CORONA (gr. στέϕανος o στρόϕος, donde antico latino stroppus; lat. corona; fr. couronne; sp. corona; ted. Kranz e Krone; ingl. crown)
Antichità. - Un ramo sottile, curvato e ripiegato su sé stesso, dovette già in età preistorica suggerire con la semplicità dell'operazione, la leggerezza della materia, la grazia della forma, il primo naturale ornamento del capo. Tale ornamento valse però in primo luogo come un attributo della maestà divina nel culto antropomorfo; e ciò in omaggio al carattere sacro che nelle religioni antiche l'albero riveste così nel suo insieme come nelle sue parti componenti (rami e foglie). Conseguentemente l'attributo sacro della corona passò di diritto a quei personaggi mortali che più apparivano in rapporto con la divinità: vale a dire sacerdoti e sovrani. All'umile ramoscello ricurvo, di effimera durata, si sostituisce così, con la pratica della lavorazione dei metalli, la verga o lamina d'oro o d'argento, variamente lavorata e ricca di ornamenti preziosi, non escluse le gemme. L'attributo della semplice corona floreale, nel mondo classico, è proprio di tutte le persone le quali si trovano in certo modo sotto la grazia divina, sia che se ne fregi il sacerdote nell'esercizio del culto, sia che venga conferita in premio ai vincitori nei giuochi o ai valorosi in guerra, sia infine che appaia nei simposî, nelle feste nuziali, nelle cerimonie funebri.
Le corone nel culto. - Serti intessuti di semplici rami e di fronde si sono rinvenuti in Egitto come ornamenti del capo di mummie faraoniche risalenti alla XX dinastia (2000 circa a. C.). Gli eroi d'Omero, però, non conoscono ancora le corone e il loro uso. Si deve tuttavia all'influsso orientale, come accenna Tertulliano (De cor., 7), se, ancora in età arcaica, divinità ed eroi del mondo greco si adornano della corona in modelli di apparenza vegetale o metallica.
Ad epoca abbastanza remota risale infatti la famigliarità che i Greci ebbero con le corone vegetali, le quali venivano recate come simboli di culto in omaggio alla divinità. Un passo di Saffo ammonisce che gli dei volgono le spalle a coloro che si presentano ad essi senza corone. Solone, nelle sue leggi, contemplava i casi nei quali era vietato a un cittadino di portare la corona, per ragioni d'indegnità.
A ciascuna divinità dell'Olimpo greco spettano corone fatte dei rami di una determinata pianta, consacrata particolarmente a quella divinità. Così a Dioniso (Bacco) spetta la vite coi suoi grappoli, a Zeus la quercia, ad Apollo il lauro, ad Afrodite il mirto, ad Atena l'olivo, a Demetra spighe, narcisi, papaveri, a Hera e a Persefone il melograno. Di corone della stessa natura si adornavano i sacerdoti, le vittime, gli altari dei sacrifici. Ippolito è presentato da Euripide, nella tragedia omonima, come στεϕανηϕόρος ("cinto di corona") in rapporto al culto di Artemide. Alle divinità nei santuarî, poi, erano spesso offerte, oltre che semplici corone floreali, artistiche e costose riproduzioni di quelle, fatte d'oro e d'argento. Nelle liste epigrafiche degli ex-voto compilate negli stessi santuarî greci, ricorre frequente la citazione di corone preziose, di metallo. Ciò specialmente per i santuarî dell'acropoli di Atene, e per quello apollineo di Delo.
La parificazione dei morti a esseri soprannaturali, semidivini, come gli eroi, fa sì che nelle necropoli greche, come nelle necropoli etrusche, si rinvengano esemplari di corone d'oro e d'argento, perfette imitazioni di modelli naturali, talora di particolare pregio artistico. Un contenuto sacro è da riconoscere pure, come s'è detto, alle corone concesse ai vincitori nei giochi nazionali greci.
Le corone nei giochi e nelle gare poetiche. - Pare che l'uso delle corone di foglie, quale simbolica ricompensa ai vincitori dei grandi giochi ellenici, risalga al sec. VI: la corona d'olivo si dava nelle feste panatenee e nei giochi olimpici; nei ludi pitici dalla corona di quercia si passò a quella d'alloro, poi a una di frutti; così anche negli agoni istmici all'appio fu sostituito poi il pino del vicino boschetto sacro a Nettuno; l'appio invece fu adottato nelle feste nemee. Il pregio di queste corone stava solitamente nella sacra solennità del conferimento e nel grande onore che ne veniva all'eroe e alla sua città, tanto più quando il suo valore era esaltato negli epinici dei poeti.
Anche nelle gare drammatiche e liriche di Atene poeti, musici e attori ricevevano corone di lauro, che più tardi si mutarono in corone d'oro. In un'iscrizione attica si vedono riprodotte ben sedici corone guadagnate dalla stessa persona, tra le quali una di edera per i ditirambi nelle feste lenee.
In epoca imperiale s'imitarono a Roma i ludi ellenici e corone donaticae si vincevano nell'agone albano, nelle gare degli Arvali, nelle feste augustali di Napoli.
Le corone civiche e militari. - Per meriti politici sia in Grecia sia a Roma l'onorificenza pubblica della corona fu dapprima assai rara: a Sparta ne furono insigniti Temistocle ed Euribiade, in Atene Pericle, Trasibulo e pochi altri; ma più tardi se ne decretarono a magistrati, ad ambasciatori, a cittadini che avessero bene meritato della patria o soltanto che avessero dato prova di speciale zelo nell'adempimento delle consuete liturgie (v.).
Particolarmente notevole a questo riguardo il caso delle corone assegnate come premio a quei trierarchi i quali per i primi avessero armate le loro navi. È nota la disputa politica che si svolse ad Atene in seguito alla proposta del conferimento di una corona a Demostene dopo la battaglia di Cheronea. L'onore della corona oltreché a singoli cittadini poteva essere fatto a città e a corporazioni, e nel periodo ellenistico e in quello greco-romano l'uso se ne moltiplicò sino all'inverosimile, talché numerosissime sono le iscrizioni che ne fanno menzione; le benemerenze ricordate nei considerando diventano le più svariate, e le motivazioni diventano sempre più verbose e ampollose. Alcune di queste corone, che si vedono raffigurate in bassorilievi, in monete, in musaici, gemme e vetri, non potevano per la loro grandezza essere portate dal titolare, ma erano destinate a essere da lui deposte come dono votivo in qualche santuario.
Tra le decorazioni militari romane le corone erano le più pregiate, con una gradazione di valore rigorosamente fissata. La più alta onorificenza era la corona graminea o ossidionale per chi avesse liberato un esercito dal pericolo o una città dall'assedio. Veniva poi la corona trionfale o laurea, in origine l'unico premio del trionfatore e dei suoi soldati, conferita dal Senato. Cesare fu il primo a godere il privilegio di portarla stabilmente, il secondo fu Augusto e dopo di lui tutti gl'imperatori. A questa si aggiungeva la corona aurea trionfale, detta anche etrusca, che era una grande corona d'oro e di pietre preziose, la quale durante il trionfo era tenuta da uno schiavo sopra ll capo del trionfatore. Simile a questa corona è la corona radiata che da Nerone gl'imperatori, a imitazione dei diadochi, portano sulle monete di bronzo, da Caracalla sulle argentee. La corona ovalis o murtea, di mirto, era per chi avesse avuto la sola ovazione o il piccolo trionfo sul Monte Albano; la corona oleaginea, d'olivo, per gli equiti e per gli assistenti al trionfo. Di pari grado alla trionfale era la corona civica, di leccio, ischio o quercia, con la quale il generale in cospetto dell'esercito decorava solennemente chi nel campo aveva salvato la vita a un cittadino. La ebbe Cicerone, il liberatore di Roma dalla congiura catilinaria; la ebbe Augusto e la riprodusse nelle sue monete senatorie col motto ob civis servatos. Di grande nobiltà fu pure la corona classica ossia navale o rostrata che anticamente era conferita a chi primo saltava a bordo d'una nave nemica: fu data a Marco Varrone dopo la guerra dei pirati e a M. Vipsanio Agrippa dopo la vittoria su Sesto Pompeo. Pure d'oro, ma inferiori di grado, erano la corona muralis data a chi per primo scalava le mura nemiche, la corona castrensis o vallaris che premiava il primo che fosse entrato nell'accampamento nemico. Venivano infine le corone gemmate o auree, semplici ricompense al valor militare. A un soldato romano, che, perché cristiano, aveva rifiutato una di queste corone, Tertulliano indirizzò il suo De corona militis esortando il milite a persistere nel suo proposito e a preferire, a ogni altra, la corona del martirio.
Corone funerarie. - Una categoria interessante è quella delle corone funerarie. Il significato religioso di queste corone è l'eroizzazione del defunto, come si palesa chiaramente nelle figurazioni dei vasi italioti e nelle descrizioni letterarie di celebri funerali. Esse sono d'alloro, di olivo, di mirto, ma più frequentemente di appio. Ma le corone che si mettevano sul capo del morto durante l'esposizione del cadavere e si deponevano poi nella tomba erano solitamente d'oro: se ne conoscono dal Piceno, dall'Italia meridionale e dalla Crimea.
Il grande uso delle corone fece sì che la fabbricazione ne fosse affidata a un'industria assai redditizia, quella dei fiorai e, principalmente, delle fioraie, che i Romani chiamavano coronariae. Accanto alle corone di foglie e di fiori freschi si usavano quelle di amaranto secco, il quale, inumidito, ridava alla pianta l'apparenza di freschezza; accanto alle corone d'oro o di lamina di rame dorato o argentato si vendevano le corollae; ossia coroncine per gli attori, fatte d'una specie di rame di Cipro che, laminato e patinato con fiele bovino, splendeva come l'oro vero; infine si apprestavano corone artificiali di trucioli di corno dipinti in varî colori, dette corone egizie o invernali.
Bibl.: E. Egger e E. Fournier, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiq., I, ii, p. 1520 segg.; Haebler, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, coll. 1636-1643; I. Santinelli, in De Ruggiero, Diz. epigr. di ant. rom., II, p. 1226 segg.; P. Stengel, Die griech. Kultusaltertümer, Monaco 1920, p. 108 segg. e passim; S. Eitrem, Opferritus und Voropfer der Griechen und Römer, Cristiania 1915, p. 66 segg.; W. H. D. Rouse, Greek votive offerings, Cambridge 1902, p. 266 segg.; F. Kromayer e F. Weith, Heerwesen der Griechen u. Römer, Monaco 1928, pagina 283 segg.; J. Marquardt, Röm. Staatsverwaltung, Lipsia 1881-84, 2ª ed., II, p. 576 segg.; Dressel, in Zeitschr. f. Numism., XXIV (1904), p. 35 segg.; J. Bankó, in Jahresb. d. österr. archaeol. Inst., XXV (1929), p. 121 segg.
Medioevo. - Dai serti di alloro o di fiori misti a fronde usati dagli antichi, vennero prese dai cristiani nei primi secoli dell'era volgare le loro corone. Le vediamo nelle catacombe o nei musaici di Roma o di Ravenna portate sulle mani velate da santi o da devoti come offerte a Dio; sotto l'influenza dell'arte bizantina, sono tutte coperte da grosse gemme, smalti o pezzi di vetro: e forze in principio vollero imitare con l'oreficeria il serto di fronde, come sembra nei musaici di S. Apollinare nuovo a Ravenna (sec. VI). Poi si preferì la corona puramente gemmata, con orli di perle e in mezzo larghe zone tonde o quadrangolari di prezioso colore (così il ritratto di Giustiniano nel musaico di S. Vitale, a Ravenna, della prima metà del sec. VI; e fin nel XIII le Madonne coronate, p. es., nella cripta di Anagni). L'oreficeria barbarica applicò alle corone la sua tecnica di trafori e d'incastro di vetri (v. barbarica, arte). Ma è incerto se la corona detta di Teodolinda (sec. VII) nel duomo di Monza sia barbarica o se non piuttosto di derivazione orientale, per corrispondenze con opere bizantine. Un monumento ben più importante, nella stessa chiesa, è la famosa corona ferrea (v. sotto). Famose anche le corone trovate (1858) alla Fuente de Guarrazar presso Toledo, in una chiesa già dedicata alla Vergine. Non solo hanno una forma particolare perché tenute sospese giro giro da catene e ornate in basso da pendenti e da una grande croce preziosa, ma sono anche ben databili: due infatti hanno appese lettere componenti i nomi di due re goti: Svintila (621-663; Armeria di Madrid e Recesvinto (649-672; Musée de Cluny, Parigi). Probabilmente eseguite in Spagna, sotto influenze varie, costituivano degli ex-voto poiché solo alcune di esse per forma o dimensione possono essere state portate. Del resto tale uso di offrire corone alle chiese era comune. Erano spesso in forma di corone (e così chiamati) anche i lampadarî sospesi dinnanzi agli altari: gli esempî più belli sono in Germania, come quelli bronzei della cattedrale di Hildesheim (sec. XI), in forme complicate e figuranti la Gerusalemme celeste, e quello di Aquisgrana, d'aspetto simile, donato alla chiesa da Federico Barbarossa (verso il 1165-70, secondo il Molinier), opera dell'artista Wiberto.
Di un'altra corona importante per lavoro e per epoca non si conserva che una serie di placchette con smalti e figure: trovata (1861) in Ungheria e ora a Budapest (museo), porta i nomi di Costantino Monomaco (1042-1054), dell'imperatrice Zoe e di sua sorella Teodora ed è quindi - come l'altra corona nello stesso museo, detta di "S. Stefano", con smalti e figure tra cui quella di Michele Ducas (1071-78), composta di frammenti di vario tempo - un'opera bizantina. Corone formate da placche rettangolari o a centina, smaltate o gemmate, sono del resto visibili in varî monumenti, come per esempio nel musaico con Cristo che incorona re Ruggiero a Palermo (Martorana; sec. XII) o nella figura di Guglielmo II che offre il duomo di Monreale alla Vergine (sec. XII). Anche la corona detta falsamente "di Carlo Magno", a ogni modo quella che serviva alla consacrazione imperiale (Vienna, Schatzkammer), è composta di placche d'oro arrotondate superiormente, alcune con zaffiri, smeraldi o rubini circondati da lavoro di filigrana, e altre a smalti con figure sacre: ha due placche opposte di dimensioni maggiori e collegate fra di loro da una specie di cresta; lo stile, che non s'inquadra con l'arte germanica e può far supporre un lavoro siculo-bizantino, riporta al sec. XI, indicando quindi Corrado II, incoronato nel 1027, come l'imperatore Corrado ivi rammentato.
La corona, simbolo di maestà e potere, data non solo ai sovrani della terra, ma anche a quelli del cielo, a poco a poco fu estesa a ogni genere di persone: le corone nobiliari però non furono distinte secondo il grado che nel Cinquecento (v. araldica, III, p. 935 segg.).
Nel sec. XII vediamo innestarsi sulle corone larghi fogliami, come p. es. in quelle portate dal Salomone e dalla Regina di Saba dell'Antelami sul Battistero di Parma. Nel sec. XIII, in Francia si fecero corone a fastosi fioroni gotici; l'Italia produsse invece un esemplare legato ancora strettamente all'arte orientale, cioè la tiara di Costanza, moglie di Federico II (duomo di Palermo), probabile lavoro siciliano, formata dal cerchio gemmato riunito in alto da quattro strisce incrociate e posate su una calotta di finissimo lavoro a perle e filigrana; ai lati del volto due grandi pendenti a triangolo. Più spesso la corona era allora ridotta in Italia a un semplice cerchio slargantesi a triangolo sulla fronte: o aveva una serie di punte torno torno. Nel Trecento divenne comune l'uso di corone che erano più propriamente diademi o ghirlande, ben distinte dalla corona reale; e persistette poi sempre.
Allora nella corona vera e propria, per lo più a segmenti articolati, s'innestano fogliami gotici a larghe volute che a poco a poco in Francia si trasformano nei gigli della casa regnante. Poi le corone furono foggiate variamente secondo il mutare del gusto. Ma poche ne esistono ormai: si possono ricordare fra le altre quella degli Asburgo (Vienna, Schatzkammer) fatta per Rodolfo II da David Altenstetter e finita nel 1602, fastosa per lavoro di cesello e di gemme; quella servita per Napoleone, del Nitot, oggi al Louvre; la corona usata dalla regina Vittoria nel 1838, e quella portata dal re Giorgio V d'Inghilterra nel 1911 per l'incoronazione al durbar di Delhi, ambedue nella Torre di Londra.
Bibl.: J. P. Migne, Dict. de l'orfèvrerie chrétienne, Parigi 1857; F. Bock, Kleinodien, ecc., Vienna 1864; H. Delaborde, Glossaire français du Moyen Âge, Parigi 1872; E. Viollet-le-Duc, Dict. du mobilier français, Parigi 1874, III, p. 307 segg.; R. L. Lasteyrie, Hist. de l'orfèvrerie, Parigi 1875; A. Darcel, Notice des émaux et de l'orfèvrerie (Louvre), Parigi 1883; V. Gay, Glossaire archéologique, I, Parigi 1887; E. Fontenay, Les bijoux anciens et modernes, Parigi 1887; G. Bapst, Hist. des joyaux de la couronne de France, Parigi 1889; La Collection Spitzer, Parigi 1891, III, p. 127 segg.; N. Kondakoff, Hist. et monuments des émaux byzantins, Francoforte 1892; R. Milès, La bijouterie, Parigi 1895; E. Molinier, L'orfèvrerie religieuse et civile du Ve à la fin du XVe siècle, Parigi s. a.; Illustrierte Gesch. des Kunstgewerbes, ecc., a cura di varî, Berlino s. a.; Clifford Smith, Jewellery, Londra (1908); M. Rosenberg, Gesch. der Goldschmiedekunst auf technischer Grundlage, Francoforte 1910-22; J. J. Marquet de Vasselot, Bibliographie de l'orfèvrerie et de l'émaillerie française, Parigi 1925.
La corona ferrea. - Nel Tesoro della cattedrale di Monza si conserva questa corona d'oro, composta di sei pezzi rettangolari, uniti fra loro da cerniere e adorna di ventidue gemme e ventiquattro brillanti, e sulla cui origine si è molto discusso. Il nome di ferrea le viene, però, da una sottile lamina di ferro, rozzamente battuta al martello, lamina che la tradizione vuole foggiata con uno dei chiodi della Croce. La leggenda narra che S. Elena trovò, insieme con la S. Croce, anche i chiodi che servirono per la crocifissione di Cristo e che di questi uno avrebbe servito per forgiare un freno, custodito oggi nel duomo di Milano, e un altro sarebbe stato intessuto nel diadema di Costantino. Questo diadema sarebbe poi venuto in possesso della regina Teodolinda, che a sua volta l'avrebbe donato alla basilica di San Giovanni Battista di Monza. Contro, però, questa tradizione sostenuta da parecchi scrittori di cose monzesi (Frisi, Bellani, Marimonti), altri sostennero che questa corona non sia altro che una di quelle solite corone votive che si appendevano nelle chiese (Oltrocchi, Fumagalli, Bombelli), oppure le parti di una larga collana di cui usavano adornarsi le regine (Venturi). Questa corona servì, però, effettivamente per incoronare i re d'Italia, e precisamente Ottone I, Ottone III, non si sa se a Milano o a Monza, mentre sicuramente a Monza vennero incoronati Enrico IV nel 1081, Corrado di Franconia (1129) e nel 1158 Federico Barbarossa. Ma nel corso del sec. XIII la corona, con quasi tutti gli oggetti del Tesoro, viene consegnata a privati come pegno su domanda del comune di Milano; e sovrani come Arrigo VII e come Ludovico il Bavaro dovettero farsi incoronare con una corona d'acciaio. Le cerimonie delle coronazioni regie furono riprese con Carlo IV (1355), Sigismondo (1431), e finalmente con Carlo V (1530), nella quale occasione la corona fu solennemente portata a Bologna.
Dopo la metà del sec. XVI non si ricordano che altre due incoronazioni con questa corona: quella di Napoleone I (26 maggio 1805) e quella di Ferdinando I (6 settembre 1838). In base a quest'ultima cerimonia, l'Austria accampò pretese sulla corona ferrea, e dopo il 1859 fece trasportare la preziosa reliquia a Vienna, perché la corona ferrea dava il nome, come già sotto Napoleone, a un ordine cavalleresco austriaco. Ma la pace di Zurigo la riportò in Italia, e il 4 novembre 1866 fu consegnata a Vittorio Emanuele II, che la fece riportare a Monza nello stesso anno.
Bibl.: Antolini, Dei re d'Italia inaugurati o no colla corona ferrea da Odoacre fino a Ferdinando I, Milano 1838; Bellani, La corona ferrea del regno d'Italia, Milano 1819; R. Bombelli, Storia della Corona ferrea dei re d'Italia, Firenze 1870; B. Zucchi, Historia della corona ferrea, Milano 1607.
V. tavv. LXXXIII e LXXXIV.
La corona come potere sovrano.
Alla voce araldica (III, p. 935 segg.) si è trattato della corona come insegna della dignità nobiliare e regia dal Medioevo in poi; resta qui da far cenno (rimandando per una più ampia trattazione a re; monarchia; sovranità) che la "corona" nel linguaggio costituzionale moderno e talvolta anche nelle leggi indica l'astrazione del concetto dell'impersonalità dell'ufficio regio per cui ìl sovrano si raffigura trasformato in un'istituzione la quale assorbe l'esistenza fisica di lui e non presenta alcuna soluzione di continuità durante la vita di un popolo. Tale astrazione è propria, in modo speciale, dello stato retto a forma di governo parlamentare.
L'ufficio della corona è una specificazione dell'istituzione generale del capo dello stato, che risponde a un'esigenza fondamentale dell'organizzazione dello stato monarchico. Un organo supremo dello stato, che apparisca quale sintesi della sovranità e unità organica di esso e sia il sommo rappresentante della volontà statale così all'interno come nei rapporti esterni, esiste sempre, in qualunque società politicamente organizzata, se anche altri organi costituzionali manchino. Tale, nello stato monarchico, non è più la persona del re soggetta a scomparire; ma è l'ufficio stesso, l'istituto che resta e vive di vita perenne; per cui, giusta il detto inglese, "il re non muore mai". La corona è l'espressione che designa l'organo supremo dello stato monarchico, se anche talvolta vuole significare il titolare, la persona del re preposta a questo ufficio.
Per la dotazione della corona, v. lista civile.