Vedi CORONA dell'anno: 1959 - 1973 - 1994
CORONA (corona)
L'argomento è di quelli che presentano diversissimi interessi secondo i punti di vista differenti e che pertanto hanno generato intorno a sé, in tutti i tempi, una vastissima letteratura; difficile è quindi lumeggiarne gli aspetti vari e, già nell'etimologia del termine, rintracciare la precisa origine o indicare i vocaboli di significato affine conciliando le opinioni differenti dei grammatici antichi e degli studiosi più recenti.
Se infatti è certa la derivazione del nostro termine dal latino classico corona, non altrettanto sicura è la derivazione di quest'ultimo, con significato improprio, dal vocabolo greco κορώνη = anello, o κορωνίς. I grammatici antichi peraltro lo collegano a χορός e chorus (Apione, presso Athen., xv, 680 d.; Festo, s. v. Corona) o a κράνος (Plat., Symp., viii, 726) oppure lo pongono in collegamento con στέϕανος, come Esichio allorché spiega con κύκλος στέϕανος il termine χορός. Certa è invece l'analogia del significato con i varî termini derivanti da στέϕω, circondo, e cioè στέϕος o στέμμα, στέϕανος o στεϕάνη (quest'ultima un ornamento frontale, sembra, piuttosto che una corona vera e propria). Analogamente vi è incertezza nel determinare il primitivo uso e pertanto l'origine delle stesse; se cioè esse siano state ispirate da fonte religiosa o se, piuttosto, sorte come espressione immediata di gioiosità, abbiano successivamente assunto significati varî entrando nelle molteplici manifestazioni della vita. Problemi questi evidentemente insolubili in quanto ci è impossibile risalire al primo spontaneo atto di piegare in cerchio un ramo naturale e distinguere quindi se questo avvenne per ornare se stessi o la divinità. È tuttavia chiaro, che, nata originariamente dall'intreccio di rami naturali, la c. entrò fin dalla più alta antichità nelle pratiche del culto come ornamento delle divinità, degli offerenti, degli stessi altari e delle vittime e che la parificazione dei morti ad esseri soprannaturali come gli eroi ne trasferì presto l'uso nei culti funerarî.
Analogamente il carattere sacro che l'oggetto venne ad assumere da tale destinazione originaria, ne fece segno di distinzione, onorificenza o premio, caratterizzò quindi, sotto forme diverse, i sacerdoti ed i sovrani, così come costituì, sin dal VI sec., prezioso premio nelle gare o più tardi, in età greca e più ancora in età romana, ambita ricompensa di azioni meritevoli, militari o civiche.
In una accezione immediata e più tenue di questo suo significato, la c. fu indizio di festosa gioia; divenne oggetto di semplice ornamento di ambienti o oggetti e soprattutto di persone. Diversità di significato e di destinazione che nello schema originario del ramo piegato a cerchio introdusse molteplici varietà di forme e di materia ora direttamente avvalendosi degli elementi di natura, rami flessibili o fiori e foglie sciolti artificialmente contesti ed intrecciati, ora traducendosi in materiale diverso, metallo o pietra, cui la destinazione differente, così come la diversa capacità artistica dell'esecutore, dette impronta e valore differente.
La storia della c. presenta tali varietà da richiedere una convenzionale sistemazione in gruppi, distinti secondo il loro uso. Un gruppo più notevole è pertanto quello che si ricollega ai culti religiosi o a riti funebri e già in Egitto serti di rami e fronde rinvenuti sul capo di mummie faraoniche della XX dinastia ce ne documentano l'uso; ciò nonostante la c. è però sconosciuta alle civiltà rispecchiate nei poemi omerici e legittima può apparire quindi l'affermazione di Tertulliano di una loro importazione nel mondo classico dall'Oriente. In Grecia, tuttavia, l'uso delle corone nelle cerimonie religiose rapidamente si generalizza e si precisa tanto che esse vengono foggiate con i rami delle piante sacre alle singole divinità; le corone d'olivo, quindi, appaiono sacre ad Atena, quelle di lauro ad Apollo, quelle di spighe a Demetra e di spighe e papaveri a Persefone. Anche in Roma tale specificazione si conserva e ci è noto che con corone di spighe si onoravano gli Arvali, mentre corone di frutta erano riservate al Bonus Eventus ed i sacerdoti di Bellona portavano corone di lauro con tre medaglioni inseriti nell'intreccio delle foglie.
Tali corone erano foggiate o di reali elementi naturali, o, specie nel caso di offerte alle divinità, di metalli preziosi - oro soprattutto - talora arricchiti di smalto e pietre dure. Ne troviamo ricordate, insieme alle più numerose c. di semplice oro, nelle liste epigrafiche degli ex voto alle divinità: gli inventarî del Partenone, ad esempio (C. I. A., ii, 645), menzionano una c. con pietre inserite: στέϕανος διάλιϑος ed una c. argentea è invece ricordata nell'inventario del tesoro dello Hekatompedon (A. Michaelis, Parthenon, p. 301, n. 63). Accanto a questa documentazione letteraria, relativa alle corone votive, resta la diretta documentazione delle corone scolpite nelle stele funerarie o sugli altari; superando la fragilità della materia si è evidentemente voluto eternare nella pietra l'offerta fatta alla divinità o al defunto.
Il secondo gruppo, funerario, delineato dalla destinazione particolare più che da reali differenze, ci è noto oltre che per le riproduzioni litiche cui già accennammo, soprattutto attraverso la pittura vascolare, con le sue non infrequenti scene di soggetto funebre, ed attraverso rinvenimenti; nelle necropoli della Crimea meridionale, così come nella necropoli ellenistica di Taranto ed in quella gallica di Montefortino, frequentemente, infatti, sono state rinvenute corone di foglie d'oro, chiuse in giro completo o foggiate a semicerchio per cingere il capo del defunto.
Non differenti da quelle analoghe del gruppo precedente in quanto alla materia ed alla forma, solitamente esse appaiono tuttavia più semplici, formate da brattee auree pieghevoli e sottili e risultano pertanto di così fragile fattura da far pensare che facciano parte di una particolare produzione destinata al culto dei morti, direttamente, senza che precedentemente fossero collegate alla vita del defunto. Anche di oro, ma più solide, furono evidentemente le corone del terzo gruppo, quelle, cioè, destinate come premi nelle gare liriche ed atletiche, e pertanto di fronde, di forma e valore stabilito per le singole competizioni. Dal punto di vista antiquario le corone agonistiche hanno però una propria storia e evoluzione in quanto costituirono in principio un premio simbolico, privo di valore intrinseco, e furono quindi di fogliame naturale (Aristoph., Plut., 586), più tardi, tradotte in oro, riunirono in sé l'uno e l'altro carattere, in un terzo tempo, infine, il termine c. indicò il premio in danaro destinato al vincitore.
Un gruppo a parte è costituito ancora dalle corone date come premio a cittadini benemeriti per ragioni varie, militari o civiche: gruppo in cui il carattere onorifico dell'oggetto, che può essere anche decretato a città, corporazioni, ecc., si fa predominante ed influisce talora anche sulla forma di esso. In uso già in età greca e soprattutto in età ellenistica, le corone di questa categoria si affermano e diffondono specialmente nel mondo romano che le suddivide in sottogruppi ben determinati. Distinguiamo così in età romana: 1) la c. civica, in elce o quercia; 2) il gruppo delle corone militari: la graminea o obsidionalis; la triumphalis o laurea, che, sotto forma più fastosa, divenne l'aurea triumphalis o etrusca; la c. ovalis o mirtea destinata a coloro che trionfavano sul monte Albano; l'oleaginea, propria di coloro che senza combattere collaboravano a conseguire una vittoria, ed infine le corone destinate a premiare l'atto di valore singolo, il balzo del primo milite all'attacco nelle varie armi, ossia: la muralis, la castrensis o vallaris, la classica o rostrata o navalis. Gruppo di corone, quest'ultime, che ormai hanno perduto la primitiva forma di rami o foglie intrecciate variamente e risultano invece composte di elementi varî che, in coincidenza col nome, ne accentuano il carattere commemorativo: i merli di un muro nella corona muralis, o i rostri delle navi in quella classica; forme composite ed astratte che nessun interesse presentano dal punto di vista estetico ed artistico.
In un'ultima categoria, infine, possiamo raggruppare le corone di forme e tipi varî che si ricollegano a particolari atti o manifestazioni della vita come segno di gioia o oggetto di ornamento, cui può talora aggiungersi un significato onorifico particolare; varie nella destinazione, esse, come è naturale, si differenziano anche per forma, materia e tipi. Ricordiamo solo, per precisarne la varietà, la c. aurea con pietre inserite che cinge un cratere argenteo nella "pompa" di Tolomeo Filadelfo (Athen., v, p. 199 c. d.); la c. in oro e pietre, simile a quelle delle divinità, di cui si cingeva Cesare in teatro (Cass. Dio, 44, 6); le corone radiate che contrassegnano gli imperatori sulla moneta romana a partire da Nerone in poi; le corone di foglie e fiori naturali, fra cui quelle di petali di rose (coronae sutiles), in uso nei banchetti, le loro modeste imitazioni fatte con frammenti di corno colorati e di sete variopinte, oppure di metallo dorato ed argentato; le corollae infine o coroncine per gli attori, di rame di Cipro che, trattato con fiele bovino, splendeva come oro.
Se però l'interesse antiquario appare prevalente nello studio delle corone antiche, di notevole importanza è il loro esame anche per quanto riguarda la struttura originaria e quindi le riproduzioni che l'antichità ne ha realizzato. Sui monumenti greci, infatti, e la più larga testimonianza ce ne è data dalle monete, le corone appaiono formate prevalentemente da due rami che, legati a un capo, si piegano poi in cerchio fino a congiungere all'altra estremità le loro cime; la c. è pertanto leggerissima e, per così dire, aperta, in quanto le foglioline terminali del ramo si incontrano, ma non si intrecciano.
Per quanto poi, specie in età ellenistica, i rami possano arricchirsi di fronde, fiori, o bacche, per quanto il fogliame possa ispessirsi e sovrapporsi acquistando movimento e corporeità, tale struttura elementare non viene superata. I due elementi fondamentali costituiti dai rami che si intrecciano ad una estremità per incurvarsi al capo opposto non vengono mai alterati, conservano la loro forma naturale perfettamente riconoscibile anche lì dove l'infittirsi delle foglie in una visione più barocca sembra occultarli a prima vista.
Molto differenti appaiono invece le corone etrusche; formate probabilmente da una ossatura di sostegno su cui vengono fissati gli elementi sciolti con una tecnica, in certo modo, affine a quella delle nostre corone funebri, le corone etrusche si presentano come un viluppo compatto di foglie e fiori, un cerchio chiuso ed eguale, visibile da ogni lato, intreccio spesso e innaturale di elementi visibilmente tenuti insieme da una benda che li attorce. È una concezione di massa pesante che si contrappone alla leggera rappresentazione greca del ramo flessibile.
Il mondo romano accoglie naturalmente l'uno e l'altro tipo, modificando tuttavia il secondo che sembra preferire. Spezza cioè la c. in un punto, pur senza profilarne eccessivamente i capi, e riduce le bende alle estremità dando loro funzione di chiusura e trasformandole in elemento decorativo importantissimo con lo svilupparle e ripiegarle variamente.
È evidente che, partendo da diversità strutturali così forti, molto differenti risultano anche le riproduzioni che ne conserviamo, già di per sé essenzialmente varie secondo la tecnica prescelta. Tralasciando, per la sommarietà con cui di solito le corone vi sono riprodotte, le rappresentazioni della pittura, vascolare o parietale, così come quelle fittili, interessanti per la struttura dell'elemento in sé (si vedano le corone al collo dei defunti sulle urne o sui sarcofagi etruschi), le due tecniche attraverso cui la raffigurazione delle corone realizza un maggiore interesse d'arte sono l'oreficeria e la scultura, avvicinando a quest'ultimo gruppo, per il loro carattere di rilievo plastico, anche le riproduzioni su monete.
L'oreficeria ci dà due tipi fondamentali: la c. vera e propria, circolare, che può essere esclusivamente di sottili foglie d'oro e quindi è presumibilmente di destinazione funeraria (c. di Canosa - v. brattea - al Museo Naz. di Napoli; c. di Montefortino al museo di Ancona) o può essere costituzionalmente più solida, sostenuta cioè, nei suoi elementi, da spessi fili aurei in funzione di rami e nervature, e, come concezione, più ricca. Mentre quindi l'effetto delle prime è lasciato al caldo colore aureo, che la flessibile varietà del fogliame spezza e lumeggia alternamente, le seconde rafforzano tale risultato con smalti colorati, di cui purtroppo è dato cogliere solo le risonanze attraverso i superstiti tocchi di alcuni toni di azzurro alternati ai verdi e ai rosso lacca (c. di Armento a Monaco e c. a diadema di Canosa e di Fasano: v. oreficerie).
Il secondo tipo ci è dato dalle corone destinate ad ornamento del capo, di cui abbiamo una larga documentazione tra i rinvenimenti diretti e le riproduzioni pittoriche o monetali. Esse si compongono di fogliame intagliato nella lamina aurea e fissato ad un elemento di sostegno che può essere un nastro flessibile talora della stessa lamina (v. brattea) o uno scheletro rigido (c. del museo di Taranto) reso flessibile da una cerniera frontale ed annodato dietro il capo con un nastro. Si possono distinguere due specie di corone di questo tipo: l'una preferita dalla oreficeria etrusca, l'altra dalla greca. Di esse, l'etrusca ama le corone a più fili di foglie sovrapposte l'una all'altra in altezza, ma prive di spessore: pur così appiattite, però, e monotonamente uguali nella loro simmetria, esse ci rispecchiano il concetto della c. artificiale attorta a cercine; le corone preferite dall'oreficeria greca, invece, che con tanta frequenza tornano ad ornare le teste, nelle monete, di divinità od imperatori, conservano il fresco sapore della natura e la flessibile vitalità del viticcio.
Ancora più interessante è la differenziazione che si delinea per le corone nelle rappresentazioni plastiche. Nel mondo greco l'elemento naturale predominante nella decorazione è la palmetta; la c. quindi non rientra per così dire fra gli elementi di repertorio anche perché, legata ad atti e cerimonie del culto o della vita, viene di solito offerta e pertanto applicata al monumento relativo (altare, porta di una casa, stele funebre, ecc.) nella sua forma naturale. Tuttavia non mancano i casi in cui per una esigenza di maggiore resistenza e continuità le corone vengono tradotte nella pietra. Esse però vi sono rappresentate a scarsissimo rilievo, sempre inferiore ad un centimetro, quando addirittura non risultino, per la depressione del fondo, nello stesso strato superficiale della pietra. Nel disco centrale risultante dalla curva dei due rami, o al di sotto, è di solito l'iscrizione: il nome del donatore e la causa dell'offerta nei monumenti di carattere privato, una abbreviazione del decreto che le accompagna in quelli di carattere pubblico. Interessante è anche la distribuzione delle corone, sempre affiancate, mai sovrapposte su quei monumenti in cui ve ne sia riprodotta più di una, così come ancora più interessante è la loro posizione eretta o pendula. Quest'ultimo dato infatti potrebbe forse dare elementi cronologici in quanto ci è possibile seguirlo attraverso serie monetali note; ad Atene, ad esempio, la c. eretta si inizia sui tetradracmi del 406-393, mentre è esclusiva su quelli del 220-197.
Ma per tornare alla forma della c. greca e alla sua realizzazione plastica, esempî interessanti ne troviamo riprodotti sul corpo di alcune stele attiche (ad esempio Conze, Die Attischen Grabreliefs, iii, tav. cclxxviii, n. 1321 e 22) o sul fregio di un gruppo di stele funerarie ioniche. Esse vi sono rappresentate in maniera analoga e non solo la struttura è quella già indicata, i due rami che si intrecciano a un capo per incontrarsi all'altro, ma anche interessante è l'esecuzione. Quasi ad accentuare la loro rappresentazione, così lineare e semplice, lo scultore le ha trattate con rilievo piatto ed eguale, risparmiandole nel piano di superficie e ribassando invece il fondo: gli elementi ne risultano anche più limpidi e come scanditi sul piano.
Nella scultura romana la c. assume una importanza ben diversa e una sua particolare storia. Anzitutto diventa elemento decorativo tipico di alcune categorie di monumenti, le are votive o funebri, di cui orna solitamente le facce secondarie o il campo frontonale del "coronamento". Nella sua costituzione tipica, a massa compatta con le bende che ne congiungono le estremità, essa si presta infatti particolarmente alla decorazione frontonale in quanto riempie acconciamente il centro del frontone mentre le vitte, disponendosi in nodi più o meno ricchi, ne decorano le ali. Ma se lo schema è comune, diversa ne è la trattazione plastica secondo le differenti età e gli artisti; da schemi più pesanti e trattati a massa si tende ad uno sciogliersi, per così dire, della c. stessa, ad un maggiore risalto dato agli elementi singoli con più forti contrasti di luci e d'ombre specie nei monumenti di età flavia. La storia dello sviluppo della c. in questo senso è ancora da scrivere, ma sono evidenti sin d'ora le possibilità che la concezione più ricca dell'elemento in sé e la sua maggiore pienezza plastica aprono all'artista. Da elemento strettamente decorativo, la c. assume quindi in taluni casi valore d'arte. Ricordiamo fra gli altri esempî un altare di Arles (Altmann, Die röm. Grabaltäre der Kaiserzeit, 1905, fig. 150) in cui la c. precisamente distaccata sullo sfondo, si scioglie nei suoi elementi (foglie di quercia e ghiande) variati e mossi, vibranti ognuno di vita propria, di una pregna potenza naturale cui fa contrasto lo stendersi delle bende, ricco e pomposo nella sua simmetrica decoratività. Diversamente è trattata la c. dell'altare votivo di Scipione Orfito datato dall'Altmann al 295 d. C.; nella analogia dello schema e del fogliame - quercia - profonda è la differenza della trattazione, perché in questo caso la c., ugualmente rilevata al centro, non si stacca netta dallo sfondo ma vi si adagia, aderendo al marmo con l'estremo filare di foglie, schiacciate e aperte, in un rilievo tenue che serve di trapasso nella forte differenziazione dei piani.
Diversa ancora e forse più vicina ad un modello greco è uno dei rari esempî di c. di spighe su un altare funerario di Annia Cassia a Perugia. Questa volta, infatti, la c., retta da due genietti alati, è del tutto libera nei suoi elementi, più che da un intreccio reale risulta dall'incrocio di due fasci di spighe che, slegati e liberi, si incurvano alle estremità mentre un nastro ne trattiene i capi.
Differente ancora è infine la c. del ben noto rilievo che adorna il portico della chiesa dei SS. Apostoli in Roma proveniente, forse, dal Foro di Traiano; sorretta dalle possenti ali di un'aquila che in essa posa e si protende, la c. è questa volta concepita nella sua plasticità reale. Più ancora che gli elementi singoli, differenziati ma coerenti nella massa, l'artista ha reso della c. la forma piena e la sostanza, pesante e morbida, rigida e tuttavia pieghevole nell'adattarsi agli altri elementi e alle esigenze del rilievo. Infine la c. si trova usata come originale motivo decorativo sul toro della colonna di Traiano e nelle colonne coclidi (v.) successive.
Bibl.: Forcellini, Lexicon, s. v.; Dict. Antiq., s. v.; Pauly-Wissowa, s. v. Kranz (suo uso in età greca) e corona (suo uso in età romana).
Per la tipologia artistica si veda per le corone greche: Anson, Numismata Graeca, IV, passim; per le oreficerie, L. Breglia, Catalogo delle oreficerie del Museo di Napoli, Roma 1941 con bibl. al n. 108 (c. di Canosa); G. Becatti, Oreficerie antiche, Roma 1955; per la scultura: Hussey, Greek Sculptured Crowns and Crown Inscriptions, in Amer. Journ. Arch., VI, 1890, pp. 69-88, T. XII-XIII, con bibl. Per l'età romana, oltre alle testimonianze monetali, per cui si rinvia allo spoglio dei principali cataloghi, fra cui quello del British Museum, v. per le serie imperiali: W. Altmann, Die römischen Grabaltäre der Kaiserzeit, Berlino 1905.
Per le corone etrusche: si vedano, in mancanza di lavori specifici, le opere di storia dell'arte generale: P. Ducati, Storia dell'Arte Etrusca, Firenze 1927, passim, e G. Q. Giglioli, L'Arte Etrusca, Milano 1935, passim.