Corradino (Curradino) di Svevia
Con la sua tragica vicenda umana C. rappresenta insieme la fine della casa sveva e la conclusione del mortale duello che la Chiesa aveva iniziato con Federico II per sganciare il regno di Sicilia dall'Impero.
Nacque il 25 marzo 1252 nel castello di Wolfstein in Baviera da Corrado IV di Hohenstaufen. Prima di morire (1254) questi, diffidando di Manfredi, aveva commesso l'ufficio di baiulo (reggente) del regno di Sicilia a Bertoldo di Hohenburg, affidando il figlioletto alla protezione del papa Innocenzo IV. Tuttavia, nel regno, trascurando gl'interessi di C., si erano formati due partiti, l'uno favorevole a Manfredi, l'altro fautore della costituzione di liberi comuni sotto l'alta sovranità pontificia. In tali circostanze, il papa pensò di assumere direttamente il governo del regno, e per quanto concerneva i diritti di C. si pronunciò ambiguamente (N. Iamsilla Cronaca, ediz. G. Del Re, in Cronisti e scrittori sincroni napoletani, II, Napoli 1868, 118). A questo punto, avendo Bertoldo deposto l'ufficio di baiulo, Manfredi assunse prima la reggenza del regno, ma poi si accordò col pontefice: rotto poco dopo l'accordo, si fece incoronare re a Palermo (1258). In seguito, la questione dei diritti di C. era stata posta a più riprese e in vari ambienti. Lo stesso re di Francia Luigi IX, per es., prima di permettere al fratello Carlo d'Angiò, nel 1263, di riprendere le trattative con Urbano IV per la sua candidatura al trono di Sicilia, aveva espressamente dichiarato che i diritti di C. non potevano essere ignorati. Ma già i guelfi di Firenze, dopo Montaperti, avevano pensato di rivolgersi a C., e perfino la Chiesa pensò per un momento a lui, come a un possibile rivale di Manfredi.
Dopo la battaglia di Benevento, sembrò finalmente giunta l'ora di C., appena quattordicenne ma d'intelligenza precoce e pienamente consapevole dei suoi diritti. Tutti i sostenitori della causa sveva, legittimisti, e coloro che erano stati i fautori di Manfredi, gli scontenti del governo di Carlo d'Angiò e i ghibellini d'Italia, si ritrovarono uniti intorno a Corradino. Esponenti del regno di Manfredi si recarono alla corte di C. in Baviera: secondo l'efficace espressione di Saba Malaspina (ediz. Del Re, cit., p. 261), essi andarono " in Alamanniam ad suscitandum catulum dormientem, et pullum aquilae, qui nondum aetate coeperat adulta pennescere ".
Nell'ottobre 1266, in una dieta tenuta ad Augusta, fu decisa, nonostante il parere contrario dello zio Ludovico di Baviera, la spedizione in Italia. Prima di lasciare la Germania (agosto 1267), C. indirizzava ai principi tedeschi un manifesto - dovuto certamente alla penna di Pietro di Prezze, un notaio che si era formato alla scuola di Pier delle Vigne - in cui esponeva i motivi della sua impresa. Polemizzando con l'atteggiamento dei papi contrario alla sua famiglia e a lui stesso, li poneva sullo stesso piano dello zio Manfredi, che non aveva esitato a conculcare i suoi diritti: " o sera cupido dominii temporalis, qua sacri pontifices et consanguinei leviter ad iniquam fallaciam se dant " (Chronicon Siciliae, in Rer. Ital. Script. X, col. 825); colpiva naturalmente anche Carlo d'Angiò " qui demum per omne nefas regnum ipsum obtinuit " (col. 826); invitava poi i principi a riflettere sul comportamento ambiguo dei pontefici: " Aperite oculos et videte qualiter isti sub specie recti mundum decipiunt et eludunt "; e concludeva che per combattere l'ingiustizia e affermare i suoi diritti non aveva altra via che quella delle armi.
Il 21 ottobre, accolto con grande favore da Mastino della Scala, C. giunse a Verona e vi restò per circa tre mesi, in attesa degli sviluppi diplomatici avviati con le città ghibelline e per far fronte alle difficoltà della spedizione, che si presentavano maggiori del previsto. Alcuni signori tedeschi, fra cui lo zio Ludovico di Baviera e Rodolfo d'Asburgo, abbandonarono l'impresa e ritornarono in Germania. Ma queste defezioni furono largamente compensate dall'appoggio dei signori e delle città ghibelline, che lo rifornirono di soldati e di denaro, e dall'inerzia o dal timore delle città guelfe, che non osarono opporglisi. Il 7 aprile 1268 arrivava a Pisa, dove lo raggiunse la scomunica papale; e il 24 luglio entrava a Roma: l'accoglienza del popolo romano, " naturaliter imperialis " secondo l'espressione di Saba Malaspina (ediz. Del Re, cit., p. 272), fu trionfale. Il 18 agosto l'esercito svevo, rinforzato da un contingente spagnolo del senatore di Castiglia e dai ghibellini di Toscana, mosse da Roma per l'antica Via Valeria, per iniziare l'invasione del regno dalla parte dell'Abruzzo. Lo scontro decisivo fra i due eserciti avvenne il 23 agosto presso Tagliacozzo e si risolse per l'esercito svevo, dapprima vittorioso, in un completo disastro. C., vistosi perduto, fuggì con 50 cavalieri alla volta di Roma, dove giunse il 28 agosto. Ma Guido di Montefeltro, vicario del senatore Enrico, non volle neppure riceverlo. Allora C. e i suoi decisero di raggiungere Pisa per mare: ma al largo del piccolo porto di Torre Astura furono raggiunti e catturati dagli uomini di Giovanni Frangipane. C. fu consegnato a Carlo d'Angiò, che lo fece rinchiudere nel Castel dell'Ovo a Napoli. Sottoposto a un processo, che lo stesso guelfo Saba Malaspina giudicò iniquo, in quanto si trattava di un prigioniero di guerra, fu condannato a morte e giustiziato il 29 ottobre 1268 in Campo Moricino, l'odierna Piazza del Mercato.
L'avvenimento, ricordato con accenti commossi da tutti i cronisti contemporanei, era ancora vivissimo al tempo di D. soprattutto negli ambienti antiangioini. Quando nel 1313 Enrico VII decise la spedizione punitiva contro il regno di Sicilia, nell'esercito dell'imperatore si parlava di vendicare C., " immo istriones ipsius in publicas reduxerant cantilenas ", come poi scriveva Roberto d'Angiò a Clemente V (Mon. Germ. Hist., Constitutiones IV II, 1364). Tuttavia C. non ha trovato largo spazio, né profonda risonanza nell'opera di D., specie se il suo ricordo, appena accennato, si mette a confronto col risalto dato alla figura di Manfredi. È un pallido ricordo quello di C., che è menzionato non tanto per sé, quanto perché la sua condanna capitale, con l'evocazione che poteva suscitare di un assassinio politico, mascherato di legalità, serviva al poeta come un esempio per sottolineare sarcasticamente, per bocca di Ugo Capeto, la mancanza di scrupoli nell'opera politica di Carlo d'Angiò: Carlo venne in Italia e, per ammenda, / vittima fe' di Curradino (Pg XX 67-68). Tutto qui. Nessun ricordo, per esempio, della polemica sulla responsabilità, sia pur indiretta, di Clemente IV (di cui è cenno anche in Villani VII 9), rilevata invece a proposito della sepoltura di Manfredi (Pg III 125); una responsabilità che però il papa certamente aveva, nel senso che abbandonò C. - che pur era stato catturato in territorio pontificio - nelle mani di Carlo d'Angiò, a cui lo cedette in certo modo come a braccio secolare, permettendone così la condanna capitale. Non è certo se Clemente IV abbia pronunciato la frase " Vita Conradini mors Caroli; vita Caroli mors Conradini ", ma quelle parole esprimevano con precisione la situazione politica, quale era percepita, nella tensione degli animi, dagli opposti partiti. Del resto, secondo l'autorevole testimonianza di Iacopo da Varagine (Chronica civitatis Ianuensis, ediz. G. Monleone, in Fonti della Storia d'Italia, LXXXV, Roma 1941, 391-392), il papa, fin da quando C., che già aveva sconfitto un distaccamento angioino in Toscana, marciava verso Roma tra il timore dei curiali e dei guelfi, aveva espresso con assoluta sicurezza la sua convinzione che l'impresa del giovinetto - paragonato a un agnello - era un cammino verso la morte: " cum vero omnes timerent dominus Clemens papa, dum apud Viterbium in ecclesia fratrum Predicatorum in festo Pentecostes solemniter celebraret... dixit publice coram nobis: ‛ Ne timeatis, quia scimus quod iste iuvenis a malis hominibus, sicut ovis, ducitur ad mortem, et tali scientia hoc scimus, qualis post articulos fidei maior non est ' ". Il papa era dunque politicamente ben consapevole, pur nella sua umana commiserazione per il giovinetto, che su C., ultima testa della " razza di vipere ", come veniva icasticamente definita la dinastia sveva, pendeva già, in caso di sconfitta, la sentenza capitale.
Bibl. - Fondamentale per C. è la monografia di K. Hampe, Geschichte Konradins von Hohenstaufen, Innsbruck 1894, ristampata a Lipsia nel 1942 con un ampio aggiornamento bibliografico a cura di H. Kämpfe. Un profilo della figura di C. si trova anche in opere di carattere generale. Ben centrato è quello tratteggiato da E. Jordan, L'Allemagne et l'Italie aux XIIe et XIIIe siècles, Parigi 1939, 370-393; e da E. Dupré Theseider, Roma dal Comune di popolo alla Signoria pontificia, Bologna 1952, 151-182; più brevi e meno impegnati quelli di S. Runciman, The Sicilian Vespers, Cambridge 1958, 96-116, e di E. Léonard, Gli Angioini di Napoli, Varese 1967, 68-80. Per il processo si veda G. Del Giudice, Il giudizio e la condanna di C., Napoli 1876; G.M. Monti, Il processo di C. di Svevia, in " Arch. Stor. Prov. Napoletane " LVI (1931) 200-212 (ristampato nel vol. Da Carlo I a Roberto d'Angiò, Trani 1936). Tra gli studi più recenti si veda specialmente R.M. Kloss, Petrus de Prece und Konradin, in " Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken " XXXIV (1954) 88-108; infine l'agile articolo di R. Manselli, C. di Svevia e Roma, in " Studi Romani " XVI (1968) 280-293.