COPIA e Copisti
Copia è l'imitazione fedele di una determinata opera che si chiama originale. Con l'avvento della fotografia, dei mezzi fotomeccanici, del pantografo, della galvanoplastica, ecc., l'uso della copia intesa come riproduzione è andato e va sempre più perdendosi. Rimane invece, e rimarrà sempre ottima pratica ai fini dell'arte, la copia fatta a scopo di studio. Chi la intraprende deve affidarsi solo all'occhio e alla mano già maturatisi attraverso lo studio dal vero; indagare le varie fasi dello svolgimento dell'esecuzione (preparazione, abbozzo, finitura), e cercare di ripercorrerle nel modo presumibilmente più fedele. La copia, anche condotta con tutto il rispetto e l'amore per l'esemplare, ritrae sempre un po' del temperamento di chi la eseguisce. Il quale non dovrà spingere la fedeltà fino a riprodurre ciò che non fu evidentemente voluto dall'autore, ma è solo effetto del tempo o conseguenza d'imperfezioni della materia, nel qual modo farebbe piuttosto opera di falsario.
Antichità. - Può darsi il caso di due opere che si somiglino moltissimo tra di loro: eppure non si può parlare di copia né nei riguardi di una di esse rispetto all'altra, né nei riguardi di entrambe rispetto a un presunto comune originale; viceversa si dà il caob di riproduzioni imperfette e molto approssimative, che tuttavia sono da considerarsi copie vere e proprie, per quanto cattive. Così ad es., tra i cosiddetti Apolli arcaici e tra le korai dell'Acropoli se ne trovano alcuni che nello schema generale e in qualche particolare concordano con altri, non meno di quanto le note statuette Lenormant e del Varvakeion possano somigliare all'Atena Parthenos di Fidia. Tuttavia queste due statuette sono copie della Parthenos, mentre nei primi casi si tratta di uno stesso tipo, non di una stessa opera. Quell'esempio prova che le copie si potevano fare in proporzioni minori. Ma mutabile appare anche il genere d'arte prescelto. Un monumento architettonico si copiava in rilievo o in pittura (teoricamente si può ammettere anche l'inverso); e in pittura o in rilievo si copiavano statue, come in plastica si traducevano figure dipinte.
Rare sono state le copie architettoniche di opere architettoniche. Esempio notevole è quello dei propilei di Eleusi che riproducevano la monumentale costruzione di Mnesicle sull'Acropoli d'Atene. Riproduzioni d'importanti edifici troviamo in rilievi romani (supposto tempio di Venere e Roma nei due frammenti del Museo delle Terme e del Museo Lateranense; edifici varî nel rilievo del Museo Lateranense rappresentante una parte della Via Sacra, ecc.); altre più numerose in medaglioni. Le une e le altre non poco ci aiutano a formarci un'idea degli edifici stessi, quando essi più non esistono.
Come è noto, noi abbiamo una cognizione assai scarsa della pittura greca. Ma assai ragionevolmente si ammette che qualche disegno vascolare e molte delle composizioni delle pitture murali di Pompei ed Ercolano, e alcune di quelle di qualche mosaico, siano copie, sia pure di seconda o di terza mano, d'opere di pittori greci. Ma, appunto perché non possediamo pitture originali greche di qualche importanza, e d'altro canto si tratta generalmente di composizioni molto complesse, e le supposte copie, quando ne sussistono varî esemplari, presentano varianti più o meno notevoli, non possiamo giudicare sul grado di maggiore o minor fedeltà delle presunte copie rispetto ai presunti originali. Tentativi d'identificazione non sono mancati, come per il celebre mosaico del museo di Napoli con la battaglia d'Isso, nel quale concordemente si riconosce l'eccellente copia d'una pregevole opera pittorica: forse il quadro di Filosseno di Eretria, forse quello di Elena figlia di Timon egiziano.
Ma, in fatto di copie, il ramo dell'arte antica più ricco di materiale e più istruttivo è la scultura. Esso è quello che non solo ha permesso il maggior numero di osservazioni e, soprattutto, ha largamente contribuito alla ricostruzione della storia di quest'arte, ma ha pure consentito di abbozzare dell'arte della copia una particolare storia.
La maggior parte delle opere della scultura greca è andata perduta. Alla mancanza degli originali hanno supplito le copie. E attraverso le copie siamo riusciti a raggiungere faticosamente una certa adeguata conoscenza degli artisti maggiori. Del Discobolo e del gruppo di Atena e Marsia di Mirone, dell'Atena Parthenos di Fidia, del Doriforo e del Diadumeno di Policleto, dell'Afrodite di Cnido e dell'Apollo Sauroctono di Prassitele, di alcune delle opere di Lisippo (come il Posidone di Corinto e le fatiche di Eracle del gruppo di Alizia) - tanto per limitarci ad alcuni degli esempî più cospicui - non abbiamo che copie più o meno fedeli.
Anche in questo campo, a quello delle riproduzioni al vero e in figure a tutto tondo, si aggiunge il prezioso ausilio delle riproduzioni in piccolo che offrono le arti minori (notevolissima è quella della testa della Parthenos di Fidia nella gemma di Aspasio), e specialmente l'arte della medaglia. Così ad es. con le monete di Cnido si è potuto stabilire quali, fra le tante rappresentazioni statuarie di Afrodite, sono quelle che riproducono la celebre statua di Prassitele; con le monete di Corinto, si è potuta identificare qualche riproduzione del Posidone di Lisippo; e le figurine di Apollo citaredo riprodotte in certe monete di Nerone, appoggiano l'ipotesi che una copia dell'analoga opera di Scopa sia da riconoscere nella statua di Apollo della sala delle Muse al Vaticano. Pure le riproduzioni delle monete hanno offerto la controprova per l'identificazione del gruppo dei Tirannicidi di Atene e della Tyche di Antiochia di Eutichide. Anzi talvolta le piccole riproduzioni delle monete sono le sole copie approssimativamente fedeli di determinate opere della grande arte, e solo grazie ad esse possiamo farcene un'idea. Questo è, per es., il caso della statua di Zeus Olimpio di Fidia, della Hera di Policleto ad Argo, della Nemesi di Agoracrito, dell'Afrodite Pandemos di Scopa, ecc.
Si pensa che già nel sec. V a. C. si copiassero opere contemporanee. Ma l'uso di copiare opere statuarie del periodo classico principia veramente nell'età ellenistica. Il centro principale di questo genere d'attività artistica fu Pergamo, ove l'indirizzo della cultura portava all'interessamento per le creazioni del passato. Ma la statua del Gallo morente del Museo Capitolino e il gruppo del Gallo uxoricida e suicida della collezione Boncompagni-Ludovisi - copie eseguite sul luogo, come ne fa fede la qualità del marmo, di opere del tempo di Attalo I esistenti sull'acropoli di Pergamo - provano che non si copiavano soltanto statue del periodo classico. Altri centri ove si usava copiare statue più antiche sembra fossero in quel tempo Atene e Delo. Ma il maggiore sviluppo dell'arte della copia si ha nell'età romana. Pergamo continua ad essere uno dei centri principali; ma officine di copisti si trovano ad Afrodisia, a Mileto, a Efeso; e la grande quantità di copie d'opere statuarie che si rinviene nelle città dell'Africa è indizio che anche nell'Africa esistevano officine di copisti.
Senza dubbio di siffatte officine dovettero esservene in abbondanza nella stessa Roma. Ma qui - e questo si deve ammettere anche per gli altri centri - non si copiava soltanto dagli originali, direttamente, sibbene anche da altre copie. Molte delle opere originali, delle quali a Roma circolavano riproduzioni, si trovavano ancora al loro posto in città lontane.
Generalmente le copie sono anonime. Non mancano tuttavia nomi di artisti che hanno firmato i loro lavori. E questo è il caso di Antioco (o Metioco), autore della copia dell'Atena Parthenos della collezione Boncompagni-Ludovisi, e di Glicone, autore dell'Ercole Farnese.
Una categoria particolare di copie è quella costituita da rappresentazioni statuarie di divinità o di eroi, adattate a personaggi romani, maschili o femminili (generalmente figure isolate, ma talvolta gruppi di due, quando si è voluto riprodurre quello di Marte e Venere). In questo caso si può parlare di vere e proprie copie, perché, nonostante la variazione dei tratti fisionomici, si è voluto a ragion veduta riprodurre determinate opere statuarie e non soltanto spingere l'ispirazione all'imitazione pedissequa.
Bibl.: A. Furtwängler, Über Statuenkopien im Altertum, in Abhandl. d. k. bayer. Akad. d. Wissensch., I kl., XX, vol. III, p. 527 segg.; G. Lippold, Kopien und Umbildungen griechischer Statuen, Monaco 1923; Th. L. Donaldson, Architectura numismatica, Londra 1859; G. E. Rizzo, La pittura ellenistico-romana, Milano 1929; L. Curtius, Die Wandmalerei Pompejis, Lipsia 1929.
Medioevo ed età moderna. - L'arte cristiana del Medioevo praticò il copiare non soltanto per ripetere le iconi sacre venerate, ma per propria natura, tradizionale e impersonale; e dinnanzi alle sue opere conviene sempre chiedersi se esse non ripetano, o almeno riflettano, esemplari precedenti, sia nella fattura, sia in tratti generali di composizione e di concetto: fatto, quest'ultimo, tanto frequente da diventare oggetto di studî particolari (v. iconografia). Quella pratica si manifesta più frequente nelle miniature dei manoscritti, favorita della loro immediata relazione col testo, ed è stata constatata in ogni periodo: miniatori bizantini dal sec. IX al XII copiarono originali dell'ultima età classica, in bibbie e salterî, come i miniatori carolingi nelle illustrazioni dei testi classici - Agrimensores, Terenzio, ecc. -; i Mesi del "breviario Grimani" (Venezia Bibl. Marciana) sono esemplati su quelli delle "Très riches Heures" del duca di Berry, ecc. Ma se il copiare si può sorprendere in molte opere minori (avorî, smalti, maioliche, incisioni, ecc.) esso non fu meno comune nelle monumentali: e Deodato Orlandi, a principio del Trecento, ripeté in S. Piero a Grado presso Pisa le storie del santo che poco prima erano state dipinte nel portico della basilica vaticana. Si servivano gli artisti, per tali copie, di libri di disegni, o d'"esempî", quali potevano essere le imagines che l'abate Benedetto aveva portato da Roma, nel sec. VII, per decorare chiese d'Inghilterra, e come il rotolo (sec. XIII) della cattedrale di Vercelli che ne riproduce i dipinti, oppure di proprî taccuini con appunti di composizioni e di particolari. Le copie, attraverso tali mezzi, potevano ridursi a riflessi languidi e molto lontani dallo stile degli originali; ma non mancava l'uso di riprodurre serratamente gli esemplari: era nella consuetudine scolastica, certamente già assai prima di Cennino Cennini (sec. XIV-XV), che nel suo trattato lo consiglia al giovane artista avvertendolo dì servirsi perfino della carta lucida e vi rimase poi sempre, anche quando l'arte si allontanò dalle consuetudini medievali di ripetizione iconografica cercando d'imprimere fin nell'invenzione la personalità dell'artista. Si copiarono allora, per studio di tecnica e di stile, le opere più celebrate: e se i cartoni di Leonardo e di Michelangelo per Palazzo Vecchio furono modello agli artisti fiorentini del principio del Cinquecento, Marco Boschini (1660) ci descrive la Scuola di S. Rocco affollata di "studiosi" del Tintoretto. Gli artisti più forti, copiando per studio, ma quasi con sprezzatura, parvero trarre dagli esemplari soltanto spunti e suggerimenti a opere d'una propria originalità, o appunti per future concezioni: così il Rubens nel copiare - o piuttosto trasporre - la Deposizione nel sepolcro del Caravaggio (Vienna, Galleria Lichtenstein), così il Delacroix nel copiare dal Rubens i Miracoli di S. Benedetto (Bruxelles, Museo). Gli altri mirarono ad appressarsi all'originale quanto più potevano, anche per contraffarlo, come Andrea del Sarto nel ritratto di Leone X (Napoli, Galleria) che il Vasari afferma scambiato dallo stesso Giulio Romano per quello di Raffaello. E, nel progredire degli studî sulla tecnica, non manca chi s'ingegni con fortuna - ricordiamo il russo Lockhoff - a copiare gli antichi seguendone ogni processo tecnico, scrutato sotto le patine e le alterazioni prodotte dal tempo. Né i disegni furono copiati meno dei dipinti per studio, o per moltiplicarli, o per falsificarli, come i bronzi e i marmi.
Distinzione della copia dall'originale. - Le copie qualche volta sono triboli per lo studioso e per il collezionista: il distinguerle dagli originali mette sovente a dura prova il conoscitore. È conveniente non più consentire che si copiino capolavori senza sensibili differenze di dimensioni dall'originale; ma è del tutto moderna, e non comune, questa norma; e il giudizio deve per lo più fondarsi su fatti meno esteriori che il formato, per non scambiare la copia con l'originale. Quest'ultimo può anche non essere conosciuto dal perito, o non esistere più: e nondimeno occhì e mente esperti possono giungere a convincenti conclusioni. Occorre, pei questo, muovere sempre dall'osservazione della materia dell'opera d'arte (se è un dipinto: qualità della tela o della tavola, delle imprimiture, dei pigmenti; stato della superficie) perché essa potrebbe da sola risolvere il quesito scoprendo, per un esempio, colori non usati al tempo del supposto originale (p. es. aniline); ma per solito è necessario procedere a esame più esteso di ogni qualità di fattura e di stile per sorprendere, se vi siano, i tratti rivelatori della copia. Tra questi i più comuni sono le contraddizioni fra i caratteri generali dell'opera derivati dall'originale e qualche particolarità che il copista vi abbia introdotto, come facilmente avviene, per disattenzione, per sue abitudini di lavoro, per proprio difetto d'arte. Così in opera il cui concetto implichi nell'artista creatore un potente senso plastico che si esprima soprattutto mediante il disegno, tradiranno il copista le incertezze nel disegnare qualche parte o il contrasto tra l'impressione plastica totale e i particolari; in opera fondata soprattutto sul colore, svelerà la copia l'esecuzione cromatica superficiale senza la preparazione profonda e l'avvicinamento progressivo e sicuro all'effetto finale che sono proprî dei pittori coloristi. Da quest'ultimo difetto si palesa sovente la copia, poiché il copista cerca ovviamente di raggiungere con prestezza l'apparenza finale del suo esemplare riproducendone la superficie senza ripercorrere il procedere dell'artista creatore dal primo tessuto dell'opera fino all'epidermide, e riesce perciò il suo lavoro senza quella profondità e sostanza dell'originale. Gli stessi criterî servono anche meglio quando siano da confrontare diverse opere per stabilire quale di esse sia l'originale: né dovranno diventare incerti se si constati che quelle opere, simili in tutte le parti principali, siano differenti tra loro per qualche variante, poiché l'introdurre varianti fu pratica frequente dei copisti, o per negligenza, o per la pretesa d'introdurvi miglioramenti, o perché la copia non sempre poteva esser terminata dinanzi all'esemplare né poteva condursi con l'aiuto di quelle riproduzioni meccaniche che al copiatore moderno consentono maggior fedeltà.
Pure, dopo queste indicazioni di metodo, conviene aggiungere che il giudizio, e non soltanto nei casi più difficili, è condizionato dalla differente finezza e preparazione dei critici; i quali forse mai si potranno accordare nel definire quale sia l'originale dei due ritratti raffaelleschi di Giulio II a Firenze (Gallerie degli Uffizî e di Pitti) o se l'uno e l'altro non siano che ripetizioni diverse d'un esemplare perduto.
Bibl.: M. Prunetti, Avvertimenti per distinguere i quadri originali dalle copie, Firenze 1822; J. v. Schlosser, Zur Kenntnis der künstlerischen Überlieferung im späten Mittelalter, in Jahrb. d. kunsth. Samml. d. allerh. Kaiserhauses, XXIII (1902), p. 279 segg.