GIAQUINTO, Corrado
Figlio di Francesco, sarto di origine napoletana, e di Angela Fontana di Bari, nacque, quinto di sette figli, l'8 febbr. 1703 a Molfetta, dove venne battezzato l'11 febbraio dello stesso anno.
Di difficile valutazione, in mancanza di documenti, rimane la prima formazione dell'artista. Secondo il racconto di De Dominici nelle sue Vite… (1744), fonte imprescindibile ma non sempre affidabile per la vita del G., il giovane sarebbe stato destinato alla carriera ecclesiastica (fatto molto probabile, visto che tutti i fratelli divennero sacerdoti), ma il suo destino cambiò in virtù della scoperta del suo talento artistico da parte di un non meglio identificato frate domenicano "eccellente architetto, ed inteso delle cose matematiche" (p. 722). La ricerca recente tende però a valutare tale episodio come un'invenzione di De Dominici, che avrebbe in questo seguito il topos della scoperta del genio giovane (Gabrielli, p. 33). Sempre secondo De Dominici, il G. partì presto per Bari, dove entrò nella bottega di un pittore del quale però non indica il nome. Si potrebbe trattare di Saverio Porta, pittore di Molfetta e padrino di cresima del G. che aveva una bottega anche a Bari, indicato come suo primo maestro nella biografia di Muti (post 1730). Nel marzo del 1721 lasciò Molfetta per spostarsi a Napoli dove rimase fino al marzo del 1727 (e non fino al 1723, come per molto tempo si è creduto sull'autorità di De Dominici); tra il febbraio del 1723 e l'ottobre del 1724 ritornò tuttavia a Molfetta dove riprese probabilmente contatto con Saverio Porta.
Anche per il soggiorno napoletano il testo di De Dominici è praticamente l'unica fonte. Secondo questo il G., appena arrivato a Napoli, sarebbe entrato nella bottega di Nicola Maria Rossi, che presto gli avrebbe affidato incarichi autonomi di una certa importanza; subito dopo sarebbe invece passato nella bottega di Francesco Solimena.
Il soggiorno a Napoli fu con ogni probabilità particolarmente significativo per la formazione artistica del G., a contatto con gli esempi di L. Giordano e, soprattutto di Solimena, nel momento in cui quest'ultimo andava rielaborando alcune fasi del "pittoricismo giordanesco, delle vigorose soluzioni del barocco pretiano e di alcune componenti del classicismo marattesco" (Spinosa, p. 36). Diversi autori hanno in seguito tentato di ridimensionare l'importanza della formazione napoletana del G., mettendo in dubbio soprattutto un effettivo alunnato presso Solimena. Bologna (p. 62) ha però sottolineato come il G. sia tornato "sovente non solo alla lezione generica del maestro dei suoi primi studi, ma proprio ai testi specifici delle sue opere".
Nel marzo del 1727 si trasferì a Roma, "per apprender perfettamente il disegno" (De Dominici, p. 722) anche se all'epoca la sua formazione doveva essersi ormai compiuta. Di conseguenza non appare probabile che il G. sia entrato nella bottega di Sebastiano Conca in qualità di allievo, come fa intendere Lanzi (e come, peraltro, sostiene anche d'Orsi), anche se certamente osservò con attenzione le opere del più anziano maestro. I primi dipinti fanno intendere che il G. a Roma dovette raggiungere molto presto una posizione di un certo prestigio. Nel 1730 ricevette dal rettore dell'Ara Coeli, padre José Maria de Fonseca e d'Evora, la commissione per una tela con Cristo in croce con la Madonna, s. Giovanni Evangelista e la Maddalena (Mafra, palazzo nazionale) per Giovanni V re di Portogallo. L'opera faceva parte di un gruppo di tele destinate alla basilica di Mafra, eseguite dai più importanti pittori romani del momento, tra i quali A. Masucci, F. Trevisani, S. Conca, G. Odazzi. Nel 1731 firmò un contratto per la decorazione della chiesa di S. Nicola dei Lorenesi; il G. affrescò la volta della navata centrale con S. Nicola che fa scaturire l'acqua da una roccia, e dipinse Letre Virtù teologali nella tribuna e il Paradiso con le Virtù cardinali nella cupola. Questi dipinti, resi di nuovo leggibili dai recenti restauri, segnano l'esordio romano dell'artista, che si dimostra ormai padrone di un linguaggio proprio, formato sui coevi esempi romani; mentre l'influenza di Solimena sembra essersi alquanto ridotta (Gabrielli, pp. 37 s.).
Segno del successo incontrato dal G. con la decorazione della chiesa nazionale dei Lorenesi fu la chiamata alla corte di Torino, nel giugno del 1733, da parte di F. Iuvarra. Il primo soggiorno nella capitale sabauda fu probabilmente assai breve; e comunque il G. fu di nuovo a Roma nel giugno del 1734 in occasione del matrimonio con Caterina Agata Silvestri (morta di parto nel febbraio dell'anno seguente). Ripartito per Torino, il G. dovette tornare a Roma entro il 20 sett. 1738, data di una lettera di Giovanni Battista Orengo, agente del re di Sardegna, spedita da Roma al ministro C.F.V. Ferrero di Roario, marchese d'Ormea, in cui si parla della proposta fatta al "signor pittore Corrado di ritornare in Torino per dipingere i soffitti di alcune camere del Palazzo Regio; ma non fu convenuto per il prezzo" (Baudi di Vesme, 1963).
Resta tuttavia ancora aperto il problema della precisa cronologia delle opere torinesi dell'artista. Il primo e unico incarico documentato fu quello di ampliare la pala di S. Conca con S. Giovanni Nepomuceno, nella chiesa di S. Filippo, dove aggiunse la figura della Madonna della Lettera (Gabrielli, p. 56 n. 45). Inoltre decorò la cappella di S. Giuseppe nella chiesa di S. Teresa per la quale eseguì due tele con il Riposo durante la fuga in Egitto e il Transito di s. Giuseppe, sicuramente compiute prima del marzo 1739, quando vennero rimosse per essere spolverate (Tamburini, p. 95), e, nella volta, l'affresco con L'assunzione di s. Giuseppe. La complessa progettazione di questo ciclo, vicino a Conca nella disposizione e nell'atteggiamento delle figure, è testimoniata da un rilevante numero di disegni preparatori. In rapporto alla decorazione ad affresco della volta sono noti ben dodici fogli, che comprendono vari particolari e l'ideazione d'insieme, conservati nel Museo di S. Martino a Napoli. Sempre a Torino dipinse, per la villa della regina, il perduto soffitto con Il trionfo degli dei (noto attraverso una serie di bozzetti: Gabrielli, p. 58 n. 69) e i due riquadri a fresco inseriti nelle specchiature del salone centrale, con la Morte di Adone e Apollo e Dafne, oggi notevolmente ritoccati. A queste opere è da collegare anche il ciclo di tele con le Storie di Enea, oggi nel palazzo del Quirinale a Roma, proveniente da una delle residenze reali di Torino. In questi ultimi dipinti, in particolare, attraverso uno stile lirico e leggero, fatto di toni chiari e velature delicate, il G. realizzò veri e propri capolavori in "cui la dimensione arcadico-metastasiana trova una sua congruente forma estetica" (Strinati, p. 23).
L'esperienza torinese costituì una tappa decisiva nel percorso artistico del G., completandone la maturazione grazie all'atmosfera creativa, densa di scambi culturali, che contraddistingueva allora la corte sabauda, caratterizzata dalla figura di F. Iuvarra e dalla presenza di pittori come Carle van Loo, Giovanni Battista Crosato e Francesco De Mura.
Ritornato a Roma, il G. eseguì nel 1739 la pala d'altare con l'Assunzione della Vergine per la chiesa parrocchiale di Rocca di Papa, commissionatagli dal cardinale Pietro Ottoboni iunior, pronipote di Alessandro VIII. Allo stesso periodo risale probabilmente anche la pala con la Madonna del Rosario, realizzata dal G. per uno degli altari della chiesa di S. Domenico di Molfetta consacrato nel 1739.
Il 3 genn. 1740 venne ammesso all'Accademia romana di S. Luca. Come saggio d'ammissione presentò il bozzetto per la parte superiore della grande pala raffigurante L'Immacolata Concezione con il profeta Elia, dipinta entro il luglio 1741 per la chiesa del Carmine di Torino; il bozzetto dell'intera composizione si trova attualmente nella Pinacoteca comunale di Montefortino.
La pala torinese ripropone, nell'angelo a sinistra dell'Immacolata, la stessa figura presente nella tela dipinta per la chiesa di Rocca di Papa. Ciò corrispondeva all'abitudine del G. di utilizzare un repertorio di figure inserite, con leggere modifiche, in contesti diversi; allo stesso modo il pittore aveva l'abitudine di riproporre come opera autonoma, a volte anche dopo un considerevole lasso di tempo, un elemento di una composizione di grandi dimensioni. Quest'ultima pratica dipendeva dalla crescente richiesta di bozzetti e di opere di dimensioni ridotte da parte di collezionisti e committenti (Volpi, p. 277). Si tratta di una produzione non sempre autografa e dunque spesso di difficile attribuzione anche per le scarse notizie finora a disposizione sull'organizzazione dello studio e sugli allievi e seguaci dell'artista.
Gli anni successivi vedono il G., pienamente inserito nell'ambiente romano, impegnato in una serie di cicli decorativi quasi sempre composti da parti in affresco e tele a olio. La prima di queste imprese fu la decorazione della chiesa di S. Giovanni Calibita, commissionatagli nel 1741. Nel soffitto della volta centrale affrescò le Opere di carità di s. Giovanni Calibita e la sua assunzione in cielo e, nella volta del transetto, La Trinità, Cherubini con gli strumenti della Passione e due Virtù. Per questa stessa chiesa eseguì inoltre tre grandi tele con il Martirio di s. Marta, i Ss. Ercolano, Taurino e Ippolito e la Morte dis. Antonio abate. I lavori erano sicuramente già completati nel marzo dell'anno seguente quando la chiesa viene descritta nel Diario ordinario del Chracas in occasione della visita di Benedetto XIV. Anche a queste opere è da collegare un cospicuo numero di disegni e bozzetti, conservati in diversi musei e collezioni (Gabrielli, pp. 59 n. 86, 43 s.).
Nel 1743 il G. ottenne la commissione per eseguire due tele di imponenti dimensioni nella basilica romana di S. Croce in Gerusalemme raffiguranti la Madonna che presenta s. Elena e Costantino alla Trinità nel soffitto della navata centrale, e, nella volta del transetto, l'Apparizione della Croce.
Tali opere costituivano il complemento pittorico dei grandiosi lavori di restauro e ristrutturazione promossi tra il 1743 e il 1744 da Benedetto XIV, già cardinale titolare della basilica. L'intervento dell'artista risulta concluso nell'aprile 1743; ed è possibile che riguardasse anche la magnifica cornice intorno alla tela del transetto. Un intervento in questo senso è stato supposto anche per la decorazione a stucco di S. Giovanni Calibita (Borghini, 1982). Il programma iconografico del soffitto della basilica di S. Croce, per il quale S. Vasco Rocca (1985) ha ipotizzato una committenza diretta di Benedetto XIV, è incentrato sulla figura di Costantino con un preciso riferimento all'autorità istituzionale della Chiesa di Roma e alla Croce, simbolo del suo trionfo e della redenzione di tutta l'umanità.
Nel 1743 venne affidata al G. e a Sebastiano Conca la decorazione della cappella Ruffo in S. Lorenzo in Damaso; il G. affrescò nella volta Mosè che riceve le tavole della Legge e Quattro eroine bibliche nei pennacchi; mentre Conca eseguì la pala d'altare. Stilisticamente vicina all'affresco di S. Lorenzo in Damaso è la volta con La Religione e le Virtù cardinali dipinta dal G. in un ambiente dell'appartamento di Giacomo Borghese al secondo piano dell'omonimo palazzo, unico intervento noto del pittore in un palazzo romano.
Il 7 genn. 1745 il G. sposò in seconde nozze Gertrude Maggi. L'anno seguente tornò a lavorare nella chiesa di S. Nicola dei Lorenesi per la quale dipinse due tele raffiguranti S. Nicola salva i naufraghi (perduta: bozzetto nella Pinacoteca provinciale di Bari) e S. Nicola benedice i guerrieri.
Nei due decenni circa della sua permanenza a Roma il G. si dedicò anche alla realizzazione di una serie di pale d'altare destinate sia all'Italia sia all'estero, a dimostrazione di una fama d'artista ormai raggiunta e consolidata. Nel 1744 gli venne commissionata dal cardinale Giuseppe Spinelli una pala per la tribuna del duomo di Napoli raffigurante il Trasporto delle reliquie dei ss. Eutichete e Acuzio. Tra il 1744 e il 1747 eseguì per la cappella di S. Giovanni Battista nella chiesa di S. Rocco a Lisbona una Pentecoste (ora a Mafra, palazzo nazionale); contemporaneamente realizzò la pala per l'altare maggiore della chiesa di S. Corrado a Molfetta, raffigurante l'Assunta con i ss. Corrado, Nicola, Antonio da Padova, Pietro e Paolo e il vescovoFabrizio Antonio Salerni (la pala verrà spostata nella cattedrale nel 1785). Nel 1752 circa eseguì una Sacra Famiglia per il re di Spagna, Ferdinando VI, perduta, e l'anno successivo dipinse la tela con la Natività della Vergine per il duomo di Pisa; di quest'opera, in particolare, esistono vari bozzetti fra cui il più significativo è quello conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze. In queste opere, destinate all'esportazione, si può osservare una minore aderenza alla nuova tendenza classicista, caratterizzata da composizioni più solenni e severe, diffusasi a Roma intorno alla metà del secolo e alla quale anche il G. si avvicinò nelle pale dipinte per le chiese romane (Gabrielli, p. 50). Testimonianza precisa di questo orientamento sono la monumentale tela con l'Immacolata, dipinta tra il 1749 e il 1750 per la chiesa dei Ss. Apostoli; la pala con la Trinità, realizzata per l'altare maggiore della chiesa della Ss. Trinità degli Spagnoli, su commissione di Ferdinando VI; il Battesimo nella chiesa della Confraternita di S. Maria dell'Orto (1750).
L'adesione alla tematica classicista si riscontra anche negli affreschi realizzati per l'abside di S. Croce in Gerusalemme dove l'artista tornò a lavorare sette anni dopo il suo primo intervento. Commissionati dal cardinale titolare Gioacchino Besozzi e conclusi nel 1752, raffigurano Mosè che eleva il serpente di bronzo e Mosè che fa scaturire l'acqua dalla roccia, e costituiscono il naturale completamento di un programma iconografico unitario che aveva avuto inizio nei dipinti rinascimentali della calotta absidale. Va inoltre ricordato che nella collezione di Besozzi si trovavano almeno nove tele del G., tre delle quali erano sicuramente modelli per i dipinti di S. Croce (Guerrieri Borsoi, p. 61).
Nel gennaio del 1750 il G. firmò un contratto per dipingere la cupola e i pennacchi della cappella di S. Maria del Popolo nella cattedrale di Cesena con La genealogia e il trionfo della Vergine; sei bozzetti per tale decorazione (datati Roma 1749) sono in deposito presso il Museo nazionale della ceramica Duca di Martina di Napoli. Il G. soggiornò a Cesena una prima volta tra il novembre di questo anno e il febbraio dell'anno successivo, e una seconda nei mesi estivi del 1751.
Oltre agli affreschi "di grandissima vaghezza" del duomo, ammirati anche da F. Algarotti in una lettera a P.-J. Mariette del 10 giugno 1761 (Gori, p. 32), lontani dalla temperie classicista delle opere romane, il pittore eseguì per la città romagnola anche la pala con la Natività della Vergine con s. Manzio nella chiesa del Suffragio e quella, perduta, con i Ss. Elia, Alberto e Maria Maddalena de' Pazzi per la chiesa dei carmelitani scalzi.
Il 25 marzo 1753, si congedò dall'Accademia di S. Luca di Roma, istituzione dove dovette svolgere un ruolo di primo piano, durante il principato di F. Mancini (1750-51). Poco dopo, la sua candidatura prevalse su quella di F. De Mura e fu chiamato a Madrid a ricoprire il posto di pittore di corte che era stato di J. Amigoni. Durante il viaggio si fermò a Saragozza per visitare il suo vecchio allievo Antonio González Velázquez. Il 21 giugno arrivò a Madrid, accompagnato dalla moglie, dal fratello minore e dalla figlia Maria Vittoria. In agosto venne nominato "primer pintor de Cámara" e alla fine dell'anno direttore dell'Accademia di S. Fernando con il compito di sovrintendere a tutti i lavori in corso nel nuovo palazzo reale di Madrid.
All'inizio del suo soggiorno spagnolo il G. restaurò alcune opere di L. Giordano nel palazzo del Buen Retiro e sovraintese alla decorazione della chiesa e del convento delle salesiane di Madrid per le quali dipinse la tela con S. Giovanna di Chantal e s. Francesco di Sales (Gabrielli, p. 65 n. 158). Nel 1754 iniziò a lavorare per il castello di Aranjuez; si ricordano, in particolare tre tele con scene allegoriche e quattro con Storie di Giuseppe per la sala da pranzo. Queste ultime, con l'aggiunta di un ulteriore episodio raffigurante La cattura di Beniamino, furono riprodotte, tra il 1760 e il 1762, in una serie di arazzi eseguita dall'arazzeria reale, istituzione di cui il G. fu sovrintendente dal 1755 al 1759.
Al giugno del 1754 risale la commissione di maggior prestigio ricevuta dall'artista durante la sua permanenza in Spagna; si tratta dei dipinti eseguiti in diversi ambienti, e a varie riprese, nel nuovo palazzo reale di Madrid. Tra il febbraio e il settembre del 1755 affrescò la cupola della cappella reale con il Paradiso e quattro Santi nei pennacchi. Tali affreschi rappresentano una sorta di summa della sua produzione italiana, sintesi di molteplici esperienze, con particolare riferimento alle decorazioni realizzate per la chiesa dei Lorenesi e per la cupola della cappella della Madonna del Popolo nel duomo di Cesena. Il G. si occupò anche della decorazione delle volte dell'atrio d'entrata, in cui rappresentò la Battaglia di Clavijo, e delle due cappelle ai suoi lati con le Tre Virtù teologali e la Trinità. Negli anni compresi tra il 1759 e il 1762 eseguì i monumentali affreschi nella sala oggi detta delle Colonne raffiguranti il Trionfo del Sole e, nello scalone d'onore, la Monarchia spagnola che offre alla Religione i trofei delle sue vittorie e i prodotti delle sue terre; per tali ambienti disegnò anche la decorazione scultorea.
Del cospicuo numero di opere lasciate in Spagna dall'artista si ricordano anche la doppia serie di dipinti, di datazione incerta, destinati agli oratori del re Ferdinando VI e della regina Barbara di Braganza nel palazzo del Buen Retiro; per il primo dipinse sei tele con Episodi della Passione, una con la Ss. Trinità e una con Putti che reggono l'effigie di Cristo, oggi collocate in diversi musei (Urrea Fernández, pp. 133-136), per la seconda cinque tele con Episodi della Passione oggi nella Casita del principe all'Escorial; si rammentano inoltre le due versioni della Giustizia e la Pace oggi al Museo del Prado ma in origine una nel palazzo reale, l'altra nel salone della giunta dell'Accademia.
Per ragioni di salute, ma forse anche per l'arrivo di Giovan Battista Tiepolo e di Anton Raphael Mengs alla corte spagnola, promotore quest'ultimo di un profondo mutamento artistico e suo successore nelle cariche, il G., con il permesso del re, decise di lasciare la Spagna. Nel giugno del 1762 giunse a Napoli dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. La scelta di Napoli fu probabilmente condizionata dall'obbligo di rimanere in qualche maniera a disposizione della monarchia spagnola, visto che gli fu concessa una rendita vitalizia anche dopo il suo congedo definitivo avvenuto alla fine di questo stesso anno. A Napoli decorò gli ambienti, disegnati da L. Vanvitelli, della sagrestia della chiesa di S. Luigi di Palazzo con una serie di dipinti a fresco e su tela che forse non furono condotti a termine per la morte improvvisa dell'artista; dei primi non è rimasta traccia mentre le tele sono state disperse agli inizi dell'Ottocento e oggi si trovano in vari musei statunitensi (Spinosa, p. 148). Inoltre il G. partecipò insieme con altri pittori alla creazione di una serie di modelli pittorici per gli arazzi con Allegorie di Virtù destinati alla decorazione della camera da letto di Ferdinando IV nel palazzo reale di Napoli; di questi faceva molto probabilmente parte la tela con l'Allegoria della Fortezza e della Vigilanza, oggi nel palazzo reale di Caserta. Queste ultime opere uniscono al prezioso cromatismo delle opere spagnole una raffinata eleganza formale e una serrata monumentalità compositiva; inoltre esse appaiono di fondamentale importanza per la decorazione pittorica napoletana fino agli anni Ottanta del XVIII secolo, in particolare per artisti come Domenico Modo, Diano e Pietro Bardellino.
Il G. morì a Napoli il 18 apr. 1766.
In una lettera scritta dall'amico Luigi Vanvitelli un giorno dopo la morte dell'artista risulta che il G. doveva aver raggiunto una considerevole agiatezza economica poiché "stava per comprare un feudo con spesa di 80 mila ducati" (Strazzullo, 1977, p. 274).
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