CORPORAZIONI e MESTIERI
Associazioni di persone praticanti lo stesso mestiere possono rinvenirsi sempre e ovunque, non solo nell'età medievale e nel mondo occidentale. Ne sono esempio le hetairéiai ateniesi dei tempi di Solone (sec. 6° a.C.), i collegia e i sodalitia della Roma repubblicana - noti solo nel momento della loro subordinazione a rigorosi controlli pubblici (lex Iulia, sec. 1° a.C.) - e anche le associazioni di mestiere che nel mondo musulmano ebbero una storia lunga, ricca, articolata e forse non esente da influssi provenienti da analoghe istituzioni bizantine.Furono i collegia romani, sopravvissuti alla lex Iulia oppure risorti a seguito di apposite, superiori autorizzazioni, che determinarono il quadro maturato in età dioclezianea e costantiniana, sotto la spinta della gravissima crisi che aveva investito il mondo romano a partire dal 3° secolo. Tale quadro è riflesso dal Codex Theodosianus (sec. 5°), ove è contemplata (XIV, 3ss.) l'esistenza di associazioni di persone che esercitano servizi di pubblica utilità, essenzialmente connessi all'approvvigionamento annonario di Roma e Costantinopoli. Si trattava di pistores, boarii, suarii, pecuarii e nautae, cioè di fornitori di pane e di carni di varie specie, nonché di trasportatori di grano e bestiame. Queste associazioni appaiono come corpi chiusi, ereditari, i cui componenti erano vincolati al servizio prestato e soggetti a una serie di pesanti obblighi solo in parte controbilanciati da alcuni privilegi a loro riconosciuti dallo Stato: il diritto appunto di avere un'organizzazione stabile e ufficializzata, la possibilità di disporre di proprie sostanze e di fare riferimento ai patroni che svolgevano un ruolo direttivo e protettivo nei confronti dell'associazione. Questo sistema organizzativo, che permetteva un saldo, seppure mediato, controllo pubblico su particolari forze produttive, diventò ferreo quando di lì a poco si estese ad attività che lo Stato si riservava di gestire direttamente (saline, miniere, fabbriche d'armi e di monete, laboratori per la tessitura di stoffe pregiate) tramite veri e propri funzionari pubblici alle cui dipendenze lavoravano schiavi affrancati o uomini liberi, legati al mestiere e in certi casi segnati con il ferro rovente. Tutto ciò esercitava influssi attrattivi anche sulle forze artigianali già libere, dedite ad attività assolutamente non indispensabili alla collettività e allo Stato.Da questa eredità tardoantica si svilupparono le c. bizantine. Per Costantinopoli si dispone di una documentazione di eccezionale interesse: il Libro degli Eparchi (fine sec. 9°), da cui si apprende che il più alto funzionario della capitale aveva, tra le altre competenze, l'incarico di sovraintendere a quelle c. (se ne ricordano ventidue), al di fuori delle quali non si poteva esercitare lavoro libero. L'attività dell'eparca nei confronti dei vari settori produttivi si esplicava non solo nominando i capi delle singole c. - che appaiono come pubblici ufficiali raccordati all'amministrazione centrale - e approvando le ammissioni di nuovi soci, ma anche fissando i luoghi in cui le varie attività potevano essere esercitate, i prezzi, i salari e l'utile ritenuto lecito per l'esercizio dell'attività mercantile.In Occidente la situazione era assai più complessa. Nella penisola italica la continuità dell'organizzazione romana dei collegia, anche in età gota e nella prima età bizantina, è universalmente accettata sulla base delle testimonianze tramandate da Cassiodoro e da Isidoro di Siviglia. Non si ebbe però un esito analogo a quello riscontrabile a Bisanzio, dal momento che l'invasione longobarda complicò il quadro interrompendo l'omogeneità precedente e dividendo di fatto la penisola in due ben distinte zone di influenza. Si può supporre un'evoluzione basata su una certa continuità di tradizioni nei territori rimasti in mano bizantina. Infatti negli scritti di Gregorio Magno si fa riferimento a un'associazione di saponai a Napoli e a una ars tinctorum a Roma. Successivamente (secc. 9°-11°) sempre su territori già bizantini si diffusero le scholae, ovvero le associazioni di persone esercitanti lo stesso mestiere (scholae portolanorum, calzolariorum, sandolariorum, calderariorum, piscatorum stagni a Roma e piscatorum, negotiatorum a Ravenna). Non si può certo parlare con sicurezza di ininterrotta continuità giacché le condizioni politiche, economiche e sociali erano andate lentamente mutando anche nei territori bizantini; non è noto per es. se anche le scholae fossero, come i collegia, globalmente soggette a pesanti vincoli. Certamente intorno al sec. 8° dovevano esistere, in alcuni dei territori in questione, associazioni di mestiere poste sotto il controllo pubblico, come documenta la Summa Perusina (Adnotationes constitutionum codicum domini Iustiniani, a cura di F. Patetta, Bullettino dell'Istituto di diritto romano 12, 1990); in seguito certe scholae passarono fino al sec. 12° sotto il diretto controllo della Camera pontificia.Meno lineare appare la situazione nell'Italia occupata dai Longobardi, anche se tuttavia non mancano alcuni riferimenti come le disposizioni dell'editto di Rotari (144-145; MGH. Font. iur. Germ., II, 1869, pp. 29-30), del 643, relative a quei magistri commacini che costituivano una ben precisa categoria di costruttori itineranti, imprenditori e operai, saldamente coesa per il bisogno connesso alla trasmissione e alla circolazione di complesse nozioni tecniche; o ancora i saponai piacentini, ricordati per essere stati obbligati nel sec. 8° a versare un contributo alla pubblica autorità. Nelle Honorantiae civitatis Papiae (7-14; MGH. SS, XXX, 2, 1934, pp. 1453-1456), del sec. 11°, ma riferentisi a situazioni caratterizzanti l'età ottoniana, vengono citati vari ministeria (mercanti, pescatori, cuoiai, barcaioli, saponai), tutti tenuti a versare particolari tributi alla Camera regia in cambio dell'esercizio monopolistico della propria attività.Le Honorantiae civitatis Papiae documentano l'esistenza di alcune associazioni professionali altomedievali, peraltro funzionali al rapporto intrattenuto con il fisco, anche nell'Italia già longobarda. È possibile che tali condizioni si siano verificate solo in città soggette più di altre all'amministrazione centrale (Pavia, Piacenza, Milano, Verona); sta di fatto che certe assonanze con la situazione riscontrata in area bizantina sono evidenti. Si può affermare dunque che esistono analogie laddove esiste un potere statale, o comunque un potere, in grado di stabilire rapporti, per lo più di natura tributaria, con alcuni settori della vita economica. Da questo punto di vista possono addirittura rientrare in gioco anche le analogie con la situazione tardoantica, creando alla fine una forte sensazione di continuità.Certi rapporti che persistevano o continuavano a riproporsi ancora in età ottoniana non poterono più funzionare, e quindi esistere nei termini originari, nel sec. 11° per l'avanzato processo di disgregazione dell'assetto statale e la progressiva dispersione dei diritti regi nelle mani di feudatari, conti, vescovi, visconti. La sparizione di una struttura amministrativa comportò di pari passo una disgregazione di quelle realtà associative funzionali a un rapporto con essa. Il processo dovette essere meno accentuato nel caso di professioni indispensabili alla vita urbana (annona, trasporti), neppure citate tra i mestieri pavesi fruitori di regalie, ma guardate sempre con interesse dai poteri cittadini. Lo dimostra indirettamente la più tarda documentazione di età comunale: a Bologna tali professioni si trovarono soggette a una magistratura che affondava le proprie radici nel passato longobardo, mentre a Piacenza, Verona e Pisa rimasero a lungo tradizionalmente soggette a poteri in via di superamento, che rimandavano comunque all'esercizio di un'autorità pubblica. Per i rimanenti mestieri questo momento di trapasso dovette costituire una fase di accentuato sperimentalismo; accanto a consolidate tradizioni si assisteva a un nuovo generale orientamento delle forze vive della società verso una pluralità di punti di riferimento, solo più avanti e con tempi diversi destinati a convergere entro le maglie delle istituzioni comunali. Fabbri, calzolai, lavoranti del settore tessile, cresciuti di importanza per il vivace sviluppo demografico ed economico urbano, sentirono il bisogno di organizzarsi autonomamente per difendere i propri interessi, ponendosi tutt'al più sotto la tutela morale del vescovo, da cui lentamente si andarono poi affrancando, e assumendo l'identità della confraternita religiosa. Tale esordio è confermato dalle vicende dei callegari di Ferrara (1112), ma anche dal fatto che nel periodo della loro maturità le c. mantennero alcune connotazioni: culto del santo patrono, obblighi devozionali e assistenziali, rispetto delle festività religiose, legami privilegiati con chiese ed enti ecclesiastici. Si trattava dunque di esperienze totalmente nuove rispetto al fenomeno associativo tardoantico. Vennero evidenziati i legami orizzontali, in perfetta sintonia con quello che accadeva in ogni settore della società e in luoghi diversi, per es. Gilden e Zünfte in zone escluse da tradizionali rapporti con il mondo romano, nell'Europa centrale e nordoccidentale.Le professioni legate ai bisogni annonari e ai trasporti, da sempre soggette all'autorità pubblica, non ebbero più la possibilità di organizzarsi in associazioni libere al pari degli altri mestieri. Anche i comuni le controllarono saldamente, con metodi opposti però a quelli messi in atto dallo Stato tardoantico: non si poteva consentire a chi esercitasse attività indispensabili alla sopravvivenza della collettività la pratica di un associazionismo che, sviluppatosi in assenza di un preciso apparato statale, era sinonimo di autonomia dai pubblici poteri, di solidarietà di classe, di capacità di gestire separatamente settori particolari dell'economia urbana.Per i mercanti infine le cose dovettero presentarsi in modo ancora diverso. Le loro associazioni nacquero infatti a imitazione del Comune e in piena sintonia con esso, tanto da acquisire subito funzioni di grande rilevanza non solo all'interno della vita economica della città, ma anche della sua organizzazione amministrativa (per es. Genova, Milano, Rouen, Bruges).Le associazioni artigiane e mercantili, che risposero a ben precise esigenze economiche, vennero chiamate con diversi nomi a seconda della zona: paratici, fraglie, arti, mestieri, università, società, collegi. Fondamentalmente il sistema corporativo risultò funzionale a realtà urbane di medie e piccole dimensioni, non certo a quelle dei grandi centri, che lo sviluppo di itinerari commerciali e di mezzi di trasporto proiettò in una dimensione internazionale; si trattava di realtà economiche caratterizzate dalle necessità interne della città e del territorio dipendente. In questo spazio ristretto le associazioni di mestiere riuscirono in qualche modo a regolamentare la produzione, sotto il profilo sia della qualità sia della quantità, e lo fecero redigendo minuziosi statuti che fissavano i prezzi, regolamentavano la concorrenza tra botteghe, imponevano sistemi di lavorazione, regolavano entità e retribuzioni della mano d'opera in un periodo di notevoli fluttuazioni demografiche. Tali norme potevano essere imposte grazie all'esercizio del potere giurisdizionale che le c. avevano su soci, i cui nomi erano registrati nelle matricole, e anche su clienti e acquirenti.Mutamenti economici e politici però influirono lentamente su queste realtà modificandole e consentendone la sopravvivenza. Tra Duecento e Trecento il tradizionale reclutamento basato sulla cooptazione dell'apprendista entrò in crisi. Vennero frapposti crescenti ostacoli al raggiungimento di una posizione imprenditoriale, garantendo invece sempre più i parenti dei capibottega. Anche per questo andarono emergendo nuove figure professionali, solo marginalmente collegate alla c., come obbedienti e salariati. Per altri aspetti il coinvolgimento delle c. nella tormentata vita politica comunale contribuì anch'esso a sminuire l'originaria finalità, il primitivo dinamismo economico e sociale. Sia la formazione del Comune di popolo, struttura che, a fianco del Commune maius, tendeva a qualificarsi come espressione degli interessi di mercanti e artigiani riuniti in c., sia l'emanazione di legislazioni antimagnatizie, che arrivarono a negare a Bologna e a Firenze i diritti politici ai non iscritti alle arti, garantirono a individui nuovi la partecipazione alla vita pubblica, ma nel contempo, radicalizzando lo scontro politico e sociale, contribuirono a sclerotizzare l'intero sistema corporativo e la vita delle singole associazioni. In certi casi si crearono i presupposti per una gerarchizzazione tra arti che, frazionando gli obiettivi politici dei ceti artigianali, facilitò l'affermazione dei regimi signorili, che segnarono la crisi delle istituzioni comunali e che parimenti attentarono fortemente all'autonomia della struttura corporativa. I signori infatti privarono le arti di ogni potere politico, ne limitarono l'attività normativa e giurisdizionale per renderle funzionali ai nuovi orientamenti sociopolitici.Queste tendenze, che stanno anche alla base dei tentativi degli stati principeschi di organizzare una politica economica a dimensione regionale e non più monocittadina, in qualche modo avvicinarono il sistema corporativo delle città italiane centrosettentrionali a quello delle zone in cui invece di ampie autonomie comunali si svilupparono saldi poteri statali (Francia, Inghilterra, Italia meridionale, penisola iberica). D'altra parte i nuovi orientamenti si possono cogliere con immediatezza in alcune espressioni della vita tardomedievale. A partire dal Trecento per es. si affermò un concetto di decoro urbano che, culminato poi nella trattatistica rinascimentale, guidò precise scelte orientate ad allontanare dal centro cittadino certe attività produttive o a favorire sempre più ordinate concentrazioni di mestieri affini in particolari zone o strade, come dimostrano tuttora i nomi di molte vie. Analogamente, quando l'intero corpo sociale si autorappresentava, celebrando in processione qualche festività civile o religiosa, doveva disporsi secondo rigidi criteri di precedenza, scanditi dal mutevole avvicendarsi dei gonfaloni e dei costumi delle varie corporazioni.
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Il rinnovamento economico dei secc. 11° e 12°, con il risveglio del commercio e il fiorire della città, promosse il sorgere di nuove classi: il lavoro si specializzò in mestieri, nacque una mobilità sociale che condusse ben presto a una trasformazione mentale e spirituale. La spiritualità del lavoro subì una vera e propria evoluzione attraverso la pratica: alla concezione del lavoro-penitenza si sostituì lentamente l'idea del lavoro come mezzo positivo di salvezza. Ma una tensione si avvertiva irreversibile: la pressione delle nuove categorie professionali (mercanti, artigiani), decise a trovare sul piano religioso la giustificazione della loro attività, l'affermazione della dignità e la certezza della salvezza mediante la propria professione. Si avviava a soluzione il problema del mestiere illecito, a ogni status si apriva la via della salvezza - risale al sec. 12° la prima canonizzazione di un mercante, Omobono di Cremona -, la prestazione di un lavoro divenne condizione necessaria perché un mestiere fosse lecito e un salario percepito a buon diritto. I manuali dei confessori confermano che ogni salario o beneficio è legittimo quando è percepito pro labore; il lavoro diviene dunque valore di riferimento. Nel sec. 12° Onorio Augustodunense (De animae exilio et patria, I; PL, CLXXII, col. 1243ss.) ricorda che esilio dell'uomo è l'ignoranza, sua patria la sapienza, cui si accede attraverso la scienza; ma questo itinerario spirituale può avvenire solo percorrendo le sette arti liberali, cui si aggiungono però la fisica, l'economia e la meccanica: i mestieri sono dunque passi sulla via della conoscenza.La prima definizione laica del tema del lavoro nel Medioevo italiano si coglie forse nella serie di rilievi dedicata agli artigiani scolpiti su alcuni pilastri cilindrici della cattedrale di Piacenza, della seconda metà del sec. 12° (Berti, 1975; Romanini, 1989). È qui possibile individuare un contesto destinato programmaticamente alla rappresentazione dell'immediato, del quotidiano: i sette rilievi infatti ricordano le c. o i singoli artigiani che finanziarono la costruzione dei pilastri della cattedrale: i cuoiai (cerdones), i mercanti di stoffe, i calzolai (cordoannerii), il fornaio, i conciatori di pelli, il carrozzaio, il tintore di tessuti. Il carattere rappresentativo dell'intera serie è dato dalla descrizione essenziale di un'operazione propria di ogni mestiere. Significativamente peraltro nella raffigurazione dedicata ai conciatori di pelli si esclude la presenza dei personaggi, per mettere in risalto lo strumento caratteristico di quella particolare specializzazione: una sorta di tenditoio sul quale è disposta una striscia di pelle. Il prevalere dello strumento rispetto all'azione è una scelta degna di nota, perché introduce un'idea di qualificazione sociale, intesa come specializzazione tecnica, e di capacità operativa che trova la sua rispondenza sul piano storico nella rivalutazione del lavoro artigianale propria della fase più avanzata del 12° secolo.Il carattere innovativo di questi rilievi non fu privo di ripercussioni. La ripresa immediata dei suggerimenti piacentini si registra probabilmente nella cattedrale di Lodi, dove nel 1170 ca. si realizzò un'analoga serie destinata a celebrare la committenza dei pilastri. Un deciso salto di significato rispetto agli esempi piacentini si individua nelle sculture realizzate agli angoli dei piedistalli delle due colonne erette nel 1172 per iniziativa dell'architetto Niccolò dei Barattieri, in piazzetta S. Marco a Venezia (Polacco, 1984; 1991). Qui le raffigurazioni dei fabbri, dei pescivendoli, forse dei cestai, dei vinai sotto la colonna c.d. Todaro e quelle dei fruttivendoli, dei macellai, dei mercanti di bestiame e di una quarta attività non più identificabile per il deterioramento subìto, muovono da formule compositive analoghe a quelle padane; eppure i rilievi si articolano in una sequenza ciclica che tende per la prima volta ad assegnare anche ai mestieri un valore temporale, valore ben diverso rispetto a quello dei Mesi, perché teso a esprimere uno svolgimento concomitante delle diverse azioni definendo nella sua globalità l'idea del lavoro sentito come interazione di differenti e specializzate componenti del corpo sociale. I rilievi vengono così a porsi come una premessa indispensabile per comprendere la genesi del ciclo, che fu realizzato nel 1240 ca. nella zona sottostante un'arcata esterna del portale di S. Marco. Si arriva qui finalmente a una sequenza continua di scene che, nell'esemplificare le varie attività artigianali caratteristiche nel loro insieme delle forme di lavoro tipiche dell'economia della città (pescatori, fabbri, falegnami e carpentieri, bottaio, barbiere e cavadenti, calzolai, muratori, lattaio, panettiere, macellaio, vinaio, artigiani del cantiere navale), si accoppia e si distingue dalla serie dei Mesi posta nella zona corrispondente dell'arcata intermedia.Vincenzo di Beauvais nella prefazione dello Speculum doctrinale (sec. 13°) precisa: "Ipsa restitutio sive restauratio per doctrinam efficitur" (I, 9; Venezia 1494, c. 2), intendendo con doctrina il lavoro che in ogni sua forma affranca dalle necessità della caduta, così come la scienza libera dall'ignoranza. Ecco dunque che la cattedrale, spazio per eccellenza in cui il pensiero del Medioevo assume una forma tangibile, glorifica di volta in volta il lavoro manuale e la scienza: a Bourges e a Chartres le vetrate ritraggono le diverse c. nello svolgimento della loro attività, e a Chartres in particolare sono rappresentati ben diciannove tipi di mestieri; nella cattedrale di Notre-Dame a Semur infine una vetrata rappresenta in più scene i dettagli della fabbricazione di un drappo (fine sec. 14°).Nello Speculum doctrinale di Vincenzo di Beauvais le arti meccaniche, i mestieri, accompagnano le scienze, come a Chartres e negli affreschi del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti a Siena (Palazzo Pubblico), dove si giunge a una delle più esplicite visualizzazioni del lavoro come fenomeno sociale. Le arti si corrispondono l'un l'altra nell'armonico perseguimento del bene comune, mentre la pace assicurata dal Buon Governo permette l'esplicitarsi delle fervide operosità cittadine e del contado, il loro continuo e reciproco contatto: "Senza paura ognuom franco camini e lavorando semini ciascuno" asserisce Securitas (Frugoni, 1983).La sostanziale dicotomia fra realismo e convenzione che è alla radice della rappresentazione medievale del lavoro si coglie in maniera conclusiva nel ciclo delle arti meccaniche nelle formelle esagonali del primo ordine del campanile di S. Maria del Fiore a Firenze (oggi gli originali sono nel Mus. dell'Opera di S. Maria del Fiore). Eseguito da Andrea Pisano su probabile schema giottesco (1340-1350), questo ciclo propone una visione del lavoro come strumento di redenzione dell'uomo. Alcune figurazioni, formulate sulla base delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia e codificate nelle scene del codice cassinese del De Universo di Rabano Mauro (Montecassino, Bibl. dell'abbazia, 132), passano, nel loro schema d'insieme, all'interno delle formelle, che pure si rivelano aggiornatissime nell'analisi realistica delle novità tecniche. Così per es. nella rappresentazione del lanificium, ossia dell'arte tessile, che svolse un ruolo primario nell'economia cittadina, il realismo strumentale è preciso nella presentazione aggiornata di un telaio a pedale, anche se lo schema compositivo non differisce dall'illustrazione del De gynecaeo, parte del De Universo di Rabano Mauro (Montecassino, Bibl. dell'abbazia, 132, p. 364). Gli aspetti tecnici dunque non vennero tralasciati, sebbene il processo produttivo fosse ancora sintetizzato secondo modi del tutto convenzionali.
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