RICCI, Corrado
– Nacque a Ravenna il 18 aprile 1858, figlio del fotografo e scenografo Luigi, e di Clelia Bartoletti. Dopo aver frequentato il liceo classico e l’Accademia di belle arti presso la città natale, si laureò in Legge a Bologna il 5 luglio 1882. Continuò a coltivare però interessi essenzialmente artistici e letterari, su spinta di Adolfo Borgognoni (suo zio acquisito) e di Giosue Carducci, che ebbe modo di frequentare negli anni universitari.
Dal 1882 al 1892 fu impiegato (prima come alunno assistente, poi come sottobibliotecario) alla biblioteca universitaria di Bologna, diretta allora da Olindo Guerrini, a cui lo legò un intenso sodalizio; e portò intanto avanti una produzione copiosa quanto eterogenea.
Già autore della raccolta di liriche I miei canti (Bologna 1880), pubblicò poi insieme a Guerrini un poemetto, Il Giobbe (Milano 1882), gustosa carrellata satirica sulla società politica e culturale del tempo, concepita come parodia anticipata del poema omonimo annunciato da Mario Rapisardi, e firmata con il nom de plume Marco Balossardi: tenne sempre molto a quest'opera, mentre rinnegò decisamente i primi versi, definendoli «romanticamente sciapi, o classicamente impettiti» (C. Ricci, Come nacque il Giobbe, prefazione alla riedizione di O. Guerrini - C. Ricci, Il Giobbe. Serena concezione di Marco Balossardi, Roma 1919, p. 7).
D’altronde, diede alle stampe anche vari lavori eruditi, tra cui spiccano I teatri di Bologna nei secoli XVII e XVIII (Bologna 1888), ricognizione storico-aneddotica basata su cronache d’epoca, e L’ultimo rifugio di Dante Alighieri (Milano 1891), consacrato agli anni ravennati del poeta. Inoltre, si fece apprezzare attraverso conferenze tenute nei circoli culturali (un trafiletto de Il Mattino del 1 aprile 1895 elogia la sua capacità di avvincere l’uditorio) e una fitta collaborazione con diversi giornali e riviste.
Sempre però scontento del suo impiego, al principio del 1893 (anche grazie all’appoggio dell’allora suo amico Adolfo Venturi) riuscì a passare al settore dei musei: fu la svolta decisiva della sua vita e l’avvio di una carriera folgorante.
Assegnato, come coadiutore nell’Amministrazione provinciale per l’arte antica, alla Pinacoteca di Parma, ne assunse la direzione nel giugno 1893 e si occupò del suo nuovo allestimento fino all’anno successivo. Dal 1894 al 1898 resse la Galleria Estense di Modena; investito, il 20 ottobre 1895, del grado ufficiale di direttore di Musei, Gallerie e Scavi, fu messo a capo il 24 novembre 1897 della sovrintendenza speciale per i monumenti di Ravenna (su richiesta del suo promotore, il ministro dell’Istruzione Giovanni Codronchi); il 1º dicembre 1898 salì al vertice della Pinacoteca di Brera; il 12 ottobre 1903 ascese a quello dei musei e della galleria nazionale di Firenze; e in quella stessa data gli fu affidata l’organizzazione della mostra d’arte antica di Siena (inaugurata il 17 aprile 1904).
Le sue ristrutturazioni di Brera e degli Uffizi fecero grande colpo, sia per la loro efficienza, sia per l’innovatività dei loro metodi: contro i criteri estetici allora predominanti, Ricci dispose le opere per scuole ed epoche, adottò misure di sicurezza pionieristiche per l’Italia, dotò le gallerie di archivi fotografici, e incrementò le collezioni con numerosi acquisti (rimase celebre quello, per gli Uffizi, della Madonna col Bambino di Jacopo Bellini, realizzato con modalità spericolate che gli valsero poi notevoli fastidi).
La sua tenace volontà di garantire maggiori finanziamenti all’amministrazione del patrimonio artistico e la sua grintosa indipendenza da ogni schieramento politico lo resero tanto popolare nel mondo della cultura e della stampa quanto un po’ sospetto a quello delle istituzioni e della burocrazia. Non a caso, la sua ascesa alla direzione di Antichità e Belle Arti del ministero della Pubblica Istruzione, ventilata già nell’estate del 1905, fu ostacolata per oltre un anno da vari intoppi e temporeggiamenti. Approdò infine alla carica il 1º settembre 1906, in parte grazie all’insediamento a capo del dicastero dell’Istruzione (nel nuovo governo Giolitti) del suo vecchio amico Luigi Rava, ma soprattutto in virtù del fervido sostegno assicuratogli da un vasto numero di intellettuali e di periodici; dopo aver commentato, al primo sentore della notizia, «the right man in the right place», Benedetto Croce gli scrisse: «La tua nomina è una delle pochissime che è stata veramente imposta dalla opinione pubblica» (cfr. le lettere del 17 ag. 1905 e del 20 sett. 1906, in Carteggio Croce-Ricci, a cura di C. Bertoni, Bologna 2009, pp. 231, 246).
Trasferitosi a Roma insieme a Elisa Guastalla Errera (studiosa d’arte e di arti applicate, sua moglie dal 14 marzo 1900), Ricci non deluse gli auspici. Valendosi della fiducia accordatagli da Rava (e spesso smuovendone le esitazioni), ottenne un fondo apposito per le Belle Arti, promosse un nuovo catalogo generale dei beni e un Bollettino d’Arte mensile, e soprattutto ispirò due leggi decisive: quella del 27 giugno 1907, che rimpiazzò gli antichi uffici locali con sovrintendenze articolate in tre rami (ai monumenti, agli scavi e ai musei) e stabilì che le assunzioni del personale avvenissero esclusivamente per concorso, bloccando la prassi, fino ad allora invalsa, delle chiamate dirette; e quella del 20 giugno 1909, che (rettificando la precedente, troppo flessibile legge del 12 giugno 1902), regolamentò con chiarezza l’alienabilità dei tesori storici, artistici e archeologici, arginando le esportazioni e i commerci illeciti.
L’intento, palese in tutte queste tappe, di infondere maggior respiro al settore dell’arte e di preservarlo dai maneggi economici e dagli arbitri di potere, continuò ad attirargli sia diffidenza che plauso. Riuscì a mantenere la sua carica per i sette governi successivi, a dispetto degli intralci: il 14 luglio 1910, trovandosi accusato da una commissione d’inchiesta di eccessivo dispendio di fondi, rassegnò le dimissioni; ma in sua difesa insorse subito una folla di intellettuali e giornalisti tale da indurre Luigi Luzzatti, allora presidente del Consiglio, a pregarlo di tornare sui suoi passi; il suo prestigio finì per uscirne rafforzato, e gli permise anche di ottenere dal ministro dell’Istruzione Luigi Credaro la legge del 23 giugno 1912, che annoverò nei beni tutelati le ville, i parchi e i giardini di valore pubblico (disponendo inoltre un provvedimento per la protezione delle bellezze naturali primo embrione della legge poi varata in merito dieci anni dopo).
Cumulò intanto numerosi incarichi (fu tra l’altro membro della commissione reale per il Vittoriano di Roma e socio dell’Istituto archeologico germanico); dal 1898 in poi diresse per l’Istituto italiano di Arti grafiche la collana “Italia artistica” che arrivò a contare centosedici monografie; e, malgrado gli strali delle avanguardie (famosa la battuta del 1914 di Umberto Boccioni su «quella piaga nazionale che si chiama corradoricci» (U. Boccioni, Contro l’ossessione della cultura e contro il monumento nazionale (1914), in Id., Gli scritti editi e inediti, Milano 1971, p. 106), continuò a godere di ampio supporto negli ambienti della cultura.
La sua direzione si concluse il 21 ottobre 1919: Ricci rassegnò le dimissioni (ratificate il 16 novembre), in parte per attriti con il governo Nitti (specie con Vittorio Spinazzola, che ne era allora consulente), in parte per protesta contro l’istituzione di un sottosegretariato alle Antichità e Belle Arti, che gli avrebbe sottratto peso e autonomia decisionale. Eletto il 21 ottobre 1920 consigliere del Comune di Roma, nominato il 1° dicembre successivo assessore per le Antichità, Belle Arti e Giardini, socio dal 21 settembre 1921 dell’Accademia dei Lincei, lo studioso concentrò però le sue energie soprattutto sull’Istituto di Archeologia e Storia dell’arte romano, costituito il 27 ottobre 1918, di cui divenne presidente nel novembre 1919; e riuscì a ottenere da Croce, ministro dell’Istruzione nell’ultimo governo Giolitti, una legge (approvata definitivamente il 5 dicembre 1921) che dotò l’Istituto, inaugurato il 4 giugno 1922, di fondi propri e di uno statuto autonomo.
Pur lasciando sicuramente l’impronta più incisiva nella gestione concreta del patrimonio artistico, Ricci restò nel frattempo costantemente dedito a una prolifica produzione saggistica, ramificata grosso modo in tre filoni.
Molto spazio ebbe quello sulle arti figurative, non sempre dello stesso calibro. Appaiono più o meno deboli le monografie su artisti celebri – Antonio Allegri da Correggio (Londra 1896), Michelangelo (Firenze 1900), Pintoricchio (Londra 1902), Rembrandt in Italia (Milano 1918) – che, di ispirazione genericamente positivista, di fatto si valgono (dichiaratamente) di documenti già editi e riposano su scoperte e valutazioni già acquisite. Di rilievo ben maggiore risultano gli studi sull’arte emiliano-romagnola, che vanno dagli articoli per Napoli nobilissima e Rassegna d’arte (di cui Ricci fu condirettore dal 1901 al 1905) alla serie Le tavole storiche dei mosaici di Ravenna (Roma 1930-37); e hanno il loro esito più ragguardevole nel volume Il tempio malatestiano (Roma-Milano 1924), in cui l’autore, combinando felicemente le sue competenze di studioso e di funzionario, illustra puntualmente la stratificata storia dell’edificio e ripercorre gli interventi di restauro che, sollecitati e seguiti da lui stesso, tra il 1904 e il 1918 avevano cercato di ripristinarne l’aspetto originario.
Proseguì anche le sue ricerche storico-aneddotiche, con gli scritti confluiti nelle raccolte Promessa mortale (Bologna 1892), Rinascita (Milano 1902), Vita barocca (Milano 1904), Figuri e figure del mondo teatrale (Milano 1920), Fra storia e leggenda (Milano 1923): esposizioni di vicende prevalentemente di area emiliano-romagnola e di epoca sei-settecentesca, di stampo per lo più tragico e fosco, attinte da cronache dimenticate o da leggende popolari, in cui il gusto per il repêchage peregrino si intreccia a un piacere dell’affabulazione sconfinante a volte nella reinvenzione vera e propria. A questi studi si aggiunse Beatrice Cenci (Milano 1923), ponderosa ricostruzione, basata su carte di archivi privati, di uno dei più famosi (e più incrostati di mitologie) casi giudiziari romani di fine Cinquecento.
Al tempo stesso, Ricci seguitò a tributare a Dante una ‘lunga fedeltà’: con la cura della Divina Commedia illustrata nei luoghi e nelle persone (Milano 1898, 19212, corredata di un consistente apparato fotografico); e con i saggi assemblati nelle raccolte Pagine dantesche (Città di Castello 1913, riedita in versione ampliata con il titolo Ore e ombre dantesche, Firenze 1920), e Cogliendo biada o loglio (Firenze 1923), che, nel solco della scuola storica, alternano questioni esegetiche già dibattute a nuove ricognizioni o congetture sullo sfondo biografico del poema; opere a più riprese lodate da Croce, che pure avrebbe riconsiderato Dante in tutt’altra prospettiva (i due pubblicarono sulla Critica del marzo 1903 uno scambio in cui deploravano concordemente l’ipertrofia di studi sull’autore e la loro frequente riduzione a osservazioni cavillose e sterili).
Proprio quando sembrava ormai giunta a un pur dignitoso tramonto, la carriera di Ricci fu vigorosamente rilanciata dall’avvento del fascismo. Nominato senatore il 1º marzo 1923, lo studioso fu insediato l’11 aprile a capo della Commissione centrale per le Antichità e Belle Arti (ritrasformata in Consiglio superiore il 4 gennaio 1929); il 9 maggio 1924 fu incaricato di insegnare Storia dell’arte al principe ereditario Umberto; il 1º luglio dello stesso anno divenne vicepresidente della Commissione per i lavori di redenzione del Foro di Augusto; nel 1926 fu posto al vertice di quella per il recupero delle navi di Nemi, e fu inoltre membro di quelle per la ristrutturazione di Palazzo Venezia e per la sistemazione del Circo Massimo. Portò a termine sia il ripescaggio delle navi sia lo sventramento dei Fori Imperiali alla fine del 1932.
Morì a Roma, il 5 giugno 1934, senza discendenti.
La moglie Elisa, sua coetanea, ebrea, gli sopravvisse per nove anni, sperimentando così in pieno la piega più tragica della dittatura: si sottrasse con fatica alle persecuzioni antisemite, nascondendosi in una casa di cura torinese, e spirò poco dopo la Liberazione, l’8 settembre 1945.
Il periodo che aveva conferito a Ricci nuovo lustro è valso poi a offuscarne a lungo la figura. Il suo restauro dei Fori, all’epoca osannato, è stato in seguito criticato a profusione, in particolare per la scarsa attenzione al contesto urbano, la mancata esplorazione delle rovine e la gestione approssimativa dei reperti (rimasto noto soprattutto per le sue imprese archeologiche, lo studioso non aveva vere competenze di archeologo). E naturalmente è stato biasimato il suo allineamento al regime, pur assai meno indecoroso di quello di molti altri intellettuali e funzionari: conservatore moderato, tanto indipendente dalla politica quanto pericolosamente privo di idee in merito, insofferente delle pastoie della burocrazia e degli intrighi del parlamentarismo, Ricci fu certo fra quelli che videro nell’instaurazione della dittatura una speranza di radicale risanamento; ringraziò caldamente Mussolini per il laticlavio, firmò il Manifesto degli intellettuali italiani fascisti di Giovanni Gentile; ma non diede nessuna prova vistosa di servilismo o fanatismo; dichiaratosi «animale apolitico» in un discorso al Senato del 15 maggio 1925, restò sempre concentrato sulla tutela del patrimonio monumentale e artistico, senso principale, e, se si vuole, invalicabile limite della sua esistenza.
Riesaminati solo di recente, il suo profilo e la sua attività meritano senz’altro ulteriori rivisitazioni. Innanzitutto, in quanto esempio di un eclettismo disinvolto, ma temperato da un fondo di rigore, che può costituire un monito contro gli specialismi troppo angusti. E inoltre, in quanto interessante incarnazione della parte migliore dell’Italia liberale prefascista: della sua versatilità e intraprendenza, del suo impegno per l’utile pubblico, della sua determinazione a valorizzare e modernizzare la vita culturale; nonché, beninteso, della sua mancanza di sufficiente nerbo, della sua incapacità di fronteggiare l’involuzione reazionaria.
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