di clandestini. Durante gli stessi anni, la corrente di riemigrazione non ha mai superato il 10% dell'immigrazione, e in complesso la popolazione ebraica ne è risultata direttamente accresciuta di più del 150%, senza tener conto dell'effetto indiretto dell'immigrazione sulla composizione per età della popolazione stessa e dell'alta fecondità degli Ebrei d'Africa e d'Asia. ll governo di Israele ha dovuto affrontare problemi d'assorbimento senza precedenti dal punto di vista quantitativo, e, sotto molti aspetti, anche qualitativo. L'esodo della popolazione araba, lo spirito da "pionieri" che animava i vecchi coloni e che si è in gran parte esteso ai nuovi venuti, e l'aiuto finanziario estero hanno permesso in definitiva il ritorno a posizioni di equilibrio e di stabilità, ma sono stati anni duri da superare per il nuovo stato.
Spostamenti massivi di popolazioni si sono verificati anche in Asia, ma nessuno ha avuto il carattere imperativo e organizzato proprio di molti spostamenti europei e spesso si sono verificati nel panico e nel disordine più assoluto, con gravi conseguenze per i singoli e le collettività. I problemi economici sollevati da queste migrazioni sono stati poi aggravati dallo stato di sovrappopolazione e dal basso livello di attività economica che in genere caratterizzava i paesi d'arrivo (eccettuato il Giappone), i quali senza l'aiuto delle N. U. e altri interventi stranieri non sarebbero mai riusciti ad assicurare ai profughi l'assistenza indispensabile. Gli Arabi rifluiti dal nuovo Stato d'Israele verso i paesi vicini (Libano, Giordania, Siria) si calcolano in circa 750.000 unità. La divisione dell'India nei due stati dell'Unione Indiana e del Pakistan ha dato luogo a un doppio esodo, prima di massa e poi rallentato, per cui nel 1957 si calcola che il Pakistan avesse ricevuto 8.400.000 profughi dall'Unione Indiana e questa 8.850.000 dal Pakistan (i dati comprendono però anche l'accrescimento naturale). In Estremo Oriente si è avuto il rimpatrio di 6 milioni di Giapponesi - per metà militari e per metà civili - che la guerra e mezzo secolo di emigrazione avevano sparpagliato in altri paesi asiatici e che entro il 1948 sono rientrati nell'arcipelago. Movimenti di popolazione sono stati provocati poi dalle vicende della Corea: nel 1950 si valutava che i profughi e i rimpatriati nella Corea del Sud ammontassero a 3 milioni circa e nel 1955 a 4 milioni. La guerra civile in Cina ha spinto centinaia di migliaia di Cinesi a fuggire verso la colonia portoghese di Macao, Hong-Kong e l'isola di Formosa. La spartizione dell'Indocina francese ha fatto affluire nel Vietnam meridionale circa 1 milione di prolughi. L'afflusso di queste correnti di profughi non ha fatto per lo più che aggravare i problemi permanenti di paesi a rapido aumento naturale della popolazione e a lenta accumulazione del capitale. Per il Giappone invece, come per la Germania, si può dire che, dopo anni di gravi difficoltà, l'immigrazione abbia avuto anche effetti favorevoli sullo sviluppo economico.
In Africa sono tuttora in corso flussi notevoli di profughi dall'Algeria verso il Marocco e la Tunisia e nello stesso territorio algerino sono già avvenuti spostamenti forzati di popolazioni da zone a zone.
Migrazioni economiche. - La lacunosità e l'incomparabilità dei dati statistici relativi alle migrazioni continentali e intercontinentali sono da attribuirsi, oltre che alla complessità e relativa indeterminatezza della nozione di "migrante", alla incompletezza dei controlli da parte delle autorità di molti paesi, le quali in genere si occupano, e con criterî diversi, soltanto dei movimenti che per determinate ragioni le interessano. In particolare un elemento di confusione è introdotto nella rilevazione delle migrazioni continentali dalla loro diversa durata, mentre quelle intercontinentali, in genere relativamente lunghe, sono ufficialmente classificate come permanenti e più accuratamente registrate. Il bilancio degli spostamenti di questi ultimi anni non può quindi delinearsi che approssimativamente, pur ricorrendo anche alle statistiche dei viaggiatori e dei passeggeri, dei permessi di lavoro o di soggiorno e, eventualmente, ai censimenti.
Nel continente europeo le correnti di lavoratori più rilevanti sono state quelle affluite dagli altri paesi scandinavi e dalla Finlandia in Svezia, dall'Irlanda e dai paesi dell'Europa orientale in Gran Bretagna e dall'Italia in Belgio, in Francia e in Svizzera, oltre ai relativi riflussi. Dal 1946 al 1957 la Svezia ha assorbito dal resto dell'Europa un'immigrazione netta di 210.000 unità. In Gran Bretagna, nello stesso periodo, l'immigrazione netta dall'Europa (Irlanda compresa) si calcola che abbia superato le 600.000 unità. In Belgio tra il 1948 e il 1957 (per il 1946 e 1947 non si hanno che statistiche italiane e dell'IRO: in totale circa 60.000) l'immigrazione netta dall'Europa (per tre quinti dall'Italia) è stata di 185.000 unità; ma le statistiche belghe sono difficili a interpretare e i dati contrastano con quelli desunti da altre fonti. La Francia, nonostante il rilevante afflusso d'immigrazione permanente lorda (almeno 700.000 unità, in gran parte Italiani e Tedeschi), non pare che abbia ricevuto in complesso una immigrazione netta superiore alle 450.000 unità; ha inoltre sempre avuto forti movimenti stagionali e finanche giornalieri. L'immigrazione netta in Svizzera, sempre nel 1946-57, non pare abbia superato le 250.000 unità, nonostante l'afflusso di immigrazione permanente (in totale almeno 690.000 unità) che è andata sviluppandosi in modo continuo dal 1949 in poi; sviluppo parallelo ha avuto anche l'immigrazione stagionale quasi completamente costituita da italiani.
In confronto ai suddetti, gli altri movimenti migratorî intereuropei possono considerarsi d'importanza secondaria e in complesso val la pena di osservare come soltanto l'emigrazione italiana e, per qualche anno, quella tedesca, abbiano avuto un'area di dispersione piuttosto vasta, mentre la maggior parte degli spostamenti di lavoratori tra paesi europei si è verificata tra paesi vicini. Spesso poi questi spostamenti a breve distanza sono anche stati di corta durata, come dimostra il tasso piuttosto basso dell'immigrazione netta. Si può aggiungere anche che i movimenti suddetti hanno interessato soprattutto l'Europa industriale e le zone vicine; scarsa è stata infatti la partecipazione dei paesi dell'Europa meridionale, ad eccezione dell'Italia, e la netta maggioranza degli emigranti italiani con destinazione europea proviene dalle regioni settentrionali.
In America, nel 1946-57, gli S. U. A. hanno ricevuto un'immigrazione netta di 785.000 unità circa dal resto del continente americano (per quasi la metà dal Canada) e una forte immigrazione stagionale soprattutto dal Messico; notevoli flussi di cittadini statunitensi si sono però diretti verso il Canada (110.000) e il Venezuela (116.000) negli stessi anni. L'Argentina ha avuto un eccedente netto d'immigrazione permanente (211.000) proveniente soprattutto dal Paraguay e dal Cile, e il Venezuela un afflusso netto di circa 25.000 unità dalla Colombia. L'America latina ha ricevuto in complesso meno lavoratori di origine americana che di origine europea. In Africa si sono verificati indubbiamente notevoli spostamenti di mano d'opera indigena da una zona all'altra, ma le statistiche non permettono di farsene un'idea precisa. I principali centri d'immigrazione sono stati, ad occidente il Ghana, ad oriente il Tanganica e l'Uganda e a sud le Rhodesie e l'Unione Sudafricana. In Asia, dei quattro grandi paesi che una volta alimentavano l'immigrazione interna, soltanto l'India sembra che abbia continuato a fornire mano d'opera agli altri paesi asiatici e si calcola che abbia avuto un'emigrazione netta di meno di 100.000 unità diretta a Ceylon fino al 1949 e poi verso la Malesia. L'emigrazione dal Pakistan verso paesi del Golfo Persico è stata esigua. Il flusso di cinesi verso la Tailandia verificatosi nei primi anni dopo la guerra sembra essere stato costituito soprattutto di persone che già avevano risieduto in Tailandia e che vi rientravano dopo una temporanea assenza. In Oceania la Nuova Zelanda ha registrato un piccolo saldo netto d'immigrazione dall'Australia. Per il Medio Oriente non si hanno dati; ma pare che il Kuwait abbia attirato molti lavoratori dalla Russia, dalla Siria e dal Libano, e l'Irak molti Persiani.
La maggior parte dei migranti intercontinentali è risultata composta, anche in questi anni, da Europei andati a lavorare oltremare e ritornati in Europa, dopo un soggiorno più o meno lungo in altri continenti. L'analisi delle migrazioni intercontinentali si riduce quindi sostanzialmente a quella dei movimenti tra l'Europa e un piccolo numero di grandi paesi d'immigrazione. Secondo l'Ufficio internazionale del lavoro dal 1946 al 1957 l'emigrazione europea lorda (esclusa quella verso Israele e compresa dal 1947-52 quella dei profughi assistiti dall'IRO) risulterebbe in prima approssimazione, sommando i dati - non omogenei - relativi ai singoli paesi, di 6,6 milioni, ma l'emigrazione europea permanente - nel senso proprio del termine - verso il resto del mondo (escluso Israele) dovrebbe calcolarsi in circa 7 milioni di unità e quella al netto dei rimpatrî di circa 5,5 milioni. Gran Bretagna e Italia da sole hanno contribuito ad alimentare metà del flusso ed è interessante osservare come l'apporto dell'Europa centrale (Germania occ.; Austria, Svizzera) sia stato rilevante (dal 21 al 30%) soltanto nei primi anni; fino a che non si sono vuotati i campi profughi, e come quello dell'Europa meridionale (Italia, Portogallo, Spagna, Grecia, Malta), minimo nel 1946 (9%); sia salito fino al 50%, nel 1955, mentre quello dell'Europa nord-occidentale (Gran Bretagna, Irlanda, Olanda, Belgio, Paesi Scandinavi) negli stessi anni sia diminuito dal 70 al 39%. Nel 1956-57 le rispettive percentuali delle tre zone erano 17%, 41 % e 42%.
In complesso sui 6,6 milioni delle cifre ufficiali il 71% dell'emigrazione lorda europea si è diretta in America (44% al Nord e 27% al Sud), il 18% in Oceania, il 6% in Africa (senza tener conto dell'emigrazione francese e portoghese verso le province africane) e il 5% in Asia. Dalle statistiche dei paesi di destinazione risulta, d'altra parte, come l'immigrazione netta di Europei negli S. U.A. e nel Canada sia stata rispettivamente di 1,4 e 1,3 milioni, nell'America Latina (soprattutto Argentina, Brasile e Venezuela) di circa 1,3, in Oceania (soprattutto Australia) di più di un milione. va pure notato che l'emigrazione verso l'America e l'Oceania è stata principalmente composta di persone desiderose di fermarsi a lungo e spesso definitivamente nel paese di destinazione, mentre l'emigrazione verso l'Asia non ha avuto quasi mai carattere stabile e quella verso l'Africa può definirsi di tipo misto. Inoltre, mentre l'emigrazione a lungo termine ha presentato in genere le caratteristiche sociali e professionali dell'emigrazione di massa, quella a breve termine è stata soprattutto un'emigrazione di quadri.
Di fronte ai movimenti suddetti di origine europea gli altri flussi di migrazioni intercontinentali non hanno avuto grande rilevanza numerica. Si tratta di decine di migliaia o di sole migliaia di migranti partiti dalle Antille britanniche verso la Gran Bretagna, dall'India e dal Pakistan verso la Gran Bretagna e l'Africa Orientale britannica, dalla Siria e dal Libano verso l'America latina, dal Giappone verso le due Americhe, dagli S. U. A. verso l'Europa e l'Estremo Oriente, ecc.
In complesso le migrazioni di lavoratori, nel periodo in esame, hanno avuto proporzioni piuttosto modeste e le loro conseguenze demografiche, sociali ed economiche sono state meno rilevanti non solo di quelle del periodo precedente la prima guerra mondiale ma anche di quelle tra le due guerre. Ciò non significa che le fonti tradizionali dell'emigrazione si siano esaurite né che il ritmo di accrescimento della popolazione d'età lavorativa si sia accelerato nei paesi d'immigrazione, ma si spiega con i rapidi incrementi della produttività che hanno permesso a questi ultimi paesi di proseguire sulla via dell'espansione senza aver bisogno di aumentare i loro effettivi di mano d'opera. Le loro politiche ne sono risultate orientate, più sistematicamente di una volta, a proteggere i lavoratori nazionali contro la concorrenza degli immigranti e a permettere l'ingresso si può dire soltanto ai lavoratori stranieri disposti ad assumersi quelle funzioni che la mano d'opera interna rifiuta di svolgere, oltre, s'intende, a non creare problemi di assimilazione troppo difficili. D'altra parte anche qualche paese di emigrazione è intervenuto a limitare l'espatrio, o per evitare un possibile sfruttamento degli emigranti, in genere non qualificati (India e Pakistan), o per impedire danni all'economia nazionale (Ceylon, territorî africani a sud del Sahara); inoltre, senza ricorrere a divieti, molti altri paesi si assicurano attraverso le formalità burocratiche (passaporti, visti speciali, ecc.) che gli emigranti abbiano già in partenza una sistemazione sicura (lettera di richiamo, contratto di lavoro) o addirittura, quando si tratti di emigrazioni organizzate, si accertano che le condizioni di vita e di lavoro offerte loro siano accettabili (Italia, Grecia, Portogallo, Spagna).
La spinta all'emigrazione provocata dalla disoccupazione e dalla sottoccupazione accidentale o strutturale (soltanto l'emigrazione inglese e irlandese hanno un'altra origine e quella olandese può dirsi sia stata l'effetto della sola minaccia di sovrappopolazione) urta così contro le condizioni richieste dai paesi d'immigrazione e alla domanda latente d'impiego (che per l'Italia si valuta in 3-4 milioni di unità, il doppio della disoccupazione visibile, per la Spagna in 2 milioni, per la Grecia in 1) corrisponde una domanda effettiva assai ridotta che può dirsi suscitata dall'offerta. Se l'emigrazione è risultata contenuta dalla politica selettiva e prudente dei governi, ne è derivata però anche una contrazione del flusso dei rimpatrî - tanto più che molte legislazioni favoriscono l'espatrio contemporaneo o successivo delle famiglie - e in complesso la nuova sistemazione degli immigrati ha acquistato maggiore stabilità.
Bisogna poi riconoscere che perché un forte afflusso della mano d'opera dall'estero possa essere assorbito con vantaggio da un paese occorre che la sua infrastruttura economica sia sufficientemente solida, altrimenti gli investimenti necessarî turbano l'equilibrio provocando depressione dei salarî, disoccupazione e nello stesso tempo inflazione. Il Canada e l'Australia, i quali dispongono anche di una buona organizzazione amministrativa, sono riusciti ad assorbire un notevole flusso di lavoratori esteri senza tensioni, ma la maggior parte dei paesi dell'America latina non sono in queste condizioni e la loro capacità effettiva di assorbimento è per questo notevolmente inferiore a quella potenziale.
Di fronte alle difficoltà non sempre sormontabili che si oppongono allo sviluppo delle immigrazioni di massa i paesi che hanno eccedenza di popolazione sono stati costretti ad orientarsi verso una migliore utilizzazione all'interno del potenziale di lavoro, attraverso l'elevamento del livello di occupazione e della produttività. Meta non facile certo a raggiungere ma più vantaggiosa dell'emigrazione, la quale, se permette di eliminare elementi per il momento non produttivi (i migliori però tra quelli che potrebbero divenirlo), priva il paese della possibilità di utilizzarli in seguito e può costituire un freno al futuro sviluppo. Nell'ipotesi poi - assai frequente - in cui la scarsità degli altri fattori di produzione limiti le politiche di sviluppo e imponga l'emigrazione come unica valvola di sicurezza occorrerebbe che a questo deflusso di energie lavorative si accompagnasse un movimento di capitali in senso contrario o facilitazioni commerciali che accelerassero il raggiungimento di un equilibrio tra i livelli di sviluppo dei vari paesi, il che a lungo andare risulterebbe a vantaggio di tutti.
L'idea, che pareva chimerica, di associare paesi di diverso grado di sviluppo in superiori unità regionali o interregionali, al fine di realizzare progressivamente la messa in comune delle risorse economiche e il livellamento delle condizioni di vita, ha cominciato a prendere corpo con l'istituzione della Comunità economica europea. Nell'ambito di unità del genere le migrazioni potrebbero assumere un nuovo significato e contribuire alla perequazione dei livelli di produttività.
Ma, anche considerate per se stesse e non nel quadro della migliore utilizzazione possibile di tutti i fattori di produzione, le migrazioni a carattere economico sono state oggetto in questo dopoguerra di accordi bilaterali e multilaterali che prevedono la compensazione o solamente il trasferimento di lavoratori (oltre a quelli che riguardano la sicurezza sociale, il trasporto dei migranti, il trasferimento di rimesse, lo scambio di informazioni sui bisogni e le disponibilità di mano d'opera, ecc.). Va ricordato a questo proposito il piano di scambio di lavoratori tra i paesi del Trattato di Bruxelles (Belgio, Lussemburgo, Olanda, Francia e Gran Bretagna) del luglio 1950, che è stato esteso poi alla Germania e all'Italia ma ha avuto risultati piuttosto deludenti. Più significativo l'accordo per la formazione di un mercato comune della mano d'opera realizzato il 1° luglio 1954 dai paesi nordici (Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia) nel presupposto di una politica di pieno impiego all'interno dei paesi stessi, accordo che i suddetti paesi avevano perseguito fin dal 1946 e che ha dato risultati in complesso soddisfacenti. La soppressione di ogni restrizione basata sulla nazionalità all'impiego di lavoratori nell'industria del carbone e dell'acciaio è prevista dall'art. 69 del trattato istitutivo della CECA del 1951 e una decisione del dicembre 1954 ha consentito il libero spostamento dei lavoratori qualificati entro i sei paesi purché l'occupazione sia proposta tramite i servizî di collocamento o direttamente per iscritto dai datori di lavoro. L'OECE ha cercato d'altra parte, fin dall'inizio, di attenuare le restrizioni legali e amministrative alla circolazione degli uomini: e, con la collaborazione tecnica dell'Ufficio internazionale del lavoro, si è orientata verso la preparazione di una classificazione internazionale delle professioni, lo studio di nuove tecniche del collocamento e l'adozione di norme destinate a migliorare questo servizio. Nel febbraio 1957 l'Agenzia europea della produttività ha deciso lo studio comparativo degli accordi di compensazione della manodopera e in una riunione di esperti, tenuta a Parigi nel maggio 1958, si è proclamato che l'epoca degli accordi bilaterali, in materia, deve ritenersi assolutamente superata e ci si deve orientare verso una uniformità delle norme sul collocamento. Il trattato istitutivo della CEE del 1957 (art. 48) ha previsto infine che alla fine del periodo transitorio i lavoratori di ciascun paese membro abbiano diritto di entrare in uno degli altri cinque "per occuparvi un posto di lavoro effettivamente offerto" e che debba funzionare un "meccanismo adeguato per confronto fra domande e offerte di lavoro". Frattanto la maggior parte dei trasferimenti di lavoratori, stagionali o a lungo termine, tra paesi dell'Europa occidentale continuano a svolgersi secondo i principî della "convenzione sui lavoratori migranti" adottata dalla Conferenza internazionale del lavoro nel 1949 e in base agli accordi bilaterali in vigore.
Altro aspetto che caratterizza l'attuale fase delle migrazioni è la tendenza a sottrarre all'iniziativa privata la cura di superare le difficoltà pratiche dell'espatrio e del nuovo insediamento, di modo che l'intervento pubblico è andato estendendosi, oltre i limiti della semplice regolamentazione del fenomeno, al campo dell'organizzazione e dell'assistenza.
Si è pure sviluppata, traendo origine dalla necessità di risolvere con urgenza il problema dei profughi, una complessa azione internazionale che ha finito per investire anche i movimenti migratorî economici.
La prima conferenza sulle migrazioni, convocata dall'Organizzazione internazionale del lavoro nell'aprile-maggio 1950, dette un impulso decisivo a quest'azione. Gruppi d'esperti furono incaricati di studiare i varî problemi e una seconda conferenza fu convocata a Napoli nell'ottobre 1951, ma non arrivò ad alcuna conclusione. Una terza conferenza, riunita a Bruxelles nel novembre 1951, decise. invece, per finire di sistemare i profughi e per affrontare il problema della sovrappopolazione europea, di creare il Comitato intergovernativo provvisorio per i movimenti migratorî (CIPME), che cominciò a funzionare al principio del 1952, utilizzando la struttura amminìstrativa dell'OIL e si trasformò nell'ottobre 1953 nel Comitato intergovernativo per le migrazioni europee (CIME), con sede a Ginevra, cui aderirono inizialmente 14 paesi, successivamente raddoppiatisi. Oltre al CIME, che ha esercitato un'importante azione nel campo della preparazione e selezione professionale, dell'assistenza e soprattutto del trasporto degli emigranti, e all'OIL (v.), che ha continuato nella sua attività di studio, d'informazione, e di promozione di norme legislative uniformi, anche varî organismi delle N. U. hanno svolto funzioni rilevanti ai fini delle migrazioni e cioè l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i profughi, l'Organizzazione mondiale della sanità, la FAO, l'UNESCO, la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo.
È venuto crescendo d'importanza in questi ultimi anni anche il ruolo delle organizzazioni sindacali, soprattutto di lavoratori, e si è venuta sviluppando inoltre l'assistenza ai migranti da parte di associazioni e fondazioni private, ora a carattere confessionale o professionale, ora invece, come la Croce Rossa, aperte a tutti. A coordinare l'attività di queste "organisations bénévoles" è stata istituita nel 1950, su iniziativa della Nazioni Unite e dell'OIL, una Conferenza delle organizzazioni non governative interessate alle migrazioni.
L'emigrazione italiana. - Nel decennio 1946-55 l'emigrazione italiana risale a poco a poco dal 3-4 al 6-7‰ abitanti e la media annua di espatri è di 250.000 unità. Caratteristica di questa fase è la tendenza al ripristino di una ripartizione approssimativamente equa tra l'emigrazione continentale e quella transoceanica; tra i paesi di destinazione della prima, oltre alla Francia e alla Svizzera, acquista poi importanza il Belgio, mentre accanto alle mète tradizionali della seconda (Argentina, S. U. A. e Canada) cominciano ad affermarsi anche Venezuela e Australia. È però da ritenere che detta equivalenza non sia destinata a durare, dato che il processo di integrazione economica dell'Europa dovrebbe determinare un più elevato ritmo di assorbimento della nostra mano d'opera nei paesi aderenti alla Comunità europea. I dati relativi al triennio 1956-58 indicano infatti, oltre a un ulteriore aumento della intensità degli espatrî (media annua 365.862), una modificazione sensibile nella ripartizione di essi (70%, verso paesi continentali).
L'assorbimento definitivo dei nostri emigrati ha incontrato sempre notevoli ostacoli tanto che il numero dei rimpatrî non è mai (o quasi mai) sceso al di sotto della metà del numero degli espatrî e ha perfino superato i due terzi di questo, anche in periodi non perturbati da circostanze eccezionali. L'emigrazione netta totale, che nell'anteguerra (1936-40) si era ridotta a meno di 30 mila unità annue (nel 1941-42 si ebbe addirittura un'eccedenza dei rimpatrî), è salita a 148.000 circa nel 1946-50 e a 165.000 nel 1951-55 e nel 1956-58. I quozienti di emigrazione del dopoguerra (3,2 e 3,4‰ ab.) restano tuttavia inferiori a quelli del 1921-25 (5,1‰). La proporzione della corrente transoceanica nell'emigrazione netta si mantiene sempre superiore a quella osservata negli espatrî degli anni corrispondenti, il che conferma il carattere più spesso definitivo di questa corrente in confronto alla continentale, per lo più temporanea (v. tab. 3). Argentina, Brasile, Canada e S. U. A. seguitano ad essere, con alterne vicende nella graduatoria, i paesi dove la nostra emigrazione transoceanica trova il maggior collocamento definitivo: nel 1951-55 si è avuta anche una certa affermazione del Venezuela e dell'Australia, ma negli anni successivi l'assorbimento nel Venezuela è andato progressivamente regredendo e si è arrivati addirittura a un'eccedenza di rimpatrî da questo paese, probabilmente in conseguenza degli avvenimenti politici interni. In complesso in tutti questi paesi l'assorbimento si fa sempre più irregolare; le due Americhe accolgono però tuttora la quasi totalità della nostra emigrazione netta transoceanica e oltre il 40% di quella complessiva.
Per quel che riguarda la corrente continentale l'assorbimento netto nella Svizzera, mèta caratteristica di emigrazione temporanea, è salito in questo dopoguerra dalle tradizionali 3-4000 unità annue a 15-20.000, raggiungendo e superando l'assorbimento netto attuale in Francia e in Belgio. I dati del triennio 1956-58 rivelano però un nuovo mutamento della situazione e la Francia ha ripreso il primo posto tra i paesi che accolgono stabilmente emigrati italiani. Va poi osservato che gli espatrî verso paesi continentali (soprattutto quelli verso la Francia, la Germania, il Belgio) fruiscono in buona parte (nel 1958 per il 55%) dell'aiuto finanziario e dei servizî di organizzazioni statali italiane e straniere o di organismi internazionali (soprattutto del CIME), mentre gli espatrî verso paesi transoceanici godono meno frequentemente di questa assistenza (nel 1958, il 49%).
Per il periodo successivo al 1958 i dati disponibili (finora pubblicati per il solo 1959) non sono esattamente comparabili con i precedenti. Si può tuttavia dire che nel 1959 la nostra emigrazione netta ha subìto una fortissima contrazione scendendo a 95.596 unità (1,9‰ ab.) in conseguenza del quasi completo arresto dell'assorbimento di lavoratori italiani da parte della Francia e del Belgio, oltre che della accentuata riduzione di quello da parte degli S. U. A. e dell'Argentina. Nel 1960 dovrebbe essersi invece verificato di nuovo un aumento sensibile.
La congiuntura politica internazionale e le condizioni politiche interne, con le loro modificazioni, hanno determinato sensibili oscillazioni, oltre che nell'ammontare e nella destinazione, nella composizione dell'emigrazione italiana secondo la provenienza. Tradizionalmente per motivi complessi gli originarî delle varie regioni si dirigono infatti verso paesi diversi e i mutamenti nelle destinazioni (che oggi possono considerarsi fenomeno antecedente, in quanto derivanti soprattutto da stipulazioni di accordi bilaterali) si riflettono così in mutamenti nella struttura regionale del flusso. La vicinanza e la maggiore affinità consigliano ai lavoratori settentrionali desiderosi di guadagnare temporaneamente di più la scelta di paesi europei, mentre i braccianti delle zone depresse del Mezzogiorno, che non riescano a trovar lavoro in altre zone più favorite d'Italia, aspirano necessariamente a un trasferimento definitivo e non si spaventano di attraversare l'Oceano. Il parallelismo tra le oscillazioni, di anon in anno, delle cifre sulle destinazioni e di quelle sulle provenienze delle nostre correnti emigratorie è ancora visibile nel quadriennio 1950-53, ma per gli anni più recenti non si ha la possibilità di analizzare la provenienza di tutto il flusso emigratorio, dato che si hanno notizie soltanto sugli espatrî per via marittima.
La mancanza di dati sugli spostamenti per via terrestre rende pure impossibìle proseguire oltre il 1953 l'analisi strutturale dell'emigrazione per sesso e per età. Può tuttavia ritenersi che la normale eccedenza dei maschi sulle femmine sia orientata verso una progressiva riduzione - grazie all'intervento di organismi di controllo e di assistenza che facilitano in genere i trasferimenti familiari - e che, comunque, lo squilibrio sia sempre pìù sensibile nell'emigrazione continentale rispetto a quella transoceanica, dato il carattere prevalentemente temporaneo della prima. Alla progressiva modificazione riscontrata nel rapporto tra sessi (i maschi sono scesi dall'85% del totale dell'emigrazione italiana nel 1876-80 al 63% nel 1951-1955), è naturale che abbia corrisposto una modificazione nella composizione per età; la proporzione eccezionalmente alta d'individui in età lavorativa, in confronto a quella dei bambini e dei vecchi, era infatti legata al più frequente espatrio dei lavoratori isolati e l'attenuarsi di questo squilibrio è conseguenza dell'aumento relativo dei gruppi familiari completi nell'emigrazione totale e soprattutto in quella transoceanica. La proporzione di individui al di sopra dei 15 anni di età è ancora pari all'86,7% (1951-53) del totale degli emigrati (contro il 73,9% della popolazione generale), ma scindendo il flusso emigratorio si constata come l'anormalità sia elevata soltanto per la corrente continentale (94,7%), mentre per a corrente transoceanica il rapporto (80,6%) non è lontano dalla normalità.
Dato che i riflessi strutturali sulla popolazione generale della composizione per sesso e per età dell'emigrazione hanno importanza soltanto nel caso dell'espatrio definitivo e che quest'ultimo è più frequente nella corrente transoceanica, è chiaro che il perdurare di squilibrî di una certa entità nel rapporto tra maschi e femmine e tra adulti e bambini nella corrente continentale deve ritenersi oggi meno preoccupante di un tempo.
Quanto alla composizione per stato civile la proporzione dei celibi e delle nubili nelle masse emigrate è sempre superiore alla proporzione degli stessi nella popolazione generale (nel 1950-53: 56,2% contro 51,7%) e inoltre più accentuata nella corrente continentale (56,8%) e meno in quella transoceanica (55,8%). Va poi notato che la frequenza dei celibi nella massa maschile (62,7%) supera quella delle nubili nella massa femminile (44,2%) nell'emigrazione transoceanica, mentre il contrario (55,7%, per i maschi e 60,0% per le femmine) si verifica nell'emigrazione continentale.
La inadeguata classificazione professionale degli espatrî ostacola, purtroppo, l'analisi dettagliata della composizione dell'emigrazione per professioni, che sarebbe molto interessante dal punto di vista economico. Si può soltanto dire che la nostra è tuttora un'emigrazione prevalentemente non qualificata, benché le percentuali di operai qualificati e artigiani e di condizioni professionali più elevate si vadano facendo più rilevanti e ciò permette di ritenere che le ripercussioni dell'emigrazione sul mercato del lavoro interno siano tutt'altro che sfavorevoli. Nel 1950-53 nell'emigrazione continentale il 13,4% degli espatriati adulti non aveva condizione professionale, il 32,4% risultava di addetti all'agricoltura e il 54,2% di addetti a professioni non agricole. Tra questi prevalevano muratori, minatori, meccanici e camerieri, mentre le posizioni più elevate (imprenditori, liberi professionisti, dirigenti, impiegati) non superavano il 2-3%. Nell'emigrazione transoceanica, più elevata era naturalmente la prima percentuale (33,5%) data la maggior proporzione di nuclei familiari; le professioni agricole erano rappresentate dal 22,9% e le non agricole dal 43,6% e tra queste le categorie piú numerose erano quelle dei muratori, meccanici, falegnami, calzolai e sarti e le posizioni più elevate superavano in media il 10%. Va notato però che i rimpatrî sono più frequenti per gli emigranti non qualificati che per gli altri, e che quindi la struttura professionale dell'emigrazione netta può presumersi un po' diversa da quella suddetta.
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