Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante il Seicento il sistema corporativo, forma organizzativa fondamentale sia economica che politica della città medievale, conosce una crisi profonda. La diffusione dell’industria a domicilio e la preminenza del capitale mercantile privano le corporazioni della loro forza. Tuttavia in molte regioni le corporazioni rimangono vive e operanti, spesso anzi il sistema viene riorganizzato per iniziativa delle monarchie assolutistiche, a fini fiscali.
Le corporazioni tra economia e società
Lo storico del Medioevo Sabatino Lopez ha scritto che “la città è prima di tutto uno stato d’animo”, intendendo che in Europa l’essere una città non dipende solo dalla consistenza demografica, dalla presenza o meno di alcuni caratteri urbanistici come le mura, o dal fatto di esercitare certe funzioni politiche, religiose, economiche. La città esiste e si esprime anche attraverso alcune istituzioni, tra cui le più caratteristiche dell’esperienza urbana europea, eredità medievale ma ancora vitale nel Seicento, sono le corporazioni, dette anche arti o mestieri in Italia, gild e craft in Inghilterra, gremios in Spagna, zunft in Germania, métiers o arts in Francia.
Dal punto di vista economico e sociale, le corporazioni perseguono due fondamentali finalità: l’uguaglianza dei membri e il mantenimento di un livello di vita considerato tradizionalmente accettabile al loro interno e, verso l’esterno, il controllo monopolistico di un determinato settore. Per raggiungere il primo di questi obiettivi è necessario limitare la concorrenza interna restringendo il numero dei membri della corporazione stessa e imporre una rigida normativa al processo lavorativo. I regolamenti dell’arte quindi prescrivono minuziosamente le materie prime da impiegare, gli attrezzi consentiti e le tecniche appropriate. Lo scopo è anche quello di conservare sui mercati esterni il buon nome della produzione cittadina evitando che, per ridurre costi e prezzi, alcuni maestri mettano in vendita prodotti scadenti.
Inoltre, fatto importantissimo, si limita rigorosamente il numero di apprendisti e di garzoni che ciascun maestro può far lavorare. Per assicurare l’attuazione di queste norme, i capi della corporazione (priori, anziani, gonfalonieri) hanno un ampio potere giurisdizionale sui membri della corporazione stessa.
Verso l’esterno il monopolio viene mantenuto adottando una serie di misure protezionistiche che vanno dalla pura e semplice proibizione dell’importazione di prodotti provenienti da altre città all’imposizione di dazi. Inoltre le corporazioni cittadine talvolta impongono agli abitanti del contado il divieto di svolgere alcune attività artigianali nel territorio controllato dalla propria città, norma quest’ultima all’origine di una conflittualità endemica e spesso violenta con gli artigiani del contado. Naturalmente la possibilità di imporre misure di questo tipo dipende dal grado di influenza politica di cui dispone la corporazione e dai rapporti con le altre corporazioni mercantili o artigianali che operano nello stesso spazio economico e politico.
I conflitti fra corporazioni
Il conseguimento degli obiettivi corporativi implicherebbe, almeno in linea di principio, una suddivisione verticale del lavoro fra le corporazioni, in base alle diverse tipologie merceologiche, e non orizzontale, in base alle varie fasi del processo di produzione. Una singola corporazione dovrebbe controllare tutto il processo produttivo: dall’acquisto della materia prima alla vendita del prodotto finito al consumatore. In pratica questa condizione non si verifica quasi mai. Nella maggior parte dei settori, il processo produttivo è suddiviso in molte fasi che richiedono capacità e attrezzature diverse. Nel settore tessile, ad esempio, la filatura, la tessitura, la tintura e la finitura sono di competenza di figure diverse, organizzate, ma non sempre, in varie corporazioni.
La sovrapposizione di competenze e i contrasti di interesse fra i vari segmenti del mondo artigianale che ne conseguono sono all’origine della conflittualità endemica tra le corporazioni, aspetto che costituisce una delle preoccupazioni principali dei governi municipali. Queste tensioni sono anche all’origine di mutamenti nei rapporti di produzione che tendono verso il superamento del modello corporativo. In taluni casi questa evoluzione prende l’avvio all’interno di una corporazione, quando alcuni artigiani, più ricchi e intraprendenti, riescono a trasformarsi in mercanti-imprenditori, dando lavoro ai loro ex colleghi, che perdono così la propria autonomia. La corporazione diventa quindi una corporazione mercantile, mentre gli artigiani sono ridotti al ruolo di salariati. In altri casi una corporazione arriva a controllare l’intero processo di lavorazione di un determinato prodotto, perché si colloca in uno snodo strategico del processo produttivo. È il caso dei tessitori nell’industria cotoniera, che finiscono per assoggettare non solo le filatrici, non organizzate in corporazioni, ma anche i lavoratori che si occupano delle fasi preliminari o della finitura.
In altri situazioni ancora sono le corporazioni mercantili ad assumere il controllo dell’intero processo produttivo, grazie alla loro forza finanziaria e alla migliore conoscenza dei mercati di approvvigionamento della materia prima e di sbocco dei prodotti finiti. In generale, quanto più geograficamente remoti sono questi mercati e tanto più complessa è la filiera produttiva, tanto più debole è la posizione degli artigiani rispetto ai mercanti. In questo caso le corporazioni tendono a dipendere dai mercanti a esse estranei. L’industria della lana, ad esempio, è fin dal Medioevo dominata dai mercanti.
La protoindustria
Nel Seicento, comunque, il ruolo delle corporazioni urbane artigiane è seriamente messo in discussione soprattutto dalla diffusione del sistema della manifattura decentrata, che comporta la rilocalizzazione di molte attività nella campagna. È un processo lento, che non interessa nella stessa misura le varie regioni d’Europa e che è parte di una più generale ridefinizione del ruolo della città in Età moderna.
Il coinvolgimento di forza lavoro rurale nelle attività artigianali non è certo una novità dell’Età moderna. Fin dai suoi esordi medioevali, ad esempio, l’industria tessile aveva fatto ampio ricorso alle donne residenti nel contado per una delle fasi più importanti e time-consuming della filiera produttiva, ovvero la filatura. Nel corso del Cinquecento e soprattutto del Seicento, questa tendenza si accelera. I contadini sottoccupati durante lunghi periodi dell’anno trovano nelle occupazioni manifatturiere un modo per integrare il loro modesto reddito, e i mercanti beneficiano di una manodopera più economica e docile di quella urbana. È un fenomeno che rientra in quella che lo storico Jan de Vries ha definito la rivoluzione industriosa dell’Europa in età moderna, ovvero l’intensificazione dell’attività lavorativa legata alla maggiore monetarizzazione dell’economia e a un aumento del consumo di manufatti.
La manifattura rurale, o protoindustria, inasprisce ovviamente le tensioni sociali e politiche sia fra lavoratori urbani e rurali, sia all’interno della città. È infatti evidente che gli interessi delle corporazioni artigiane e di quelle dei mercanti sono in conflitto, così come quelli di diverse corporazioni artigiane. I tessitori, ad esempio, hanno interesse a poter disporre di filato a basso costo e quindi a incoraggiare la filatura rurale al di fuori degli ordinamenti corporativi, ma a loro volta difendono aspramente i propri privilegi e le proprie prerogative monopolistiche di fronte ai mercanti che danno filato da tessere agli artigiani nelle campagne.
Il parziale spostamento di molte attività manifatturiere proprio nelle campagne è stato anche considerato uno dei fattori che ha favorito il ribaltamento degli equilibri economici a vantaggio del nord Europa.
Le corporazioni nel Seicento: declino o trasformazione?
L’espansione dell’attività manifatturiera nelle campagne sotto il controllo del capitale mercantile è stata considerata uno dei sintomi più significativi della disarticolazione del sistema corporativo nel corso del Seicento. Una consolidata tradizione intellettuale ha visto fin dal Settecento nelle corporazioni e nelle loro pratiche protezionistiche e vincolistiche uno dei principali ostacoli al pieno e libero dispiegarsi dell’azione del mercato e quindi del progresso. In una prospettiva liberista, le corporazioni sono considerate organizzazioni che mirano esclusivamente a difendere rendite di posizione.
Questa convinzione sembra trovare una conferma nella costatazione che il declino delle corporazioni artigiane è più rapido nelle regioni economicamente più dinamiche. In Inghilterra le corporazioni mantengono ancora una larga influenza, ma si tratta ormai di corporazioni mercantili. In Olanda l’influenza delle corporazioni cessa praticamente già nel Cinquecento per essere sostituita da forme di organizzazione della produzione più elastiche e dominate dal capitale.
In certi Paesi, come la Francia o la Spagna si assiste invece a un consolidamento delle corporazioni, il cui numero aumenta. In questo caso però non si tratta di forme spontanee di organizzazione del lavoro, quanto di creazioni dall’alto, da parte delle monarchie assolute. Colbert, ad esempio, promuove la formazione di corporazioni su tutto il territorio francese secondo il modello di Parigi. Lo scopo delle monarchie assolutistiche è quello di controllare e, soprattutto, di tassare. Le corporazioni sono infatti collettivamente responsabili di fronte allo Stato. Anche nel Piemonte sabaudo, la tardiva costituzione dei corpi di mestiere è in stretto rapporto con il consolidamento dello Stato in senso assolutistico.
In Italia e in Germania sembra che le corporazioni urbane tradizionali abbiano dimostrato una maggiore resistenza. La storiografia ha anzi spesso individuato nel conservatorismo tecnologico e nel protezionismo corporativo una delle cause del declino economico di queste regioni. È una questione controversa. Non bisogna però dimenticare come anche in Italia, soprattutto nelle attività più prestigiose e redditizie – l’industria della lana e dei drappi di seta –, il mercante si trovi in posizione di privilegio: dal punto di vista politico, l’influenza delle corporazioni artigiane appare ormai quasi nulla.
La dimensione sociale e religiosa della corporazione
La dimensione propriamente economica delle corporazioni non è quindi separabile da quella politica e sociale. L’identità corporativo-professionale è una componente estremamente importante dell’identità sociale di un abitante non nobile e non ecclesiastico di una città europea del basso Medioevo e della prima Età moderna, anche se ciò non è vero per tutte le città. Il diritto di cittadinanza passa sostanzialmente per l’appartenenza a un arte. Nelle occasioni più solenni come la visita del sovrano, le corporazioni, con in testa il loro gonfalone, sfilano in un ordine rigorosamente definito a rappresentare, dopo clero e nobiltà, l’intera cittadinanza.
All’interno della città, la corporazione costituisce un polo identitario fondato sulla dimensione professionale – in parte alternativo e concorrenziale con quello della contrada e della vicinia – e sulla dimensione spaziale, ed entrambi sono in qualche modo sostitutivi della dimensione della parentela, più debole e incerta nelle città rispetto alle campagne. I legami d’affari e professionali sono comunque rafforzati dalle alleanze matrimoniali. L’endogamia corporativa è elevata e sposare la vedova o la figlia del maestro è spesso una soluzione ottimale: da una parte consente all’apprendista di accedere finalmente alla maestria, dall’altra, in mancanza di un erede maschio, assicura la perpetuazione della bottega e talvolta del nome.
Considerata la centralità della dimensione religiosa nella società di Antico Regime, la corporazione non può non avere un versante devozionale: esso si esprime nella confraternita, che in un certo senso sta alla corporazione proprio come la parrocchia sta alla contrada o alla vicinia. Gli appartenenti alla corporazione sono tenuti quindi a rispettare, oltre alle regolamentazioni economiche, tutta una serie di doveri religiosi e sociali che vanno dalla partecipazione collettiva alle cerimonie religiose, alla presenza ai matrimoni, ai battesimi e ai funerali dei confratelli, e a solennizzare collettivamente certi giorni festivi, come quelli dedicati al santo patrono della corporazione o della confraternita. Inoltre, sul confine tra religioso e sociale, ci sono gli obblighi caritativi di reciproca assistenza. I maestri malati o bisognosi e le loro vedove e orfani hanno diritto al sostegno attivo dei loro colleghi e confratelli.
Al di fuori del mondo corporativo
All’interno dei ceti popolari, uno spartiacque significativo è certamente quello che passa tra chi fa parte di una corporazione e chi ne è escluso. Alla prima categoria appartengono in primo luogo i maestri artigiani e secondariamente i loro apprendisti che, almeno in teoria, sono destinati a diventare a loro volta maestri. Una larga parte della popolazione lavoratrice, probabilmente la maggioranza, è però esclusa dai benefici del sistema corporativo. Tra costoro le donne che, salvo sporadiche eccezioni, vi rientrano solo come mogli o figlie dei maestri. Moltissimi sono anche gli uomini esterni alle istituzioni corporative: una folla eterogenea di manovali, servitori, avventizi e disoccupati, spesso di recente immigrazione dalle campagne.
Ma anche all’interno del mondo corporativo le diseguaglianze nel tempo si approfondiscono. Di fatto le speranze di apprendisti e garzoni di diventare un giorno a loro volta maestri sono destinate ad andare deluse. Sono sempre meno gli operai e i garzoni i quali al termine del loro periodo di apprendistato, che in taluni paesi come la Francia implicava un lungo periodo di vagabondaggio nelle diverse città del regno, riescono a farsi accettare come maestri. Anche le corporazioni artigiane diventano organizzazione elitarie di maestri e i loro dipendenti divengono in pratica dei salariati. Costoro quindi danno vita a organizzazioni autonome (compagnonnages) che incorrono nella condanna delle autorità e per questo assumono talvolta una fisionomia semiclandestina. Queste organizzazioni si contrappongono, talvolta violentemente, ai maestri, e il loro scopo, come quello di ogni organizzazione corporativa, è quello di controllare il mercato del lavoro. Anche fra le organizzazioni operaie tuttavia le contrapposizioni possono essere aspre. In Francia ad esempio, nei mestieri legati all’edilizia, i compagnonnages sono suddivisi in tre grandi unioni di dimensione nazionale fra loro rivali: Gavots, Bons Drilles e Dévorants. La rivalità tra questi gruppi, composti da giovani scapoli turbolenti, possono dar luogo a scontri anche cruenti che forniscono ulteriori ragioni o pretesti alle autorità per intervenire contro questo tipo di associazioni.
La plebe urbana
Nonostante l’immagine di ordine, stabilità, coesione e gerarchia che la città, come del resto la società di Antico Regime, intende dare di sé, la realtà è molto più complessa, mutevole e contraddittoria, e i confini fra i gruppi sono spesso incerti, contesi e negoziati.
Particolarmente difficile è definire e descrivere quella che viene talvolta definita plebe urbana, un termine con il quale si indica quella vasta parte della popolazione urbana che vive di artigianato e di piccolo commercio, distinta, da una parte, dagli strati superiori della borghesia (mercanti, medici, avvocati, magistrati ecc.) e dalla nobiltà, dall’altra, dal mondo fluido e variegato dei salariati, dei servitori o dei veri e propri miserabili.
Nel corso del Seicento, la mobilità sociale diminuisce. La frontiera superiore, quella che separa gli ordini privilegiati dalla massa della popolazione, si fa più netta e meno facilmente valicabile. Il confine verso il basso, quello che divide gli artigiani rispettabili dal popolino, diventa per contro più incerto e fluido. Il ruolo sempre più importante del mercante imprenditore, che impiega anche lavoranti delle campagne nell’organizzazione della produzione, la chiusura oligarchica dei governi cittadini e il protagonismo crescente dello Stato mutano il panorama sociale e politico delle città europee. Gli artigiani perdono da un lato la loro indipendenza economica, mentre dall’altro vedono svanire ogni margine di azione politica. L’evoluzione della corporazione da forma di auto-organizzazione artigiana a istituzione promossa e controllata dallo stato assoluto, ne è il segno. Proletarizzazione ed emarginazione politica sono due facce della stessa medaglia.
Le diverse categorie di lavoratori si trovano quindi sempre più a condividere la stessa condizione di precarietà. In condizioni normali, circa un quinto della popolazione delle città è considerato indigente, ma in momenti critici (guerra, carestia, pestilenza) molti artigiani, piccoli commercianti e salariati oltrepassano il limite, mal definito, della miseria. I più esposti sono naturalmente i lavoratori non qualificati, coloro che non hanno un mestiere fisso e che cercano ogni giorno di sbarcare il lunario offrendosi come manovali sulle piazze delle città. Costoro, in genere immigrati di recente, non dispongono neppure delle reti di solidarietà parentale, corporativa o di vicinato di cui si giovano altri strati del “popolo”. Anche gli artigiani, coloro il cui nome è seguito sui registri dei censimenti da una precisa qualifica (tessitore, ciabattino, fabbro) e che in molti casi su quelle reti di solidarietà possono contare, si trovano spesso a mal partito. Alle conseguenze catastrofiche delle crisi agricole tradizionali, che comportano fortissimi rincari degli alimenti, si aggiungono quelle delle crisi commerciali. In certi casi si tratta di crisi momentanee, in altri di un declino che porta alla scomparsa di intere attività industriali. Nelle città di Antico Regime un’occupazione regolare è un privilegio.