COPPO di Marcovaldo (Coppus Alarcoaldi)
Nato probabilmente a Firenze nel secondo o nel terzo decennio dei XIII secolo, fu attivo a Siena e a Pistoia, oltre che nella sua città d'origine, intorno il terzo quarto del secolo. È ricordato per la prima volta nel febbraio del 1260, allorché, già pittore ed abitante nella parrocchia di S. Lorenzo a Firenze, venne incluso fra coloro che avrebbero dovuto combattere nelle milizie florentine contro quelle senesi. Probabilmente catturato a Montaperti (4 sett. 1260) e condotto quindi prigioniero a Siena, nel 1261 eseguì una pala d'altare raffigurante la Madonna col Bambino e angeli (la Madonna del Bordone) per la chiesa dei servi di questa città. Dal luglio del 1265 egli è ricordato esclusivamente in documenti pistoiesi (Bacci, 1912): viene pagato prima per gli affreschi della parete ovest della cappella di S. Iacopo nella cattedrale e quindi, nel 1269, per quelli della parete sud della medesima cappella, dipinti con l'aiuto del prete Insalato di Iacopo (a sua volta documentato fra il 1265 e il 1295, ma della cui attività artistica non si hanno altre notizie). Presumibilmente, tuttavia, nel frattempo C. lavorava anche a Firenze: lo fa pensare, oltre all'esistenza di alcune opere attribuibili all'artista, un documento dell'ottobre 1265 che ricorda la casa di C. nella parrocchia di S. Lorenzo (Davidsohn, 1927, p. 412 n. 1). Nell'ottobre del 1274 il pittore risulta di nuovo impegnato nell'esecuzione di dipinti destinati alla cattedrale di Pistoia. Questa volta si tratta di dipinti su tavola, eseguiti con l'aiuto di suo figlio, Salerno, finché questi, per l'infrazione di una legge di cui non conosciamo la natura, venne incarcerato. A questo punto i committenti si rivolgono alle autorità cittadine e chiedono il rilascio di Salemo dietro cauzione, in modo che possa aiutare il padre nel portare a termine l'opusmagnum assunto, ammortando col guadagno la multa inflittagli (Bacci, 1912, pp. 32-34). Da un documento dei gennaio del 1276 (ibid., p. 3519 l'ultimo che ricorda C. in relazione con il "solaio" da lui dipinto sopra il coro della cattedrale, il debito risulta ancora non interamente saldato.
L'unico lavoro sicuro che ci è pervenuto è la Madonna del Bordone della chiesa dei servi a Siena.
L'origine della denominazione è discussa: per alcuni (Gargani, 1874, pp. 152-63) ricorderebbe il nome di una famiglia Bordoni, la quale alla fine dei XVI e all'inizio del XVII secolo ebbe il patronato della cappella che ospita il dipinto, per altri (Milanesi, 1878) deriverebbe da un bastone da pellegrino già conservato nella stessa cappella, oppure sarebbe semplicemente una storpiatura della parola "perdono" (Brandi, 1950). La firma che oggi si legge in calce alla tavola: "A.D.M.CC.LXI. COPP.D. FLORETIA MEPIX", a cominciare dal sec. XVIII rimase nascosta sotto una cornice aggiunta nel corso di un rinnovamento della cappella e rimossa solo nel corso di un restauro (Brandi, 1950); il nome dell'autore cadde perciò in dimenticanza e l'opera venne riferita per un certo tempo (cfr. Rosini, 1839) a Dietisalvi Petroni, finché alcuni storici locali (cfr. Romagnoli, 1861; Micheli, 1862) non riuscirono a ricollegarla con la tavola di C., ricordata da vari scrittori seicenteschi (cfr. Buondelmonti, Chigi). Spetta invece al Thode (1890) il merito di aver riconosciuto l'estraneità dei volti della Madonna e del Bambino di C.; i visi, infatti, furono ridipinti da anonimo duccesco del primo Trecento, per adeguarli al gusto corrente. Il rifacimento, che trasse in inganno vari studiosi dell'800 nei riguardi dello stile di C., rende tuttora disagevole la lettura dell'opera, sebbene le fotografie a raggi X permettano di immaginare il suo aspetto originario.
Di altri lavori, quasi tutti perduti, ci pervengono notizie attraverso la surricordata istanza per la liberazione di Salemo, nonché dai ricordi databili intorno al 1600 di Cesare Fioravanti. Una "Madonna con ilBambino in collo, grande, con vagha storietta a tomo" fu vista dal Fioravanti ancora sull'altar maggiore della cattedrale di Pistoia, ma poi fu collocata su quello dell'oratorio di S. Luca e quindi andò dispersa (cfr. Ciampi, 1810). Doveva trattarsi di un dipinto di grandi dimensioni se sono giuste le indicazioni del Dondori (1666), secondo cui la tavola sarebbe stata "non più larga di quattro braccia, né più alta di otto" (cioè di circa 470 x 235 cm); si tratta in ogni modo di un'opera da non confondere, come già avvertì il Procacci (1966), con l'immagine della Madonna, elencata nel documento del 1274. Quest'ultima doveva essere collocata, insieme con un'immagine di S. Giovanni evangelista ai lati di un grande Crocifisso, sultramezzo della chiesa; data quindi la posizione secondaria rispetto alla croce e la sua collocazione in alto, le storiette dipinte attomo alla Madonna sarebbero rimaste praticamente illeggibili per lo spettatore. Per la Madonna citata nel documento, si dovrà pensare piuttosto ad una figura singola della Vergine dolente in piedi alla quale, secondo una consuetudine iconografica che nella pittura veneziana sopravvive ancora nel XIV sec. (cfr. R. Pallucchini, La pittura veneziana del Trecento, Venezia-Roma 1964, figg. 496 s.), corrispondeva un'immagine singola di s.Giovanni al lato opposto della Croce.
Purtroppo anche queste tavole sono andate perdute senza traccia, e solo del Crocifisso sappiamo che era da tato 1275 e che all'inizio del XVII sec. era custodito nella canonica annessa alla cattedrale (Fioravanti). È erronea, come dimostrò il Procacci (1966), anche la tentata identificazione di questa Croce, destinata ad essere collocata in alto, con quella tutt'ora conservata nella cattedrale di Pistoia, in cui la figura di Cristo è affiancata da piccole Storie della Passione. Con ogni probabilità il Crocifisso pervenutoci è invece da identificare con quello già appeso sulla trave della cappella di S. Michele, in posizione più vicina quindi, rispetto all'altro, ai fedeli.
Dato che il documento del 1274 elenca lavori da eseguire in collaborazione da padre e figlio pittori, ma anche perché la Croce di Pistoia rivela innegabili differenze stilistiche in confronto con le altre opere assegnabilì a C., la maggioranza dei critici ritiene opera di quest'ultimo soltanto le Storie della Passione, e nel Cristo individua la mano di Salerno (cfr. Bacci, 1900; Venturi, 1907; Toesca, 1927; Sandberg Vavalà, 1940; Longhi, 1948, ecc.). Altri studiosi sono invece del parere che C. non sia intervenuto nell'esecuzione dell'opera (cfr. Sirén, 1922; Coletti, 1941; Sinibaldi-Brunetti, 1943, ecc.), e non manca chi nega la possibilità di collegare l'opera con il documento dell'anno 1274, escludendo quindi la paternità di ambedue gli artisti (Vitzthum-Volbach, 1924; Donati, 1972). Esistono, tuttavia, precise corrispondenze stilistiche fra alcune delle storiette di questa Croce e altri dipinti generalmente riconosciuti a C. e se, come pare, ci sono motivi sufficienti per attribuire le storie in questione (Compianto e Seppellimento di Cristo) al pittore più anziano, sembra per lo meno logico fare il nome di Salerno per il resto della tavola. Non sono stati ancora espressi pareri riguardo a tale recente proposta (Boskovits, 1976 e 1977), ma se sulla precisa delimitazione dell'intervento di C. nelle Storie della Passione possono emergere opinioni diverse (cfr. ad es. Conti, 1971), è indubbio che vi lavorarono due artisti, dei quali uno, non identificabile con C., è da ritenere responsabile anche dell'esecuzione della figura del Cristo.
Di non facile interpretazione resta l'espressione "una figura seu sepultura S. Michaelis", usata nel citato documento a proposito dell'ultima opera commissionata per la cattedrale di Pistoia. Anch'essa risulta perduta e non ne troviamo menzione nemmeno nelle fonti seicentesche; sembra comunque plausibile la tesi della Coor Achenbach (1946) che si tratti di un semplice errore di ortografia dell'amanuense e che l'opera in questione fosse una scultura di S. Michele che doveva essere affidata da colorire ai pittori.
Quanto alle varie attribuzioni avanzate dalla critica in favore di C., fu il Douglas (1903) il primo ad accostare alla Madonna del Bordone un'altra immagine della Madonna in S. Maria Maggiore di Firenze, opera che venne poi senz'altro riferita a C. (o a C. e collaboratorì) dal Sirén (1922), dal Toesca (1927), dalla Sandberg Vavalà (1929), dal Garrison (1949), dallo Oertel (1953), dal Ragghianti (1955) e altri. La maggioranza degli studiosi, a cominciare dal Van Marle (1923), respinge però la proposta, del resto ritrattata dallo stesso Sirén (1926), rilevando nella pala fiorentina elementi di una cultura più arcaica e comunque diversa da quella dì C., di un gusto che attribuisce importanza ben maggiore ai ritmi lineari e al valore decorativo della superficie di quanto sia solito fare Coppo.
Consensi più compatti aveva incontrato la proposta del Perali (1919) di riconoscere al pittore fiorentino la Madonna della chiesa dei servi di Orvieto. Come opera più tarda della tavola senese - la chiesa di Orvieto fu costruita a cominciare dal 1265 -, essa venne considerata autografa di C. ad eccezione del Van Marle (1923, 1923-24) e, in un primo momento, del Toesca (1927). Di recente però, sulla base di esami tecnici effettuati dall'Istituto centrale dei restauro, il Conti (1971, 1973) ha chiarito che i volti della Madonna e del Bambino spettano, anche nella Madonna orvietana, ad un rifacitore più tardo. Si è anche cercato di dimostrare (Boskovits, 1976, 1977) come nemmeno lo strato più antico del dipinto fosse eseguito da Coppo. Resta da vedere se l'autore dell'opera sia veramente da cercare nell'ambito della bottega di Guido da Siena (ìbid.), oppure fra gli artisti attivi nel cantiere del Battistero fiorentino, come oggi appare più probabile; sta di fatto che quei brani che sono indubbiamente originali nella Madonna del Bordone e nella Madonna di Orvieto, ad esempio le due figure di angeli in alto, sono stilisticamente troppo distanti per poter appartenere ad un unico artista.
Mentre è rimasta senza seguito la proposta del Van Marle (1923) di restituire a C. la Madonna n. 1663degli Staatliche Museen di Berlino-Dahlem, opera sicura dei Maestro della Maddalena, e solo pochi accettano la tesi dei Sirén (1922) che, invece di Cimabue, vide la mano di C. nella Croce dipinta della chiesa di S. Domenico in Arezzo (d'accordo lo Hautecocur, 1931, il Lavagnino, 1936, e, almeno parzialmente il Garrison, 1949) e in quella di S. Francesco nella stessa città (d'accordo il Lavagnino, 1936), la larga maggioranza dei critici accoglie nel catalogo dei pittore fiorentino una Croce dipinta del Museo civico (n. 30) di San Gimignano. Avvicinata a C. per primo dal Toesca (1927), la tavola gli fu attribuita decisamente dalla Sandberg Vavalà (1929), seguita dal Coletti (1937, 1941), dalla Sinibaldi e dalla Brunetti (1943) e praticamente da tutta la successiva letteratura critica, magari con qualche riserva (Longhi, 1948; Bologna, 1962; Donati, 1972). Quanto alla data, alcuni collegano l'opera con il soggiorno senese del pittore, ma la maggioranza degli studiosi pensa che si tratti di un lavoro precedente, anche per poter giustificare le divergenze stilistiche esistenti fra la Croce di San Gimignano e la Madonna di Orvieto, comunemente datata fra il 1265 e 1270.
Le ultime proposte attributive sono quelle del Ragghianti (1955, 1969) che, sviluppando un'osservazione del Longhi (1948) sulle affinità di stile e di gusto fra la Croce di San Gimignano e la scena dell'Inferno nel mosaico del battistero fiorentino, indica come opere di C. sia quest'ultima scena sia la figura del Cristo giudice e quelle dei Risorti nel medesimo mosaico. Infine, in due occasioni (Boskovits, 1976, 1977), si è proposto di reintegrare la pala di S. Michele della chiesa di S. Angelo a Vico l'Abate (Firenze) nel catalogo di C., riferendo all'artista inoltre, sebbene con riserva di prudenza, una parte almeno delle storie della pala di S. Francesco nella cappella Bardi di S. Croce, nonché un affresco raffigurante la Crocifissione nella sala capitolare di S. Domenico a Pistoia: quest'ultimo, già avvicinato ai modi di C. dal Donati 0 972) e riferito alla cerchia dell'artista dal Prehn (1976).
I contorni della produzione di C. sono dunque assai poco chiari. Fra le varie e spesso contraddittorie indicazioni della letteratura critica sembrano emergere tuttavia come dati di fatto sia il livello qualitativo molto elevato della sua pittura sia il ruolo da vero protagonista che l'artista ebbe nella vicenda dell'arte toscana del XIII secolo. Formatosi probabilmente nella cerchia dell'anonimo autore della Croce n. 434 degli Uffizi, depositario della cultura pittorica dei Berlinghieri a Firenze, il C. arricchì la controllata eleganza formale e la fluente ma pacata narrativa di questo maestro con un nuovo senso di monumentalità nelle figure e con una tensione drammatica intensissima nell'impostazione delle storie. 1 forti contrasti chiaroscurali e gli schematismi formali dei suoi dipinti, i movimenti dei suoi personaggi, scanditi con ritmi vivaci e caratterizzati da una potenza quasi brutale, da alcuni (Longhi, 1948) vennero messi in rapporto con "l'estrema involuzione balcanica" del neoellenismo bizantino del sec. XIII, mentre altri (Muratoff, 1928) insistevano sull'estraneità dell'indole e delle particolarità morfologiche della pittura di C. alla cultura bizantina. In verità sembra che l'artista si ispirasse, sì, ad una visione originaria della cultura bizantina, ma che era ormai naturalizzata in Toscana attraverso le opere di Giunta Pisano e dei suoi seguaci.
La prima opera sicura di C. è dunque la Madonna del Bordone del 1261, seguita probabilmente a breve distanza di tempo dalla Croce di San Gimignano che le è stilisticamente molto vicina e che, eseguita per un centro appartenente all'orbita culturale senese, dovrebbe risalire al soggiorno del pittore in quest'ultima città. Particolari morfologici simili, con una carica sentimentale di analoga iiitensità e con una ricerca ancora più esasperata della resa plastica della forme appaiono invece in un dipinto di data certamente più alta, la pala di S. Francesco in S. Croce, da ritenere la più antica testimonianza dell'attività di C., realizzata verso la metà del secolo, e forse a fianco di un altro maestro. Probabilmente non molto dopo il 1260 (e comunque entro il settimo decennio) doveva essere eseguita la pala di S. Michele di Vico l'Abate. Qui le arcigne maschere fisionomiche dei personaggi appaiono ancora praticamente sovrapponibili a quelle degli angeli nella Madonna del Bordone, e i movimenti convulsi delle loro membra, avvolte in vesti dalle pieghe taglienti e illuminate da improvvisi bagliori di luce, ricordano ancora da vicino le storie nella Croce di San Gimignano. Tuttavia a Vico d'Abate le singole composizioni sono più ampie ed ariose, e dal rapporto fra le figure e i vari elementi della sceneggiatura emerge un gioco ritmico più complesso e articolato che non dalle storiette sangimignanesi.
Seguendo il Bacci (1912), Molti studiosi ritengono che dopo il suo soggiorno senese C. si trasferisse definitivamente a Pistoia, ma oltre all'indicazione surricordata di un documento del 1265, anche Pubicazione della pala di Vico l'Abate fa pensare che l'artista non si trattenesse molto a lungo a Siena e, una volta lasciata questa città, alternasse le sue visite a Pistoia con permanenze più o meno lunghe a Firenze.
Ciò sembra confermato anche dall'assai probabile partecipazione dell'artista all'impresa della decorazione interna dei Battistero fiorentino. Manca ancora uno studio esauriente sull'esecuzione di questa grandiosa opera, protrattasi per quasi un secolo e realizzata indubbiamente con l'intervento di numerosi artisti e una folta schiera di operai specializzati nella tecnica del mosaico. Appare probabile comunque che il grosso del lavoro, la decorazione cioè della stessa cupola, avvenisse fra il 1271 c. (anno in cui l'arte di Calimala contribuì alle spese dell'opus musaicum del Battistero) e gli anni a cavallo del XIII e del XIV secolo, dato che nell'opera non si rilevano riflessi di cultura pittorica propriamente trecentesca. Le affinità osservate da vari studiosi (Salmi, 1930-31; Longhi, 1948; Ragghianti, 1955 e 1969; Bologna, 1962) fra dipinti oggi riferibili a C. e la grande scena del Giudizio universale nel mosaico fiorentino sono innegabili e resta piuttosto da vedere quali siano i limiti precisi dell'intervento dell'artista, accanto al quale presero certamente parte al lavoro anche altre personalità stilisticamente affini, quale il Maestro della Madonna di S. Maria Maggiore a Firenze e l'eventuale collaboratore di C. nella paia dei S. Francesco Bardi.
Il Crocifisso pistoiese, collegabile col documentato soggiorno del 1274-76, segna un nuovo traguardo nel percorso dei pittore. Gli ideali che si prefiggeva in questa sua ultima fase vengono denunciati anche dal modellato morbido e dalla gamma cromatica sofisticata della figura di Cristo, eseguita ad opera di Salerno, ma sempre sotto l'occhio dei padre. Particolarmente evidente è tuttavia la testimonianza delle figure alte e snelle, legate attraverso i larghi gesti e la concatenazione dei contorni in gruppi meno compatti ma più calibrati e complessi di prima, nelle due storie attribuibili allo stesso Coppo. Si ha l'impressione che C. si sforzasse qui di esprimersi con frasi più accuratamente cesellate e più ricche di sfumature per adeguarsi alla parlata dei pittori di una più giovane generazione, e in particolare di Cimabue. Al medesimo momento risale anche il ricordato affresco in S. Domenico a Pistoia, opera le cui condizioni attuali non permettono, purtroppo, un giudizio sicuro, ma che, stando al suo aspetto documentato da vecchie fotografie e ai caratteri stilistici dei relativo disegno preparatorio (scoperto sotto l'affresco nel corso delle operazioni di stacco), sembra riferibile a Coppo.
Sebbene variamente valutato, anche se soltanto per la parte che con ogni probabilità gli spetta nella decorazione del Battistero fiorentino, C. meriterebbe un posto di rilievo nella storia della pittura dei suo secolo. E suo influsso sugli inizi di Cimabue e su quelli del prolifico Maestro della Maddalena dimostra infatti che la sua arte costituì punto di partenza e di orientamento per i migliori pittori fiorentini dell'ultimo quarto del secolo. Ma all'attivo di C. è da mettere pure lo stimolo da lui esercitato in altri centri culturali della Toscana, di cui si riconosce il riflesso, ad esempio, nel senese Guido e, ancora molti anni dopo la scomparsa dell'artista, nel pistoiese Manfredino d'Alberto.
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