Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il cinema è stato forse il luogo principale dell’elaborazione simbolica dello statuto dei corpi e dello spazio. Non solo per quel naturale straniamento che trasforma in paesaggio il corpo stesso, rivelato sullo schermo dalla macchina da presa secondo punti di vista e rapporti dimensionali inusitati nell’esperienza reale (l’"uomo visibile" cantato da Béla Balasz): nell’opera di molti registi e autori europei è la relazione stessa fra il soggetto e lo spazio della sua azione a divenire materia di racconto e di tensione, in grado di tradursi in ogni registro di discorso (comico, grottesco, lirico, drammatico) con una efficacia intraducibile in altri linguaggi.
Il corpo, icona e martire
La rappresentazione del corpo e del paesaggio è problema centrale per tutta la storia del cinema. Basti pensare alla scala dei piani presente nelle tradizionali grammatiche del cinema (primo piano, piano americano...), che ha funzione normativa in riferimento al corpo umano. La scala dei campi, invece, misura lo spazio. Corpo e paesaggio diventano perciò le coordinate attraverso cui il cinema si esprime. Il cinema americano, rispetto al quale ormai da un secolo il cinema europeo si contrappone e si forma come soggetto, ha costruito un modello antropomorfo della rappresentazione: il corpo e lo spazio, la figura umana e il paesaggio interagiscono secondo una prospettiva di tipo umanistico (se non addirittura rinascimentale, come si è sostenuto a proposito del confronto tra inquadratura filmica e pittura del Quattrocento). Il linguaggio classico ha dunque prodotto un’ideologia normalizzante dei rapporti tra corpo e sfondo, incrinata dai generi che apertamente ne mettono in crisi statuto e certezze, come l’horror o il noir.
Il cinema europeo, al contrario, sembra aver scelto una strada opposta, almeno in alcune fasi della sua storia. Inutile sottolineare il ruolo destabilizzante delle avanguardie degli anni Venti, che portano un attacco senza precedenti al corpo umano rappresentato dal cinema. Quello che il "corpo cinematografico" subisce è ben riassunto da Un chien andalou (1929) di Louis Buñuel e Salvador Dalì, dove il taglio dell’occhio viene montato in analogia con una nuvola che fende la luna: corpo e paesaggio, appunto, spazzati dai luoghi comuni romantici e impressionisti. Allo stesso modo, la scuola del montaggio sovietico interrompe la linearità della ripresa fotografica del corpo umano per sostituirla con giustapposizioni violente e contraddittorie del gesto e del particolare, soprattutto nel cinema di Ejzenstejn.
Le guerre e le dittature, naturalmente, giocano un ruolo importante in tal senso: si pensi ai corpi "mitizzati" dei dittatori nelle riprese documentarie – si è parlato di Benito Mussolini come vero, unico corpo divistico nel cinema italiano degli anni Trenta; o, più tragicamente, all’esperienza indicibile dei corpi delle vittime ebree ammassate nei lager. La rappresentabilità del corpo e della morte nella Shoah è tema di dibattito molto complesso, e mai realmente risolto. Resta probabilmente insuperato, in questo senso, il film documentario Notte e nebbia (1956) di Alain Resnais, dove l’assoluta autenticità delle immagini di repertorio, la qualità letteraria della costruzione e il rispetto nei confronti dell’irrappresentabile trovano un punto di equilibrio mai più raggiunto.
Il cinema europeo sembra inoltre aver affrontato, in opposizione al sistema divistico americano, la rappresentazione degli stati del corpo meno nobili. Il cinema italiano, in tal senso, possiede una tradizione, che definiremo del "corpo grottesco", assai importante. Basti pensare alle deformazioni carnevalesche del volto e del corpo della commedia all’italiana che, in alcuni casi, fa sua la tendenza all’eccesso comico della commedia dell’arte – Gassman, Sordi, Tognazzi – e in altri, invece, lascia volentieri spazio alla catastrofe del corpo: pensiamo a Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola, ai film di Ciprì e Maresco come Totò che visse due volte (1999) o al cinema di genere di Dario Argento come Profondo rosso (1975).
Anche il corpo delle dive assume grande importanza. In alcuni casi, la rappresentazione della figura femminile finisce col diventare proverbiale: Silvana Mangano in Riso amaro (1949) di Giuseppe de Santis erotizza il ruolo della mondina grazie a un modello corporeo (il fisico prorompente fasciato da vestiti umili) che mette in contraddizione l’aspetto del lavoro e della sottomissione con la dimensione passionale incarnata dal personaggio. Negli anni Cinquanta, poi, nel momento del boom economico, la salute fisica e il desiderio di svago sembrano esprimersi euforicamente attraverso le nuove dive: Gina Lollobrigida , nei panni della bersagliera in Pane, amore e fantasia, 1953, di Luigi Comencini o Sofia Loren in La bella mugnaia, 1955, di Mario Camerini in quelli della procace moglie di Marcello Mastroianni, impongono modelli di bellezza prosperosa e solare, in cui la tradizione paesaggistica italiana viene come ridotta all’essenziale e allo stereotipo per fare spazio all’aura della star. In fondo, rispetto al piano americano (equilibrato e centrale), il rapporto corpo/spazio nel cinema europeo sembra vivere di continue disarmonie, dove a prevalere alle volte è la rappresentazione umana e altre volte il paesaggio.
È nel cinema d’autore, tuttavia, che la rappresentazione del corpo trova una sorta di zona franca nella quale sperimentare. Per rimanere all’Italia, bisogna citare almeno Bernardo Bertolucci che, in Ultimo tango a Parigi (1972), esplora il decadimento del corpo divistico di Marlon Brando enfatizzandone gli aspetti meno gradevoli. Discorso a parte merita Marco Ferreri, che ha dedicato gran parte della sua opera a contestare l’eclisse del corpo nei discorsi artistici e sociali, a rivendicarne una presenza passionale e a volte distruttiva. Proprio ai rapporti pulsionali con il cibo e il sesso è dedicato il suo film più celebrato, La grande abbuffata (1973), dove un gruppo di amici si ritrova per mangiare e fare gozzoviglia sino al sopraggiungere della morte.
Il corpo erotico è un altro elemento di elezione per il cinema europeo. Molti autori degli anni Settanta, per esempio, hanno costruito una via raffinata al cinema erotico, non privo di accenni al sadismo o di riflessioni filosofiche, a cominciare dal terribile Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini, studio pressoché insostenibile sul fascismo come dominio e spoliazione dei corpi umani. Tra gli autori più noti del cinema erotico-filosofico, bisogna citare Walerian Borowczyk – i suoi Racconti immorali (1974), e La bestia (1975), tra gli altri –, il quale attraverso novelle e racconti letterari imposta una riflessione sulla sessualità capace di sovvertire le leggi della normalità borghese; Andrzej Zulawski con Possession (1981) e Le femme publique (1984) è interessato a una rappresentazione ossessiva e violenta dell’erotismo; Miklós Jancsó, con Vizi privati, pubbliche virtù (1975), imbastisce un richiamo alla sessualità come elemento di eversione dei valori dominanti. Il tratto che accomuna questi cineasti, oltre all’essere passati tutti attraverso inaccettabili forme di censura e in alcuni casi di sequestro, è la visione del sesso come elemento scatenante e primigenio, l’idea della rappresentazione erotica e scandalosa come ribellione naturale allo stato delle cose. La vicinanza col cinema pornografico è sottintesa, anche se i due circuiti rimangono decisamente distinti. Piuttosto, è la pornografia a essere nobilitata dai cineasti citati e a proporre rappresentazioni estreme in forma di provocazione, come accaduto anche recentemente con gli inserti hard nei film di Lars von Trier come Idioti (1998) o Leos Carax con Pola X (1999).
Lo spazio, estraneo e somigliante
Il paesaggio, a sua volta, è stato più volte oggetto di un trattamento anti-hollywoodiano. Secondo il filosofo Gilles Deleuze, il neorealismo italiano ha imposto un nuovo modo di vedere (che egli riassume nella formula delle situazioni "ottico-sonore pure"), dove la rappresentazione cinematografica è costretta in qualche modo a "reagire" di fronte alla modificazione fenomenica prodotta dalla guerra e all’azzeramento cui i crolli e le distruzioni hanno portato le città europee. Di qui il senso di una frattura epistemologica tra personaggio e sfondo e, in un certo senso, tra corpo e paesaggio, tra sguardo e oggetto. Più tardi, la progressiva interiorizzazione dello spazio esterno, tipica per esempio del nouveau roman francese o delle nuove teorie psicanalitiche, influenza il cinema. Pensiamo ai film di Michelangelo Antonioni, come L’avventura (1959), L’eclisse (1961) o Deserto rosso (1964), in cui l’infelicità e la nevrosi dei personaggi, come intuì Pasolini in un famoso saggio sul concetto di "soggettiva libera indiretta", giungono a corrodere il piano dello spazio e a caricarlo simbolicamente (per via stilistica) del disagio interiore. Ancora più chiaro, Blow Up (1966) racconta un giallo filosofico in cui un fotografo, credendo di riprendere l’aspetto esteriore di un parco, scopre nello sviluppare le pellicole un dettaglio macabro che lo trascina nel pericolo. Nel novero dei film sul corpo/paesaggio, la sequenza più importante è senza dubbio l’incipit di Hiroshima mon amour (1959) di Alain Resnais, dove la macchina da presa inquadra i corpi dei due amanti protagonisti come se fosse materia inanimata, quasi superfici coperte di lava e cenere, così da alludere al centro simbolico del film (la rimozione della bomba atomica). L’inconoscibilità del paesaggio è il tema di molti film di Wim Wenders, a partire dal più teorico, Alice nelle città (1973), dove un fotografo deve riportare a casa una bambina abbandonata dalla madre: tutto il film gioca intorno al tema del viaggio e alla fotografia come mezzo insufficiente per catturare l’esperienza della visione. Più radicali, i cineasti tedeschi Jean-Marie Straub e Daniel Huillet costruiscono un cinema fatto di inquadrature fisse e lunghi piani sequenza. In Dalla nube alla Resistenza (1978), essi adattano alcuni testi di Cesare Pavese facendoli recitare ai propri attori con distacco e antinaturalismo mentre la macchina da presa attraversa i paesaggi di Toscana e Langhe senza fare altro che registrarne la presenza muta e ossessiva. Ci troviamo di fronte alla vera e propria negazione dello spazio paesaggistico, confermata negli altri film e nel recente Sicilia! (2002). Altri autori moderni rielaborano il rapporto col paesaggio attraverso mediazioni metacinematografiche e tecniche, come nel caso di Peter Greenaway e del suo I misteri del giardino di Compton House (1982), dove a un disegnatore è affidato il compito di rappresentare la tenuta di un nobile attraverso 12 disegni, più veri del vero e proprio per questo fallibili e pericolosi. L’ultimo, grande paesaggio visto nel cinema europeo potrebbe dunque rivelarsi, con un po’ di immaginazione, lo schermo di un solo colore ideato da Derek Jarman per il suo Blue (1993): ipotesi affascinante di cinema senza corpi e senza spazi, dove però le varie gradazioni del blu, proiettate per circa 90 minuti, costituiscono un’esperienza limite per lo spettatore e un luogo affascinante in cui perdersi con gli occhi.