GOVONI, Corrado
Nacque presso Ferrara, a Tamara, frazione di Copparo, il 29 ott. 1884 da Carlo e da Maria Albonetti. Discendente da una famiglia contadina, lasciò presto le terre del Delta padano. Nella sua formazione non seguì studi regolari, e - facendo coincidere l'origine della propria vocazione poetica con la "chiusura" alla quale era stato costretto, undicenne, nel collegio dei salesiani di Ferrara - il G. approdò giovanissimo a quegli interessi letterari che gli fecero inseguire "gli ingannevoli e illusori miraggi della poesia".
Il destino del G. fu, tuttavia, di rimanere un appartato, anche perché - a fronte di una natura fecondissima di scrittore - mai riuscì a far della letteratura la sua prima vera occupazione: del G. si contano, infatti, una cinquantina di opere - fra poesia, narrativa e teatro -, oltre 2000 versi, senza mettere nel novero gli inediti, e per contro una vita privata all'insegna costante della precarietà. E, del resto, ci troviamo dinanzi a una vicenda biografica faticosa e sofferta, ma spoglia di grandi accadimenti, tale - avvertiva già E. Montale nel 1953, recensendo l'antologia govoniana curata da G. Spagnoletti - da non risultare particolarmente interessante.
Di temperamento "generoso, entusiasta, felice di naturale ingenuità", come lo restituisce l'amico G. Papini, nel 1914 il G. approdò senza fortuna a Milano, affascinato dalla musa futurista, dopo essersi disfatto della casa paterna e delle proprietà agricole. Nel 1915 fece ritorno a Ferrara ove, prima di esercitare la professione di archivista presso il Comune, si diede, non senza rapporto con gli estri del suo carattere, all'allevamento; fu quindi a Roma ove fu vicedirettore della sezione del libro della Società italiana autori ed editori e, dal 1928 al 1943, segretario del Sindacato nazionale autori e scrittori. Disoccupato, nel primissimo dopoguerra, fu nuovamente impiegato presso il ministero della Pubblica Istruzione. Dal matrimonio con Teresa Albisetti ebbe tre figli: Aladino, Ariele e Mario. Nel gennaio 1960 accettò di dirigere la rivista bimestrale di cultura Il Sestante letterario; dal 1960 si trasferì in una villetta presso Lido dei Pini, sul litorale laziale, non distante da Anzio.
Il G. morì a Lido dei Pini il 20 ott. 1965.
Gli esordi letterari del G. furono segnati dalla precocissima attività di poeta: Le fiale (Firenze 1903), Armonia in grigio et in silenzio (ibid. 1903), Fuochi d'artifizio (Palermo [1905]), Gli aborti (Ferrara 1907).
Se parte della critica situa nell'opera di G. Pascoli i caratteri innovativi della poesia contemporanea, mentre alcuni più decisamente li riconoscono nel Porto sepolto di G. Ungaretti, altri ancora ne individuano l'origine proprio fra A. Palazzeschi e il G., fra G. Gozzano e i futuristi, in una zona, cioè, "che in parte avversa e in parte accoglie temi e linguaggi del cosiddetto decadentismo" (Fortini, p. 3), secondo una radicale "discesa di tono" tanto nella tematica quanto nel linguaggio. E, del resto, il 1903 che vede le due prime raccolte di versi - Le fiale e Armonia in grigio et in silenzio - del G. diciannovenne (la prima fra le quali stampata in 400 copie pregiate a sue spese), è anno cardine per la letteratura italiana contemporanea: escono infatti l'edizione definitiva di Myricae e i Canti di Castelvecchio del Pascoli, Maia, Elettra e Alcyone di G. D'Annunzio (sebbene, le ultime due, con data editoriale 1904), l'Estetica di B. Croce e, non ultimo, Fra terra ed astri di D. Gnoli. Ma bastano le sue due prime raccolte a dar conto dell'ampio spettro, contraddittorio persino, della natura del G., in una sorta di "parallelismo strettamente compensativo": "il primo dislocato sul versante esotico, il secondo sul registro umile. Distillazioni di eleganze raffinate, fragili "fiale" di essenze rare, e insieme detriti di una materia prosaica, il "grigio" che promana dalla routine di tutti i giorni" (Tellini, p. V). E, proprio in tal senso, fu e rimase vita di tragico sdoppiamento quella del G., consumata nell'insanabile conflitto fra il senso trascendente e immaginifico della poesia e la banalità del quotidiano.
Pure, già nei cento sonetti che compongono Le fiale nel suo "parnassianesimo scapigliato", molto appare tuttavia giocato in ossimoro rispetto al mondo estetizzante, esotico, in una parola dannunziano che il G. vuole ricreare e delibare nelle sue preziosità, attraverso un lessico che circoscrive ed evoca un'evidente trasfigurazione del reale: sicché, pur senza arrivare ai coscienti traguardi del controcanto e contrappunto gozzaniani, medesima è l'aura sacrale che, da simili procedimenti, risulta inficiata, mediante l'uso di intarsi fortemente popolareggianti e che allignano sul versante più prossimo alle cose. Il G. condivide con D'Annunzio "una tenacia nominativa senza freno": sicché, se da un lato il lessico si impreziosisce nell'enumerazione degli arredi, ridotti a pure astrazioni di suono, per l'altro eccoci innanzi al fanciullo che, secondo sensibilità crepuscolare, "sembra aver già "previssuto" ogni età della vita e può dunque avvertire la malattia come uno "stato" a cui competono gli oggetti parcamente stilizzati del repertorio" (Ramat). Non sarà superfluo altresì segnalare che Le fiale furono pubblicate prive della sezione Vas luxuriae, di manifesta espressione erotica, per il rifiuto dell'editore, e che soltanto nel 1983 - a cura di L. Caretti, pubblicato da Galeati di Imola per volontà dell'Università di Ferrara - si è potuta avere l'edizione integrale della prima raccolta del Govoni.
Le prove successive testimoniano di un itinerario che - pur versando un contributo significativo all'esperienza del futurismo - si avviò lungo il sentiero di una raggiunta e più equilibrata maturità espressiva, sebbene il G., poeta dai toni accesi e dall'ostentazione verbale, ma al tempo stesso di una tristezza disincarnata ed elusiva, trovi non a caso nelle raccolte della giovinezza la sua più celebrata stagione.
Figura a suo modo emblematica di scrittore poligrafo e prolifico, il G. attraversò con originalità il complesso universo che si andava muovendo intorno alla "nuova poesia", sorta nella prima quindicina del secolo, attraversando Pascoli e D'Annunzio, ma soprattutto direttamente partecipando tanto al movimento futurista (collaborò ai Quaderni di poesia, diretti da F.T. Marinetti) quanto, facendo tesoro delle esperienze simboliste e tardo-simboliste in chiave impressionistica e crepuscolare, secondo il credo di una poesia il cui fine non è certo analizzare e descrivere ma puntare piuttosto verso l'ineffabile, evocare sensazioni.
Il G. collaborò, inoltre, a La Voce e a Lacerba, ma pubblicò anche su diverse altre riviste, fra cui Riviera ligure di M. Novaro e, dal 1916, sulla rivista partenopea La Diana di G. Marone, che per prima ospitò e diffuse l'esperienza dei poeti ermetici.
Già C. Bo individuava quale "punto determinante nella poesia govoniana" la sua stupefacente natura di scrittore: "una natura talmente ricca e sovrabbondante da impedire una classificazione esatta o - caso mai - portata piuttosto a sollecitare una continua collusione con le ragioni del tempo" (p. 314).
Anche simbolicamente, la vicenda biografica del G. può esser vista come raffigurazione di un passaggio epocale, che vi si svolge in nuce e lo compendia: di un'Italia, cioè, che muove i primi passi dal mondo rurale alla città (e via via alla metropoli) e che, letterariamente, mediante la rivoluzione formale del verso libero e poi del frammentismo, risillaba l'universo della parola, affascinata dal mito della velocità e della macchina nel suo caleidoscopico divenire (si pensi in questo alla luminosa presenza della pittura futurista coeva), stordita dal conflitto libico e poi dalla Grande Guerra, nel consapevole venir meno della funzione del poeta-vate e della relativa concezione della lirica e della letteratura che vi sottostava.
Certo, insieme con l'A. Soffici dei Chimismi lirici e con il complessivo lavoro sulla parola poetica condotto in quegli anni medesimi dai vociani - e in particolare, secondo diverse modalità, da G. Ungaretti e D. Campana, A. Onofri e C. Rebora - fu proprio il G. a piegare la musa avanguardistica a soluzioni che si rivelano fra le più convincenti per impasto fonico, ritmico e cromatico, e che superano pertanto il carattere apodittico dei proclami e dei manifesti, vuoi per invocare l'uccisione del "chiaro di luna", vuoi per compendiare il fatto letterario nella sola dimensione provocatoria ed eversiva (e sono raccolte di quegli anni: Poesie elettriche, Milano 1911; L'inaugurazione della primavera, Ferrara 1915; Rarefazioni e Parole in libertà, Milano 1915).
Seguiranno poi: Tre grani da seminare (ibid. 1920); Il quaderno dei sogni e delle stelle (ibid. 1924); Brindisi alla notte (ibid. 1924); Il flauto magico (Roma 1932); Canzoni a bocca chiusa (Firenze 1938); Pellegrino d'amore (Milano 1941); Govonigiotto (ibid. 1941); Patria d'alto volo (Siena 1953); Preghiera al trifoglio (Roma 1953); Manoscritto nella bottiglia. Nuove poesie (a cura di G. Ravegnani, Milano 1954); Stradario della primavera e altre poesie (Venezia 1958); La ronda di notte (a cura di E. Falqui, postumo, Milano 1966). Non avere aderito, neppure parzialmente, all'ermetismo, negli anni in cui questa maniera sembrò la via privilegiata dell'espressione poetica, contribuì certamente - nel caso specifico del G. - a non garantirgli alcuna forma di accettazione o di omologazione da parte dell'establishment culturale e a farne un isolato.
Via via, dalle prove della maturità alle ultime raccolte di versi, i colori si mitigano ma pur sempre in uno scrigno a doppia chiave, ove virtù e difetti del poeta furono "così contemporaneamente presenti da risultare connaturali e costituire quasi la condizione del suo poetare" (Falqui, p. V). Non tanto si evolse la maniera del G. accogliendo suggestioni tematiche e formali esterne, quanto se mai fedelmente "lavorando dal di dentro dei suoi motivi e ritmi congeniali" (Mazzali, p. 571), facendo propria la lezione del Pascoli e dell'Ungaretti riguardo l'essenzialità analogica ma senza mai giungere, né tantomeno indugiare, in soluzioni ermetiche: preferendo invece una più calibrata grammatica delle immagini, nutrita da un humus affettivo e da una naturale tendenza ad abbandonarsi alla fantasticheria e al sogno.
Sarebbe tuttavia riduttivo confinare il G. all'interno dei suoi "rosari di immagini", in una livellata prospettiva antologica (e tanto più da antologia scolastica), sorte che pare congeniale a quei poeti e scrittori dotati di particolare eclettismo e di cui pare opportuno, e dunque risolutivo, di tanto in tanto riferire in compendio delle diverse maniere. Più celebri, infatti, delle singole raccolte poetiche, furono le sue antologie, prima fra le quali le Poesie scelte 1903-18 (Ferrara 1918), cui seguirono quelle per la rispettiva cura di G. Spagnoletti (Antologia poetica 1903-53, Firenze 1953), di G. Ravegnani (Poesie 1903-59, Milano 1961), di T. Lisi (Il vino degli anni, Roma 1979), di P. Cimatti (Govonilampi, ibid. 1981: preziosa per la pubblicazione di alcuni inediti tratti dalle carte del G. della Biblioteca Ariostea di Ferrara) e, da ultimo, di G. Tellini (Poesie. 1903-58, Milano 2000). Poeta antologizzato per antonomasia, il G., ma anche curatore egli stesso d'uno Splendore della poesia italiana (Milano 1937; 2ª ed. aumentata ibid. 1959): a testimonianza d'un ripercorrere il territorio della poesia secondo l'incanto - a lui congeniale per indole - e la capacità evocativa che da essa deriva.
In effetti, malgrado ne venga riconosciuta abitualmente l'importanza nel panorama delle lettere italiane della prima metà del Novecento, il G. fatica a trovare opportuna collocazione: non abbastanza per figurare fra gli elenchi dei "maggiori" tout court, troppo importante (o ingombrante), viceversa, per farne semplicemente un minore, se pure di lusso. Certo non si può negare la natura affatto interstiziale della sua esperienza poetica, sempre sospesa "fra": fra il Pascoli di Myricae e il D'Annunzio della Chimera e del Poema paradisiaco, fra crepuscolari e futuristi, fra parnassiani e simbolisti, fra preraffaellismo estetizzante e tristesse decadente, fra avanguardisti e preermetici ecc.
Eppure il G. è l'unico - se si prescinde da D'Annunzio e dal suo sfrenato sperimentalismo - a suggerire, a impersonare, se non ad anticipare e a interpretare, movenze poetiche contemporanee all'interno di un disegno complessivo che fa della sua opera, pur se in modo disomogeneo, un "Baedeker" della letteratura e, soprattutto in tal senso, della letterarietà europea fra i due secoli. Non sono strade secondarie e appartate quelle battute dal G.: basti solo pensare a quel suo lavorare "a macchia" (cfr. le sue "kleksografie" apparse su Lacerba, III [1915], n. 15) che rivela del "suo automatismo tra il primitivistico e l'allucinato", quel surrealismo "reperibile in tutte le sue prove più risolte", ben più profondo e significativo della "ludica manipolazione di oggetti verbali scatenati in libertà" (Sanguineti, in Alias) cui troppo spesso si è voluto ridurlo. O ancora - anche lungo l'ipotesi suggestiva di una Bruges ferrarese e d'un "Rodenbach padano" (cfr. in particolare F. Livi) - ecco un G. in grado di offrire "il primo segno della fuoriuscita dal sistema dannunziano" (Beccaria, p. 180), in nome di una sofisticata sperimentazione metrica "atonale" che pone anche storicamente il suo fermo universo e le sue marionette fra i melanconici pierrots di J. Laforgue e il Pierrot lunaireop. 21 di A. Schönberg (1912). Non a caso fu proprio il giovane provinciale di Ferrara a sdoganare in Italia (scoprendo, traducendo, postillando) le opere di coloro che si sarebbero poi annoverati fra i modelli dei crepuscolari: F. Jammes, M. Maeterlinck, A. Samain, e in particolare, si diceva, Laforgue e G. Rodenbach.
In una lettera datata 1° sett. 1943, indirizzata all'amico Papini (cit. in Portelli, pp. 272 s., 422), al quale era legato dai tempi della Voce, il G. riconosceva apertamente l'errore di aver creduto, per un certo periodo, in B. Mussolini, e di avergli reso "poetici omaggi" (ci si riferisce, in particolare, a Saluto a Mussolini, Roma 1932, e al Poema di Mussolini, ibid. 1937). Occorre altresì rilevare quanti scrittori, anche maggiori, avevano usufruito di simili espedienti durante il Ventennio: e con particolare rilievo nel caso del G., un po' sbrigativamente bollato come "poeta fascista" (Portelli, p. 273), sempre sospeso fra una "fortuna" e un riconoscimento della propria opera, costantemente negatigli (e che solo in parte gli avrebbero tardivamente arriso), e il disincanto e l'orgoglio di chi corre solo e non vuol far parte di alcuna cordata.
A prescindere dall'ambigua posizione politica assunta dal G., dovettero, comunque, esserci non poche discordanze con il primogenito Aladino, militante della Resistenza romana, che, nel 1944, trovò la morte nell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Una commossa addolorata rievocazione dell'episodio si ha in La fossa carnaia ardeatina (Roma 1944) e in Aladino. Lamento per mio figlio morto (Milano 1946). Certo è che, biograficamente, per il G. la morte del figlio rappresentò "il culmine tragico di una vicenda di delusioni e sconfitte" sia sul piano pubblico, sia sul piano della tragedia privata.
Il G. si abbandona a un'invettiva che nulla risparmia, a un odio smisurato che sembra esser la sola cosa che lo tiene in vita: ma ne escono anche i versi più drammatici e dolorosi dell'intera sua vicenda poetica, conchiusi come esperienza a sé, anche letterariamente, nel dramma esistenziale che li aveva generati.
Considerevole, per mole, fu anche la produzione teatrale e narrativa del Govoni. In chiave teatrale (cfr. l'edizione integrale del Teatro, a cura di M. Verdone, Roma 1984) si dovrà notare, parimenti, dello scrittore, il contrasto fra l'alchimista verbale e l'incontinenza inquieta, resa nello iato che distanzia la "logorrea sublime dei personaggi" dal "declassamento piccolo-borghese delle situazioni" (Baldacci). La scrittura teatrale partecipa dunque alle peculiarità del poeta, "traducendole però in una cifra di ingenuità che se è ammissibile nella dimensione del lirico, rischia di scoprirsi in modo imperdonabile nella dimensione scenica, quand'essa, com'è fatale, si combina con la valenza ideologica" (ibid.).
Da La neve (1914), attraverso Il pane degli angeli (1921), fino alla Madonnina dei pastori e alla Vernice del presepe di Natale (entrambe datate 1939), il G. non riesce a staccarsi dal vieto stereotipo della maternità concepita nel peccato che infrange gli equilibri borghesi, attingendo a un linguaggio teatrale sempre marcatamente troppo letterario e "scritto". Non a caso si può ritenere, forse, La caccia all'usignolo (1915) - nella piena maturità "futurista" del G. - la sua cosa teatralmente migliore, ma che può ridursi in fondo, e non a caso, in una serie di squarci di bravura letteraria e poetica.
Diverso è il caso del narratore, anche se, alla pari del drammaturgo, caduto nella dimenticanza. L'opera che più d'altre, forse, merita menzione è Uomini sul Delta (Milano 1960), la cui genesi risale tuttavia alla precedente Censura, sequestrata in bozze già pronte per la stampa nel 1934.
Lo sfondo del Delta padano è quello della maggior parte dei romanzi e racconti del G., ma qui, pur nei modi di una scrittura sempre sovrabbondante ed eccessivamente "lirica" - attraverso la misera condizione dei lavoratori e del protagonista Tivàr, contrapposta alla orgogliosa anacronistica casta dei nobili - lo scrittore riesce ad avvalersi di un respiro epico-melodrammatico che può rammentare a tratti, se pur di lontano e con le opportune cautele del caso, quello del Novecento (Atto I e II, 1976), diretto da B. Bertolucci.
Uomini sul Delta fu preceduto da Anche l'ombra è sole e La terra contro il cielo (entrambi Milano 1921), La strada sull'acqua (ibid. 1923), La cicala e la formica (ibid. 1925), Il volo d'amore (ibid. 1926). Fra le prose e le raccolte di novelle si rammentino almeno: Il libro del bambino (ibid. 1919: curiosa incursione nella letteratura per l'infanzia, in prosa e verso; ristampa anast. Bergamo 1985), La santa verde (Ferrara 1919), Piccolo veleno color di rosa (Firenze 1921), Misirizzi. Novelle d'anima e di carne (ibid. 1930), Le rovine del paradiso. Ricordi e ritratti (ibid. 1941), Confessione davanti allo specchio (Brescia 1943).
Dopo il consenso per il poeta agli esordi, cadde tuttavia sul G. un lungo silenzio, tanto più crudele quest'ultimo quanto caloroso era stato il primo. L'attenzione critica sul G. ricomincia, in effetti, a partire da due fra le più fortunate e discusse antologie della poesia del Novecento: il "Parnaso" einaudiano di E. Sanguineti (Torino 1969), organizzato con propositi dissacratori, in cui non v'è autore che goda di una rappresentanza più vasta di quella assegnata al G., nonché la dotta crestomazia del Mengaldo (Milano 1979) che si apre nel segno del G., a testimonianza di una linea innovativa e originale che intende attraversare la storia della poesia nel secolo scorso. Dopo il fondamentale convegno ferrarese, promosso da L. Caretti in vista del centenario del poeta (5-7 maggio 1983), si sono susseguiti studi volti a scandagliare alcuni aspetti dell'opera del G., da quelli formali a quelli stilistici e metrici, dal narratore ai rapporti con la lirica francese, sebbene perduri a tutt'oggi l'impressione che - nonostante i notevoli contributi usciti negli ultimi anni - non sia stata omogeneamente avviata una ricognizione organica e un'analisi approfondita dell'intera opera del Govoni.
Fonti e Bibl.: Una buona bibliografia aggiornata sul G. è in C. Govoni, Poesie. 1903-58, a cura di G. Tellini, cit., pp. XXXIX-XLV. In particolare si veda il volume C. G. Atti delle giornate di studio, Ferrara 5-7 maggio 1983, a cura di A. Folli, Bologna 1984 (con interventi di: E. Sanguineti, F. Livi, P.V. Mengaldo, G.L. Beccaria, F. Curi, U. Carpi, M. Verdone, G. Tellini, G. Guglielmi, A. Bertoni, G. Spagnoletti, G. Tosi). Si vedano inoltre: E. Montale, Un'antologia di G., in Corriere della sera, 29 luglio 1953; E. Mazzali, C. G., in Letteratura italiana. I contemporanei, I, Milano 1963, pp. 565-574 (e con bibl. alle pp. 575 s.); S. Solmi, G. e le immagini, in Id., Scrittori negli anni. Saggi e note sulla letteratura italiana del '900, Milano 1963, pp. 256-262; F. Curi, C. G., Milano 1964 (con bibl.); C. Bo, G., Martini e Moretti, in Storia della letteratura italiana (Garzanti), IX, Il Novecento, Milano 1969, in partic. pp. 314-317; F. Livi, C. G., in Dai simbolisti ai crepuscolari, Milano 1974, pp. 275-315; L. Baldacci, Il poeta a teatro, in Il Tempo, 23 nov. 1984; A. Paolini, Anarchia crepuscolare di C. G., in Corriere della sera, 29 ott. 1984; P.V. Mengaldo, Considerazioni sulla metrica del primo G. (1903-1915), in La tradizione del Novecento. Nuova serie, Firenze 1987, pp. 139-188; F. Fortini, I poeti del Novecento, Roma-Bari 1988, pp. 3-7; G.L. Beccaria, La somma atonale: C. G., in Id., Le forme della lontananza, Milano 1989, pp. 180-226; P.V. Mengaldo, C. G., in Poeti italiani del Novecento, Milano 1990, pp. 3-23; S. Ramat, G.: recondite armonie di un salotto simbolista, in Corriere della sera, 21 genn. 1990; E. Sanguineti, G. o delle kleksografie, in Alias, 17 ott. 1998; A. Portelli, L'ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma 1999, ad indicem.