CORALLO (lat. corallium; fr. corail; sp. coral; ted. Koralle; ingl. coral)
Il corallo nobile o anche corallo rosso (Corallium rubrum L.) ha l'aspetto di un arboscello alto al massimo 30-35 cm., ma di solito 15-20, con una larghezza, dovuta al prolungarsi obliquamente dei varî rami, di non più di 25-30 cm., di solito molto meno. Il tronco al massimo raggiunge 2-3 cm. di diametro, ma più spesso non va oltre 1-2 cm. Il suo colore è rosso più o meno vivo; spesso è vermiglione, ma può essere anche rosso carminio, e rosso-sangue, o, più di rado, può avere tinte più leggiere, sino al rosa carnicino, al rosa pallido, al bianco. Sovente un medesimo "arboscello" o cormo può presentare nei suoi rami tinte diverse, e uno stesso ramo rosso, p. es., può essere talora screziato di bianco. La consistenza dell'arboscello è dura, perché presenta un asse calcareo, che è rivestito di una corteccia detta cenosarco. Tanto l'asse quanto la corteccia hanno lo stesso colore, ma il colore dell'asse calcareo è più vivo. Nonostante il suo aspetto, il corallo appartiene al regno animale, e precisamente al tipo degli Cnidarî, classe degli Antozoi, sottoclasse degli Octocoralli, e ordine dei Gorgoniarî, famiglia dei Corallidi, come unica specie del genere Corallium.
L'arboscello o cormo, che costituisce ciò che abitualmente chiamiamo corallo, rappresenta una colonia costituita da un gran numero di piccoli animaletti impiantati lungo i rami del cormo, lunghi 1-2 mm., simili a fiorellini bianchi tubulari e provvisti di 8 tentacoli, fimbriati, cioè forniti di tante piccole lacinie simili alle barbe d'una penna. Questi animaletti, che al pari di tutti i consimili del vasto gruppo dei Cnidarî (v.) si chiamano polipi, sono fortemente contrattili e a ogni inconsueto movimento dell'acqua in cui vivono si retraggono rapidamente in quella sorta di nicchia in cui sono impiantati. Cosicché tolto dal mare il ramo di corallo e posto subito, ad es., in alcool, tutti i polipi si retraggono e non è più possibile vederli; lo stesso avviene, naturalmente, quando il corallo è pescato e portato in secco. I rami di corallo che, bene asciutti, si pongono in commercio per la lavorazione non mostrano più i polipi, ma si scorgono invece sul cenosarco numerosi fori, corrispondenti alle nicchie dei polipi. Il polipo del corallo, come si è accennato, ha una corona di 8 tentacoli fimbriati intorno alla bocca. Questa si prolunga nell'interno della cavità del corpo con una sorta di faringe, che si apre largamente nella cavità che funge da stomaco, e alle pareti della quale è trattenuta da 8 lamelle trasversali, le lamine mesenteriche. Il cenosarco, che rappresenta una sorta di pelle viva, riveste l'asse calcareo, che costituisce lo scheletro della colonia, adattandovisi strettamente. L'asse calcareo è solcato in senso longitudinale da una serie di scanalature, rivestite da una sottile membranella; il cenosarco, sovrapponendosi a tali scanalature, viene a costituire una serie di canali, che percorrono da un capo all'altro la colonia. Nel punto in cui il polipo s'inserisce sul ramo, la parete del corpo si continua ininterrottamente col cenosarco, e la cavità del corpo che resta aperta viene a trovarsi in comunicazione con i canali sopra descritti, e così tutti i polipi della colonia comunicano fra di loro in modo che l'alimento assunto da uno o più polipi serve a nutrire anche gli altri. I polipi si riproducono in due modi: per via agamica e per via gamica o sessuale. La riproduzione agamica avviene per gemmazione e ha luogo non proprio in corrispondenza del polipo, ma in corrispondenza del cenosarco. Questo comincia col presentare delle lievi protuberanze in forma di gemme che man mano si accentuano e si allungano finché la punta si introflette costituendo una piccola insaccatura, che si apre in fondo nella cavità della gemma, dando origine alla bocca con la faringe, mentre otto piccole estroflessioni che coronano la bocca stessa e man mano si allungano, formano i tentacoli.
Nella riproduzione sessuale gli elementi germinali maschili e femminili si formano di solito in polipi distinti, maschi gli uni, femmine gli altri, che possono coesistere nella medesima colonia (colonie monoiche) o si trovano in colonie diverse (colonie dioiche). Talora si hanno casi di ermafroditismo. Le gonadi sono situate in fondo alla cavità gastrica del polipo, dove questo s'inserisce nel cenosarco. La fecondazione è interna. Dopo la fecondazione, l'uovo si sviluppa nella cavità del corpo, sino alla formazione di una larva che ha il corpo depresso, rivestito di ciglia vibratili, e privo di cavità interna. Questa larva, al pari di quelle consimili di tutto il gruppo dei Cnidarî, prende il nome di planula.
Le planule escono fuori, con i loro movimenti, dalla bocca del polipo, e nuotano liberamente, per un periodo d'ignota durata, nelle acque del mare, ma a un certo momento si fissano su qualche corpo solido al fondo del mare. Né la sabbia, né il fango permettono la fissazione delle larve, che, se vengono a trovarsi in queste condizioni, non giungono a fissarsi e muoiono. Le planule hanno bisogno, per potervisi attaccare, della superficie d'una roccia, non liscia o levigata, ma scabrosa, come quella formata dai conglomerati che rivestono di solito gli scogli marini. Si attaccano altresì ad avanzi di manufatti di terracotta come quelli di stoviglie gettate in mare, a corpi metallici ossidati, ecc.
Allorché la planula si è fissata per un polo del suo corpo, comincia a trasformarsi e a svilupparsi, e mentre al polo libero appare l'invaginazione faringea, al polo opposto si inizia la formazione del cenosarco, nell'interno del quale, dalla cosiddetta mesoglea, comincerà a svilupparsi lo scheletro. Così gradualmente si va abbozzando il novello cormo, che pian piano crescendo in altezza, e col processo di gemmazione dei nuovi polipi, ramificandosi, costituirà l'arboscello o cormo della nuova colonia. Talvolta il corallo, crescendo su vecchi polipai di madrepore o su conchiglie, le riveste così fittamente da assumerne la forma (forme imitative). La parte principale della sostanza che costituisce l'asse della colonia è rappresentata dal carbonato di calcio sotto forma di calcite, in ragione dell'83,43 all'86,97%; ad esso poi si aggiunge il solfato di calcio in ragione dell'1,3 all'1,4%; il carbonato di magnesio, che pare possa trovarvisi nella misura del 6,8%, il solfato di sodio, nella misura del 2,4%, e infine il cloruro di magnesio in ragione anche del 2,4%. Ai suddetti sali si aggiunge una piccola quantità di acido silicico in ragione del 0,68%, e una quantità piccolissima di iodio calcolata al 0,00044%, contrariamente a quello che accade in altri Antozoi, che possono contenerne quantità relativamente rilevanti (sino ad oltre il 7%). Sulla sostanza che dà al corallo il color rosso nulla si sa di sicuro. Si è ritenuto per molto tempo che tale colorazione fosse dovuta alla presenza di ossido di ferro, che è pure contenuto in quantità variabili nel corallo; ma oggi si tende a ritenere la colorazione d'origine organica, tanto più che si trova anche nel cenosarco, e appartenente al vasto gruppo dei pigmenti, la natura di molti dei quali è sconosciuta.
Il corallo suole vivere presso le coste, a una distanza più o meno notevole da queste e a una profondità spesso relativamente considerevole, quando si pensi che si fissa sulle scogliere della platea continentale, che non discende a più di 200-300 metri. Quale sia la profondità a cui vive il corallo è stato, con sufficiente esattezza, dimostrato nelle campagne delle navi Volta (1913) e Cavolini (1917). La minima è risultata essere di 48 m. (secca di Chiaia nel golfo di Napoli) e la massima di 218 m. (banchi di Capo Figari, costa est di Sardegna); tuttavia sembra che il corallo possa vivere anche a profondità minori, forse anche a meno di 16 m. Può vivere in poca acqua e a pochi centimetri di profondità, come negli acquarî, ma stentatamente. Quanto alla temperatura, questo Antozoo ha il suo optimum fra i 13° e i 16°, ma resiste anche a temperatura più elevata (sino a 20°-22° negli acquarî); muore però se la temperatura aumenta ancora. Il corallo si sviluppa a preferenza nei luoghi riparati, e perciò i suoi cormi si rinvengono sulle pareti delle rocce, specialmente dove si trovano infossature, cripte, spaccature e crescono sovente dall'alto in basso, in direzione obliqua Nei luoghi poco illuminati, il cormo crescendo si dirige verso lo spiraglio di luce, con i suoi rami raccolti come in un fascio, mentre se illuminato da ogni parte dirige i rami come le piante. Nel primo caso si hanno le cosiddette forme aperte. Il corallo, vivo e morto, è soggetto all'azione dei cosiddetti tarli, così chiamati per l'effetto che producono. I tarli del corallo sono rappresentati urevalentemente da spugne perforanti, che hanno azione litolitica, sciolgono cioè mediante una loro secrezione evidentemente acida la sostanza calcarea (per lo meno il carbonato di calcio) dello scheletro, scavandovi gallerie parallele all'asse del cormo. Il corallo è anche invaso da piante crittogame, quali l'Achlya ferax, che riescono a ucciderlo.
I cormi del corallo crescono di solito su scogli che si ergono sui fondi fangosi, come è stato dimostrato esattamente nelle citate campagne delle navi Volta e Cavolini. Questi scogli possono essere assai piccoli, e allora sono chiamati fortiere, ovvero possono essere rappresentati da enormi massi che vengono chiamati pettate. Sulle pettate talvolta si ergono dei blocchi a guisa di picchi o cime che prendono il nome di contropettate, che s'innalzano con pendio più o meno erto o addirittura a picco, sia restando isolati, sia costituendo in forma di scarpata il margine di un rialto, dando luogo alle così dette murate. L'insieme degli scogli su cui cresce il corallo (in compagnia sempre d'una vera folla d'altri Cnidarî, di Spugne, di Briozoi) prende il nome di banco. Il banco può essere rappresentato anche da uno scoglio solo ove questo abbia sufficiente estensione come è il caso, p. es., del banco del Pampano nel golfo di Napoli. I banchi di corallo si trovano alle profondità sopra indicate. Esistono anche estesi tratti di fondo marino su cui si trovano ammassate quantità di corallo più o meno rilevanti, talora rilevantissime, senza che si tratti di banchi propriamente detti. Infatti in tali località il corallo si trova morto, accumulato sul fondo a costituire ammassi di spessore talvolta considerevolissimo. Si ha da fare quindi con depositi o giacimenti coralliferi e non con veri banchi. È questo il caso dei cosiddetti banchi di Sciacca, che è meglio quindi chiamare depositi o giacimenti, rappresentati come sono da tratti di fondo fangoso lunghi anche oltre due miglia e mezzo e larghi due, come è il caso del cosiddetto banco del 1880 - data della sua scoperta - o isolone, nel quale all'epoca in cui fu rinvenuto si ammassava tanta quantità di rami di corallo spezzati e morti da costituire uno strato di molte decine di metri di spessore da dove si pescavano ogni anno parecchie decine di tonnellate di prodotto. Ma se la massa del corallo di Sciacca era costituita da corallo morto, quando quei giacimenti furono scoperti la loro superficie portava corallo vivo: segno che ivi le correnti avevano trascinato, da vicini banchi veri e proprî, larve di corallo, le quali si erano fissate sui rami morti servendosene come substrato.
Banchi di corallo si trovano in tutto il Mediterraneo, i giacimenti sono però soltanto conosciuti nella indicata località presso Sciacca. Banchi di corallo si trovano frequenti nei mari della Grecia, della Spagna, e lungo la costa dell'Africa settentrionale da oltre Tunisi sino al Marocco. Sono degni di nota soprattutto i banchi dell'Algeria. Nei mari che bagnano l'Italia vi sono banchi assai numerosi e sovente ricchi, ma solo di pochi si conosce con sicurezza la posizione in modo da poterla segnare sulle carte. Ricca di banchi è la Sardegna, la quale presenta ad est i banchi della Maddalena, dell'isola dei Monaci, di Capo Figari, dell'isola Tavolara, di Capo Carbonara, tutti segnati sulle carte, e ad ovest i banchi dell'isola di S. Pietro, almeno sedici, tutti registrati sulle carte; inoltre numerosi altri banchi, la cui posizione è solo approssimativamente nota, ma che i pratici sanno ritrovare, decorrono, sempre ad ovest, lungo tutta la costa da sud a nord, sino ad Alghero. Altri banchi si trovano nel golfo dell'Asinara e nello stretto di Bonifacio, e numerosi altri si rinvengono lungo le coste còrse, di levante e di ponente, ma di questi non si conosce la posizione esatta. Pochi veri banchi, e di piccola entità, si trovano lungo le coste della Sicilia, e fra questi meritano di essere ricordati quelli dell'isola di Levanzo presso Trapani non segnati sulle carte. Lungo le coste della penisola vi sono banchi nel versante ligure e tirrenico, da Imperia sino a Reggio Calabria, come ve n'ha presso l'isola d'Elba e in generale nell'Arcipelago toscano, ma ad eccezione di un considerevole numero di piccoli banchi (circa 23) del golfo di Napoli (il più importante dei quali è il banco del Pampano) e d'un banco esistente presso l'isola dei Galli nel golfo di Salerno, degli altri si ignora la posizione esatta. Di tutti questi banchi meritano di essere menzionati per la loro importanza quelli del litorale toscano, specialmente presso l'isolotto dell'Argentarola e a Cala dei Piatti nel circondario di Porto Santo Stefano, e del litorale romano presso Civitavecchia e Santa Marinella. Nell'Adriatico poi, mentre la costa occidentale è priva di banchi, ne è invece riccamente fornita la costa orientale, dal golfo di Quarnero sino a Capo Linguetta; ma la posizione di questi banchi non è ben nota. Meglio sono conosciuti i piccoli banchi che circondano l'isola di Zlarin situata all'ingresso del canale di Sebenico.
Quanto ai giacimenti di Sciacca, segnati regolarmente sulle carte, e che si trovano al sud della costa siciliana alla profondità di 150-200 metri circa, essi sono in numero di tre, scoperti per puro caso, l'uno nel 1875, da un pescatore che con gli ami dei suoi "palangresi" trasse dal fondo del mare inaspettatamente bellissimi rami di corallo; l'altro nel 1878, scoperto in modo analogo, e l'ultimo infine nel 1880 scoperto anche per caso da una barca corallina che, avendo smarrito la strada e perduto di vista la flottiglia di pesca, si mise a pescare in località nuova. Le loro coordinate geografiche sono le seguenti: per il primo, lat. 37°20′3″ N., long. 12°48′7″ E.; per il secondo lat. 37°14′7″ N., long. 12°43′3″ E.; per il terzo, lat. 37′0″ N., long. 12°36′3″ E.
La pesca del corallo è stata da tempo immemorabile esercitata da piccoli galleggianti a vela (bilancelle) valendosi come ordegno del cosiddetto ingegno. Si tratta di due sbarre di legno, disposte a croce, alle estremità di ciascuna delle quali vengono assicurate delle vecchie reti o delle retazze. Nel punto dove le due sbarre s'incrociano viene legata una grossa pietra, che ha lo scopo di fare immergere e affondare nelle acque l'apparecchio. Dal punto ove è legata la pietra parte una solida corda che viene avvolta ad un argano. Nell'atto di pescare, l'ingegno viene mollato nel luogo in prossimità di una murata o pettata dove si ha ragione di credere che la corrente spinga l'apparecchio verso la murata stessa. Esso quindi viene successivamente salpato senza farlo emergere, e di nuovo mollato, e ciò per più volte successive, affinché le reti possano "afferrare" sui rami dei varî cormi tappezzanti la roccia e strapparli da essa portandoseli via immagliati. Ad un dato momento l'apparecchio viene tratto sulla barca e, dopo liberato, si torna a immergerlo per una successiva pescata. Sui giacimenti di Sciacca la pesca riesce assai più agevole, perché non essendovi murate, la manovra è assai meno faticosa e presto si riesce, anche con semplici vecchie reti trascinate sul fondo, a raccogliere una considerevole quantità di corallo.
I pescatori spagnoli e i sardi sogliono usare degl'ingegni che alle loro estremità portano un gruppo d'uncini di ferro o di acciaio, denominati gratte, che hanno lo scopo di spezzare più facilmente i rami di corallo. Ma tale dispositivo è dannoso poiché in tal modo non solo vengono spezzati, ma frantumati i cormi del corallo, dei quali molti sono resi inutilizzabili, inoltre vengono rimossi e strappati perfino interi blocchi di roccia ricoperti di corallo, che cadono nel fondo fangoso e si perdono. I greci sogliono nella pesca servirsi degli scafandri, e questo sistema è stato malauguratamente introdotto anche in Italia. A prescindere dal frtto che con questo metodo non possono sfruttarsi che banchi situati relativamente a scarsa profondità e non quelli che raggiungono alti fondali, si deve osservare che il palombaro adoperando lo scalpello e il martello stacca i cormi sin dalla radice, impedendone la rigenerazione, che invece si manifesta regolarmente nei cormi, i cui rami sono stati spezzati dalle reti dell'ingegno. Inoltre il palombaro fa franare molta parte della friabile roccia su cui cresce il corallo, sì che tutti i piccoli germogli di esso caduti nel fango, son destinati a perire.
Modernamente, le bilancelle armate con vela latina sono state in parte sostituite con bilancelle a motore, e con la ripresa della pesca, quasi del tutto abbandonata nel dopoguerra, le bilancelle a motore sono preferite. La pesca del corallo è ben lungi dall'avere riconquistato l'antico splendore, limitata com'è a poche località, e specialmente ai banchi del litorale toscano e romano, dove, dopo un lungo periodo di riposo, pare che il corallo sia stato ritrovato in rigoglioso sviluppo, come si constatò per i banchi sardi, specialmente della costa orientale, durante la campagna del Volta. Le grandi pesche del passato, con centinaia di bilancelle, e che ci portarono in un ventennio (1883-1912) alla raccolta di oltre 4662 tonn. di corallo sui soli giacimenti di Sciacca (mentre soltanto tredici tonnellate e mezzo si raccoglievano sui banchi della Sardegna), oggi si sono ridotte in tal modo da fare, al confronto, apparire trascurabile la quantità del loro prodotto. La causa dello scarsissimo prodotto odierno non deve però farsi risalire a scarsa produzione dei banchi o a completo esaurimento dei giacimenti. Quelli, riavutisi dallo sfruttamento intensivo d'un tempo, sono in grado di offrire un proficuo raccolto; questi, se pure non più floridi come una volta, hanno tuttavia ancora sufficiente materiale ammassato per sopperire ai bisogni d'un prodotto di poco valore. Tale causa consiste nel fatto che per gli scarsi bisogni del commercio nostrale è sufficiente la lavorazione del corallo del Giappone che gl'industriali per diverse ragioni preferiscono al prodotto nostrale, e specialmente perché è da noi principalmente ricercato; e consiste ancora nella scarsa richiesta che si ha ora all'estero del corallo nostrale lavorato.
Banchi e scogliere di corallo si sogliono anche chiamare, impropriamente, i banchi e le scogliere madreporiche (v. madrepore). Per il corallo nero, v. antipatarî.
Lavorazione del corallo. - Mancanza di dati e di specifiche notizie impedisce di determinare, sia pure con approssimazione sufficiente, in quale età e presso quali popoli mediterranei venisse iniziata la lavorazione del corallo come elemento di ornamentazione estetica. Presso i Greci non si hanno accenni a quella lavorazione prima dell'epoca alessandrina; ma gli scavi etruschi, romani e campani hanno fornito dati sufficienti, per quanto rari, all'accertamento della lavorazione e dell'uso del corallo come materia d'arte nella vita degli antichi popoli italiani. Un pezzo di corallo fu rinvenuto negli scavi di Felsina (Bologna); altri, più importanti (elementi di due collane con al centro pezzi di scultura a tutto rilievo, anch'essi in materia corallina), furon rinvenuti ad Arna; altri, di età preromana, si conservano nel museo civico di Este; altri ancora provengono dalla regione campana; uno fu trovato a Roma, lavorato ad uso di sigillo con incavo profondo e di fattura eletta. È lecito supporre che la lavorazione del corallo sia continuata, forse ininterrotta, nei posteriori secoli in Italia; ma par certo che nel '600 essa assumesse una maggiore intensità, soprattutto in opere di decorazione mista. A Leningrado, nel museo dell'Hermitage, si conservano caratteristici lavori italiani del '600, in bronzo e corallo, con o senza inserzioni di smalto, ed altri ancora erano nella raccolta del barone Stieglitz, tra i quali due ritratti a bassorilievo di Luigi XIII e del cardinale Richelieu. Anche del '600 è un paliotto in seta con applicazioni di rame sbalzato e di corallo, opera di grande effetto decorativo che si conserva nel museo nazionale di Palermo, con una ricca collezione di oggetti d'arte sacra lavorati nella stessa materia; ed altre testimonianze dell'antica lavorazione del corallo a Trapani si trovano nel museo civico di quella città, come elementi di collane e incisioni a rilievo figurato e oggetti d'arte sacra. Dalla regione italiana la lavorazione del corallo si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo e nei paesi d'Oriente. In Turchia, oltre che per ornamenti della persona il corallo fu adoperato con larghezza come materia artistica di oggetti d'uso; ma l'India e la Cina furon sempre regioni ove il corallo lavorato ebbe la diffusione massima nei più varî aspetti dell'arte applicata ad oggetti d'uso personale e casalingo. La lavorazione del corallo, praticata scarsamente e con poco frutto in Francia e in Spagna, ha sempre avuto e continua ad avere in Italia le sue sedi di attività maggiore, e soprattutto a Torre del Greco (Napoli) e a Trapani, per tradizione più volte secolare. Sono tornate di moda in questi ultimi anni le applicazioni del corallo lavorato nei gioielli - associato con pietre preziose - e in opere decorative; mentre nelle officine che sussistono tuttora, le fatiche degl'intagliatori continuano a esplicarsi soprattutto in lavori per fermagli e per collane. La lavorazione procede da un'opera di dirozzamento con lima e sega a doppio taglio, seguito dal lavorio del trapano ad archetto temperato ad olio, e infine dalla pulitura con pasta acquosa di smeriglio, dapprima di grana grossa, poi successivamente ridotto a polvere impalpabile, su girevoli dischi di vetro orizzontali. I successivi procedimenti sono connessi alle forme che il corallo deve assumere nelle diverse fogge di ornamentazione. Frequenti sono dappertutto le falsificazioni del corallo, a mezzo di marmo in polvere trattato con colla di pesce e vermiglio di Cina. (V. tav. a colori).
Bibl.: E. Pottier, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire, I, ii, p. 1503 segg.; H. Lacaze-Duthiers, Histoire naturelle du corail, Parigi 1863; Simmonds, The Commercial Products of the Sea, Londra 1883; G. e R. Canestrini, Il Corallo, Roma 1883; M. Bauer, Edelsteinkunde, Lipsia 1896; Canestrini, Il corallo in Italia, in Nuova Antologia, 15 dicembre 1882; A. de Foelkersam, Il corallo e la sua applicazione nell'arte, in Starye Gody, 1914, I, fasc. di febbraio, nn. 20-30; A. Salinas, Un paliotto di corallo nel museo di Palermo, in Bollettino d'arte, 1911, pp. 437-38.