Cooperazione
Un fatto da tempo acquisito è che nell’epoca attuale, che si è soliti definire postindustriale o posttayloristica, il fattore di sviluppo principale è la cooperazione, sia quella che si realizza all’interno della singola impresa, sia quella che configura l’intero sistema economico. L’impresa di successo, oggi, è una learning organization, un’organizzazione cioè che fa della creazione e condivisione di conoscenza il proprio fattore di vantaggio comparato, facendo leva sulle motivazioni, estrinseche e intrinseche, di tutti i suoi collaboratori. È la compresenza armoniosa di relazioni cooperative e competitive tra gli stessi lavoratori, oltre che tra lavoratori e impresa, a rendere praticabile il modello della learning organization, alternativo e basicamente diverso da quello fordista, basato sul calcolo dei tempi di lavoro e sull’esecuzione di mansioni codificate in protocolli. Come scrivono Eliakim Katz e Jacob Rosenberg «La produttività di una organizzazione crucialmente dipende dalla cooperazione tra lavoratori» (2004, p. 505).
Anche a livello di sistema economico è oggi acquisito che competizione e cooperazione sono come facce della stessa medaglia. E dunque che l’obiettivo da perseguire è giungere a un modello di competizione cooperativa che valga a sostituire l’ormai obsoleto modello di competizione posizionale, basato sul presupposto antropologico hobbesiano di mors tua, vita mea: occorre sconfiggere l’altro per esaltare se stessi. Al contrario, oggi sappiamo che la cooperazione tra stakeholder è altrettanto importante della competizione tra gli stessi, come ci insegna l’ampia evidenza empirica, la quale indica che esiste una soglia critica nell’intensità competitiva oltre la quale i benefici associati all’aumento dei livelli delle prestazioni sono inferiori agli svantaggi attribuibili alla demotivazione e alla perdita di identità di coloro i quali restano esclusi o emarginati dalla gara del mercato.
Ebbene, nonostante la diffusa percezione dell’importanza strategica della dimensione cooperativa nelle società odierne, il pensiero economico contemporaneo – incluso quello italiano – è sostanzialmente silente, salvo rare eccezioni, su quella istituzione economica che più di ogni altra è valsa, a partire dall’Ottocento, a tradurre in pratica i principi dell’agire cooperativo. Non sfugga il seguente paradosso: per tutto il 19° sec., mentre il movimento cooperativo progrediva lentamente, a livello sia nazionale sia internazionale, la riflessione scientifica sullo stesso è stata massiccia e di alto livello; esattamente il contrario è accaduto durante il 20° secolo. La International cooperative alliance (ICA) viene fondata nel 1895 e a partire dal 1909 inizia la pubblicazione dell’«International cooperative review», che si accompagna a una crescita costante e sostenuta delle imprese cooperative (oggi l’ICA ha 223 organizzazioni membri appartenenti a 87 Paesi che rappresentano circa 800 milioni di soci in tutto il mondo). Eppure, la scienza economica pare ignorare un fenomeno di così vasta portata.
Come spiegare la scarsa attenzione al movimento cooperativo da parte degli economisti, non solo italiani? Non ritengo convincenti – in ogni caso, non sufficienti – le numerose spiegazioni che sono state date al riguardo. Consideriamone un paio. Come noto, il Novecento è stato il secolo di grandi battaglie ideologiche e di accese dispute dottrinarie. Liberalismo, marxismo, socialdemocrazia, anarchismo, conservatorismo hanno gareggiato per l’egemonia culturale scegliendo quale terreno di confronto proprio quello politico-economico. Ciascuna di queste matrici ha cercato di catturare la cooperazione, portandola dalla propria parte. Il che ha finito per danneggiare, e non poco, la cooperazione stessa. Quando il 2 aprile 1918, all’indomani della Rivoluzione d’ottobre, Lenin impose la partecipazione obbligatoria dei lavoratori alle cooperative e quando l’anno successivo, il 20 marzo, ancora Lenin decretò la riorganizzazione della cooperazione di consumo intorno alle ‘comuni’, egli finì per assestare il colpo di grazia al nascente movimento cooperativo il quale poteva tollerare tutto tranne la restrizione dei suoi spazi di libertà. Questo accadeva nonostante la raccomandazione di H. Kaufmann, segretario generale dell’Unione Centrale Tedesca, esposta nel gennaio 1911 sull’«International cooperative review»: «Mai la cooperazione può essere usata come arma nella lotta di classe» e pertanto essa deve stare fuori dal gioco dei partiti. Questo e tantissimi episodi simili sono valsi certamente a tenere lontani l’attenzione e l’interesse degli economisti, sia quelli di scuola neoclassica, sia quelli di scuola keynesiana, sia infine quelli di impostazione marxista, dalla problematica della cooperazione (sia pure per ragioni diverse).
Anche la spiegazione del benign neglect della scienza economica nei confronti della forma cooperativa di impresa basata sulla questione di genere non pare persuasiva. Soprattutto nella prima metà del 20° sec., le cooperative sono state percepite come il modo femminile di condurre l’attività economica, in opposizione all’approccio altamente competitivo, gerarchico e ‘mascolino’ del capitalismo dell’epoca. Catherine Webb, leader storica del movimento delle Gilde femminili, nel gennaio 1914, sempre sull’«International cooperative review», indicava nel cooperativismo la via privilegiata per l’emancipazione economica delle donne e del loro ruolo nella società (MacPherson, MacLaughlin-Jenkins 2008).
Sono dell’avviso che, senza negare una qualche validità alle spiegazioni precedenti, al fondo del ‘buco nero’ entro la teoria economica costituito dall’assenza di uno studio sistemico della cooperazione, vi sia un duplice vizio: l’uno di natura antropologica, l’altro di natura metodologica. Il primo consiste nell’accettazione supina dell’assunto preanalitico (nel senso di Joseph A. Schumpeter) secondo cui tutti gli agenti economici avrebbero preferenze individualistiche e autointeressate; come a dire che tutti i soggetti sarebbero homines economici. Sappiamo invece, e ce ne dà conferma l’amplissima evidenza empirica, che le persone del mondo reale desiderano entrare in cooperativa non solamente per perseguire il proprio interesse, ma anche perché sono genuinamente interessate a vivere valori come democrazia, giustizia sociale, libertà. Come si dirà più avanti fu questo l’imperdonabile errore di non pochi importanti studiosi italiani di fine Ottocento (quali Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni), un errore che non consentì loro di leggere la realtà dell’epoca in modo non ideologico.
D’altro canto, l’errore metodologico è stato quello di pensare di poter confrontare la performance economica dell’impresa cooperativa e di quella capitalistica gemella adottando quale metro di giudizio la nozione paretiana di efficienza allocativa. Ma l’efficienza nel senso di Pareto è stata costruita per essere applicata allo studio dell’impresa capitalistica. In quanto tale, essa non è in grado di catturare la specificità identitaria della cooperativa. È questo l’errore nel quale sono caduti tutti quegli economisti, sia neoclassici sia neoistituzionalisti che, seguendo l’iniziale impulso di Benjamin Ward (1958), sono arrivati fino a Henry Hansmann (1996), passando per Eirik Furobotn, Stan Pejovich (1970; per un efficace inquadramento di storia del pensiero economico sulla cooperazione si veda Magliulo 2010; Jossa 2007). Il fatto è che quello dell’efficienza non è un criterio oggettivo sulla cui base poter costruire ordinamenti di meritorietà tra forme alternative di impresa.
La conseguenza congiunta di tale duplice errore è che la questione cooperativa è stata prevalentemente affrontata sub specie paupertatis: la cooperativa si giustifica e si legittima per la sua capacità di servire la causa dei miseri e degli emarginati sociali, di tutti coloro cioè che non riescono a inserirsi nel modo di produzione capitalistico. In altri termini, se il modo ‘naturale’ di fare impresa è quello capitalistico è evidente che quello cooperativo non può che essere un modo residuale e comunque transitorio. La mutualità (interna) allora è ciò che ultimamente contraddistingue la cooperativa, sancendone la funzione sociale: i soggetti, in qualche senso svantaggiati, si stringono in cooperativa per scoraggiare lo sfruttamento del lavoro a opera del capitale oppure per ottenere migliori condizioni di acquisto dei beni di primaria necessità (non è per caso se le prime cooperative, in Gran Bretagna come in Italia, furono cooperative di consumo). È questa concezione ad aver guidato la penna dell’Assemblea costituente nel momento di scrivere l’art. 45 della Carta costituzionale: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata». In quanto strumento di poor relief, la cooperativa si pone in alternativa alle poor laws di carattere assistenzialistico e/o paternalistico. Ma è evidente che fin quando la cooperativa è identificata dalla sua funzione sociale e l’impresa capitalistica è contraddistinta invece dalla funzione economica, la prima non potrà che accontentarsi di occupare posizioni di nicchia all’interno del mercato e di venire considerata come l’eccezione alla regola – una sorta di brutto anatroccolo da rispettare, ma dal quale non aspettarsi nulla di particolarmente rilevante.
È d’interesse osservare che non fu questa la prospettiva di discorso sulla cooperazione degli economisti della scuola classica. Anziché vedere la cooperativa come rimedio a uno specifico ‘fallimento’ della forma capitalistica d’impresa, gli autori classici da Adam Smith a John Elliott Cairnes e gli italiani Ugo Rabbeno, Giuseppe Mazzini, Luigi Luzzatti, Emilio Nazzani, Antonio Cusumano videro la cooperazione come la regola, e non già come l’eccezione, del modo di fare impresa.
La caratteristica peculiare dell’essere umano civilizzato – scrive John Stuart Mill – è la capacità di cooperazione; e questa, come tutte le altre facoltà umane, tende ad aumentare con l’uso e diventa capace di estendersi a una sempre più ampia gamma di azioni (Principles of political economy [1848], 1987, p. 698).
L’operazione culturale lanciata dagli studiosi ottocenteschi non fu pertanto quella di pensare alla cooperazione come a un gruppo di imprese nelle quali si praticava la mutualità in opposizione al dominante e pervasivo profit motive, ma di leggere e interpretare l’economia di mercato come luogo di cooperazione, prima ancora che di conflitto di interessi. Solamente se si ha chiaro questo punto si può comprendere la celebre profezia di Mill:
Di conseguenza, non c’è nulla di più sicuro tra i cambiamenti sociali del prossimo futuro di una progressiva crescita del principio e della pratica della cooperazione (p. 698).
Sulla medesima falsariga si muove Alfred Marshall quando nel suo saggio Cooperation del 1889 scrive:
Nella cooperativa il lavoratore non produce per altri, ma per se stesso e ciò libera enormi capacità di lavoro scrupoloso e di più alto livello, che il capitalismo comprime. Nella storia del mondo vi è un prodotto sciupato, tanto più importante di tutti gli altri, che ha diritto di essere chiamato il Prodotto Sprecato: le migliori capacità lavorative di gran parte delle classi lavoratrici (p. 130).
È d’interesse notare che la critica di Marshall all’impresa capitalistica è qui fondata sulla nozione di spreco: la forma capitalistica non consente di avvalorare tutto il potenziale del lavoro umano, ma solo una sua parte.
Ebbene, un discorso sensato sulla cooperazione non può porre il proprio fondamento nella funzione sociale della stessa. Deve piuttosto ricercarlo nella funzione civile della cooperazione, cioè nella sua capacità di concorrere in modo decisivo a civilizzare l’economia di mercato. Ciò comporta l’adozione della prospettiva di studio supply-side, anziché di quella demand-side. Secondo quest’ultima, la cooperativa nasce in risposta all’incapacità di imprese, sia capitalistiche sia pubbliche, di far fronte a specifici bisogni sociali oppure di dare soluzione adeguata a particolari situazioni di crisi. In presenza dei ben noti fenomeni di market failures e di government failures, la costituzione di imprese cooperative viene vista come rimedio, più o meno duraturo, ma pur sempre come un rimedio di second best. È questo l’approccio ancora oggi dominante, anche se la sua rilevanza è in forte diminuzione. L’idea centrale è che il giorno in cui si riuscisse a eliminare o quantomeno ad attenuare gli effetti perversi associati alle situazioni di esternalità, di asimmetrie informative, incompletezza contrattuale ecc. non ci sarebbe più bisogno della cooperazione. Quanto a dire che un mercato di concorrenza perfetta non ha bisogno di cooperative per conseguire risultati socialmente ottimali.
La prospettiva di studio supply-side ribalta completamente questa visione delle cose. La cooperativa è creata e mantenuta in vita dalle risorse e dalla passione di persone che pongono la libertà positiva – cioè la libertà per ovvero la libertas electionis – in cima al proprio sistema di valori. A differenza della libertà da, che dice dell’assenza di costrizioni (libertas indifferentiae), la libertà per è la libertà in vista di un fine, che nel caso di specie è il potere di esercitare il controllo sull’attività di impresa. Anche il lavoratore dipendente dell’impresa capitalistica è libero da – dal momento che in un’economia di mercato, nessuno è obbligato ad accettare una data occupazione – ma non è libero di esercitare la propria piena autonomia. È dunque l’interesse primario per la libertà positiva a far nascere le cooperative, che vi sia o meno la sollecitazione proveniente dall’esistenza di bisogni sociali non soddisfatti, oppure da situazioni particolari di insicurezza economica.
In sostanza, l’approccio supply-side dice, basicamente, che quello cooperativo è uno dei modi più avanzati, oggi, di pensare al lavoro umano come occasione di autorealizzazione della personalità e non solo come fattore di produzione dei beni. Già Marshall aveva chiaramente intuito, con la sua analisi del substitution principle, che il lavoro è un input assai particolare perché è, al tempo stesso, mezzo di produzione dei beni e mezzo di creazione del carattere umano. Quanto a dire che chi sceglie di lavorare in cooperativa sceglie anche, implicitamente, di forgiare in un certo modo, piuttosto che in un altro, il proprio carattere. Solamente una visione riduzionista dell’attività lavorativa può far ritenere equivalenti il lavoro inteso come un facere (quello tipico del lavoratore dipendente) e il lavoro come un agere (quello tipico del socio lavoratore di cooperativa).
La linea di pensiero dell’economia civile – una linea squisitamente italiana (si veda Bruni, Zamagni 2004) che affonda le sue radici filosofiche nell’Umanesimo civile del 15° sec. – in quanto fa propria la prospettiva di studio supply-side, rappresenta oggi l’orizzonte culturale più promettente per edificare una nuova teoria della cooperazione in grado di superare le aporie della vecchia teoria della cooperazione. Non è difficile darsene conto. La vecchia teoria pone infatti il proprio fondamento teorico nel mainstream economico, un sistema di pensiero questo che, giudicando non scientifico ogni discorso in cui entrano elementi quali valori, motivazioni intrinseche, sentimenti morali, virtù, mal si presta a funzionare da supporto a una teoria che voglia indagare e spiegare una realtà come quella della cooperazione in cui tali elementi giocano un ruolo decisivo. Ecco perché una teoria non meramente funzionalistica della cooperazione non può che riconoscersi nella prospettiva di studio dell’economia civile.
Un modo per mettere alla prova la valenza esplicativa dell’approccio supply-side è quello di interrogarsi a proposito del fundamentum divisionis tra impresa cooperativa e impresa capitalistica. Sono noti gli elementi identitari che caratterizzano la cooperativa: la governance democratica; lo scambio mutualistico; l’indisponibilità per il singolo socio di accedere alle riserve indivisibili; il principio della porta aperta; la mutualità esterna e pochi altri (nel 1995, l’ICA ha approvato il Cooperative identity statement che oggi funge da metrica dell’identità cooperativa). Ma di cosa sono conseguenza questi elementi? Qual è – direbbe il filosofo – il principio sintetico a priori che dà un senso preciso a queste caratteristiche? (Zamagni 2005).
Per rispondere, conviene partire dalla considerazione che l’azione economica, quale che essa sia, è sempre un’azione comune, «un’azione, cioè, che per essere compiuta ha bisogno del concorso intenzionale di due o più soggetti» (Forme della cooperazione, 2004, p. 14). A ben considerare, è il fatto della divisione del lavoro a conferire alle azioni economiche lo status di azioni comuni. In tal senso, un’economia di mercato che – come noto – è fondata sulla divisione del lavoro è un mondo densamente popolato di azioni comuni.
Seguendo Francesco Viola, tre sono gli elementi identificativi dell’azione comune. Il primo è che essa non può essere condotta a termine senza che tutti coloro che vi prendono parte siano consapevoli di ciò che fanno. Il mero convenire o ritrovarsi di più individui non basta alla bisogna. Il secondo elemento è che ciascun partecipante all’azione comune conserva la titolarità e dunque la responsabilità di ciò che compie. È proprio questo elemento a differenziare quella comune dall’azione collettiva. In quest’ultima, infatti, l’individuo con la sua identità scompare e con lui scompare anche la responsabilità personale di ciò che fa. Il terzo elemento, infine, è l’unificazione degli sforzi da parte dei partecipanti all’azione comune per il conseguimento di uno stesso obiettivo. L’interazione di più soggetti all’interno di un determinato contesto non è ancora azione comune se costoro perseguono obiettivi diversi o confliggenti. Dunque, l’impresa, in quanto possiede tutti e tre questi elementi, è propriamente un’azione comune.
Diversi sono i tipi di azione comune e ciò in relazione all’oggetto della comunanza. Questa, infatti, può realizzarsi intorno ai mezzi oppure intorno ai fini dell’azione stessa. Nel primo caso, l’impresa sarà di tipo capitalistico e la forma che l’intersoggettività assume è, tipicamente, quella del contratto. Come si sa, nel contratto le parti devono bensì concorrere assieme alla sua realizzazione, ma ciascuna persegue fini diversi, spesso contrapposti. Si pensi al contratto di compravendita tra un venditore e un compratore o allo stesso contratto di lavoro. Invece, quando la comunanza è declinata intorno ai fini, si ha l’impresa cooperativa. Si badi che vi è differenza tra la situazione in cui si condivide che ognuno persegua il proprio fine (come accade nella impresa capitalistica) e la situazione in cui si ha un fine comune da condividere. Si tratta della medesima differenza che passa tra un bene comune e un bene pubblico (locale). Nel primo caso, il vantaggio che ciascuno trae dal suo uso non può essere separato dal vantaggio che altri pure da esso traggono. Come a dire, che l’interesse di ciascuno si realizza assieme a quello degli altri, e non già contro come avviene con il bene privato, né a prescindere, come accade con il bene pubblico. In buona sostanza, mentre pubblico si oppone a privato, comune si oppone a proprio. È comune ciò che non è solo proprio, né ciò che è di tutti indistintamente. In definitiva, una cooperativa è tale quando le relazioni di cui consiste sono prodotte da soggetti che si orientano reciprocamente sulla base di una specifica intenzionalità.
Quale la conseguenza, economicamente rilevante, che discende dalla distinzione tracciata? Che quando il ‘comune’ dell’azione si ferma ai soli mezzi, il problema da risolvere, basicamente, è quello della coordinazione degli atti di tanti soggetti. A ciò ha provveduto e provvede la scienza del management, a partire almeno dal pionieristico contributo di Frederick W. Taylor del 1911 (The principles of scientific management) e, nel secondo dopoguerra, da quello di Herbert Simon. D’altro canto, quando il ‘comune’ dell’azione si estende ai fini, il problema che va risolto è come realizzare la cooperazione. A scanso di equivoci, è bene precisare che la nozione di cooperazione, quale qui intesa, non va confusa con la cooperazione di cui parla la teoria dei giochi. Come noto, cooperativo è un gioco quando esiste un qualche meccanismo di enforcement per far rispettare gli impegni presi dai giocatori, ognuno dei quali, però, persegue un fine che diverge da quello degli altri. Per dirla in termini formali, un problema di coordinazione nasce dall’interdipendenza strategica di più soggetti; un problema di cooperazione, invece, nasce dalla loro interdipendenza assiologica. Come a dire che nella cooperazione, quale qui intesa, l’intersoggettività è un valore; nella teoria dei giochi essa è una circostanza.
Ora, come Ekkehart Schlicht (2003) lucidamente dimostra, il problema basilare che un’organizzazione d’impresa deve risolvere è quello della ‘coerenza psicologica’ tra norme sociali e stili di lavoro, da un lato e comandi e regole formali, dall’altro. Ebbene, si dimostra che il modello della coordinazione non scongiura affatto il rischio dell’incoerenza psicologica e quindi il rischio dell’inefficienza organizzativa (si veda, per es., Dassein, Santos 2003). Il modello della cooperazione, invece, offre una tale garanzia perché esso concede ai lavoratori quella discrezione decisionale che è necessaria per adattarsi alle circostanze locali. L’adattamento, infatti, richiede sempre l’uso di informazione locale associata a un particolare compito, informazione che appartiene esclusivamente al lavoratore adibito a quel compito. È ormai risaputo che, date le caratteristiche dell’attuale traiettoria tecnologica, uno dei problemi centrali dell’impresa moderna è quello di come adattare reciprocamente disegno organizzativo e struttura produttiva e ciò allo scopo di sfruttare al meglio le complementarità potenziali tra le risorse (Trento, Warglien 2001). E rispetto a tale problema il modello della cooperazione si dimostra decisamente superiore a quello della coordinazione.
Alla luce di quanto precede si può comprendere agevolmente l’influenza negativa di posizioni quali quelle di Pantaleoni e Pareto, i più noti e autorevoli tra gli economisti italiani a cavallo tra i due secoli. Celebre è rimasta la sentenza di Pantaleoni secondo cui
le imprese cooperative […] sono imprese economiche, cioè non sono opere di beneficenza, o istituzioni caritative. Come ogni altra impresa economica, le società (o associazioni) cooperative tendono a conseguire fini prettamente economici in modo economico, cioè sono organizzazioni tendenti a produrre beni economici con un costo minore di quello che con altri mezzi si potrebbe, a vantaggio di coloro che dell’impresa sono soci. In altri termini, è l’egoismo la forza che le crea e che, in seguito, le tiene in vita; è l’interesse individuale la forza di cui esse sono una manifestazione (Esame critico dei principi teorici della cooperazione, in Id., Erotemi di economia, 2° vol., 1898 [1925], pp. 132-33, cit. in Magliulo 2010, p. 35).
Non sostanzialmente diverso è il giudizio di Pareto sulle cooperative:
L’opera dei cooperatori deve essere messa tra quelle che in sociologia chiamo non-logiche. Gli effetti sono buoni e le ragioni che danno non valgono niente (Lettera del 16 dicembre 1897, 318, in Lettere a Maffeo Pantaleoni 1890-1923, a cura di G. De Rosa, 2° vol., 1962, pp. 131-32; cit. in Magliulo 2010, p. 34).
In sintesi estrema, la tesi paretiana può essere così resa: in un mercato perfettamente concorrenziale le cooperative non avrebbero ragione d’esistere – ciò consegue dalla teoria walrasiana dell’equilibrio economico generale; se esistono, è perché i mercati sono imperfetti. Ne deriva che le cooperative sono enti bensì utili, ma la cui esistenza non ha fondamento logico-economico. Pare impossibile che studiosi di così alto spessore intellettuale siano potuti cadere vittime, (forse) senza rendersene conto, dei due vizi sopra elucidati.
A poco sono valsi i tentativi generosi di autori come Rabbeno, Ghino Valenti, Giovanni Lorenzoni, Achille Loria, Ulisse Gobbi di modificare, almeno in parte, quel giudizio estremo. Occorrerà attendere il secondo dopoguerra inoltrato perché gli argomenti sviluppati da costoro riescano ad avere la meglio su quelli del duo Pantaleoni-Pareto. È comunque un fatto che l’ipoteca pantaleoniana finì con il gettare un lungo cono d’ombra sull’avanzamento degli studi di teoria economica sul tema in questione. Tanto che un economista importante come Francesco Vito, attento come pochi a porre le basi di una Economia a servizio dell’uomo – è il titolo della sua celebre opera del 1946 – arriverà a scrivere:
Democrazia è governo di popolo: lo stesso principio si invoca per la vita dell’impresa. Anche qui vi deve essere partecipazione al governo da parte dei lavoratori cui va riconosciuta la facoltà di inviare i propri rappresentanti nell’organo direttivo dell’impresa. È difficile poter accettare questa argomentazione. Essa mostra di ignorare la diversità di elementi che operano nella gestione dell’impresa, da una parte, e nella condotta della vita politica, dall’altra (cit. in Magliulo 2010, p. 47).
Eppure, se il principio democratico ha un senso, non si vede perché esso debba averlo nella sfera politica e non anche in quella economica. È ovvio che i modi d’esercizio della democrazia nelle due sfere saranno diversi ma ciò non intacca la cogenza valoriale del principio.
Si pone la domanda: come fare per risolvere positivamente un problema di cooperazione? Bratman (1999) dà una risposta convincente quando indica le tre condizioni seguenti. In primo luogo, ciascun partecipante all’azione comune assume come rilevante, e quindi meritevole di rispetto, le intenzioni degli altri e sa che ciò è reciproco. È questa la condizione di mutual responsiveness, per la quale non basta che i soci intendano fare la stessa azione; occorre anche che vogliano farla insieme. In secondo luogo, ciascuno si impegna in un’attività congiunta – sia pure per ragioni diverse – e sa che anche gli altri intendono fare lo stesso. È il commitment to the joint activity, secondo cui è di fatto impossibile quantificare il contributo specifico di ciascuno al prodotto congiunto. Infine, ognuno si impegna ad aiutare gli altri nei loro sforzi così che il risultato finale possa essere conseguito al meglio (commitment to mutual support). Si osservi che l’aiuto reciproco deve manifestarsi mentre si svolge l’attività congiunta, non a latere, né al termine dell’azione. Tale impegno non va dunque confuso né con l’atteggiamento autointeressato, né con l’altruismo disinteressato. Essendoci una congiunzione degli interessi, nel prestare il proprio aiuto agli altri si continua a perseguire il proprio interesse. In altri termini, il socio cooperatore proprio in ragione della preoccupazione per il suo benessere si interessa del benessere degli altri soci (Dworkin 1992). È questa la specifica interpretazione del principio di reciprocità che l’impresa cooperativa attua (per un approfondimento, rinvio a Zamagni, in Complessità relazionale e comportamento economico, 2002).
Cosa deve fare una cooperativa per soddisfare queste condizioni? Per un verso, deve rendere pervia la via della comunicazione tra i soci cooperatori adottando la via della deliberazione; per l’altro verso, deve impegnarsi a praticare l’equità, evitando sia l’asservimento sia lo sfruttamento (Forme della cooperazione, 2004). Secondo Joshua Cohen (in The good polity, 1989), la cooperazione si basa sulla «deliberazione focalizzata sul bene comune» in cui chi vi partecipa si dichiara disponibile a mettere in gioco le proprie preferenze iniziali, perché «le preferenze e le convinzioni rilevanti sono quelle che emergono da o sono confermate per mezzo della deliberazione» (p. 69). Come suggeriscono Timothy Besley e Maitreesh Ghatak (2005), una ‘missione’ consta di un insieme di attributi di un progetto tale che i soggetti che prendono parte alla sua realizzazione valutano il suo successo al di là del reddito monetario che essi ricevono dalla realizzazione del progetto stesso. In tal senso, la cooperativa può essere vista come un’organizzazione mission-oriented che trae forza dalle motivazioni intrinseche degli agenti. Motivato è l’agente che persegue un determinato fine perché sa che vi è un beneficio intrinseco nel fare una certa cosa o nel comportarsi in un certo modo. Chiaramente, l’esistenza di una missione, mentre riduce il bisogno di negoziare schemi di incentivo pecuniario, aumenta l’importanza, al fine di ottimizzare lo sforzo degli agenti, degli aspetti non pecuniari dell’assetto organizzativo d’impresa.
È questa un’eventualità che Robert Gibbons (1998), entro un diverso contesto di discorso, dimostra di non escludere affatto quando scrive:
Una possibilità che preoccupa è che le pratiche di management basate sui modelli economici [tradizionali] possono ridurre o anche distruggere realtà non economiche come le motivazioni intrinseche e le relazioni sociali (p.130).
È un fatto che nell’attuale economia della conoscenza le imprese investono risorse crescenti per migliorare la qualità delle relazioni tra lavoratori, dentro e fuori il luogo di lavoro (si pensi alle varie pratiche di team building). Ed è del pari noto che gli schemi di compensazione basati sulla performance individuale sono assai meno diffusi degli schemi di compensazione di squadra. Ciò per l’ovvia ragione che il successo di impresa dipende sempre più dal capitale di connessione (connective capital), che è la somma del capitale umano del singolo lavoratore e del capitale di relazione, cioè dell’insieme degli investimenti che il singolo effettua per collegarsi agli altri (Becchetti, Gianfreda, Pace 2012). L’impresa cooperativa da sempre ha dimostrato di saper porre in atto tali comportamenti (S. Zamagni, V. Zamagni 2007).
Può essere d’interesse conoscere che, già da qualche tempo, nel mondo occidentale, si va parlando di un nuovo modello di economia di mercato, noto come capitalismo condiviso (shared capitalism). Douglas Kruse, Richard Freeman e Joseph Blasi (2008) definiscono il capitalismo condiviso come un sistema di incentivi organizzativi che mira ad allineare gli interessi dei dipendenti e quelli dei proprietari attraverso la condivisione sia del residuo sia della partecipazione dei dipendenti ai processi decisionali. L’evidenza empirica, a tutt’oggi disponibile, mostra che, laddove applicato, questo modello organizzativo accresce significativamente il valore di indicatori quali la lealtà, la produttività, la soddisfazione del lavoro, la remunerazione e altri ancora. La nozione di shared value (valore condiviso) di cui parlano oggi Michael E. Porter (Porter, Kramer 2011) e i cultori dello humanistic management, è tipicamente italiana, legata com’è alla tradizione aziendalistica italiana e, più in generale, alla linea di pensiero dell’economia civile. L’idea del valore condiviso ha visto nel cooperativismo la forma più alta e più avanzata di realizzazione.
Nel contesto di economie di mercato quali sono quelle che oggi conosciamo, è possibile che imprese il cui modus operandi è fondato sul principio di mutualità (interna ed esterna) riescano, non solamente a sopravvivere, ma anche a espandersi? In altro modo, quale spazio possono conquistarsi imprese di tipo cooperativo in un ambito come quello economico dove la spinta all’impersonalità e all’adozione di codici non democratici è ancora così forte? Conosciamo la risposta di coloro che si riconoscono nella linea di pensiero Polanyi-Hirschman-Hirsch-Hollis, per citare solamente gli autori più rappresentativi. L’idea centrale di costoro è che gli agenti economici, intervenendo nel mercato regolato dal solo principio dello scambio di equivalenti, e non anche dal principio di reciprocità, sono indotti ad adottare comportamenti esclusivamente autointeressati. Con l’andare del tempo, essi tenderanno a trasferire questi modi ad altri, anche a quelli che inizialmente fossero governati da atti virtuosi (virtuoso è l’atto che non semplicemente è nell’interesse comune, ma che è compiuto perché è nell’interesse comune). È questa la tesi del contagio così cara a Karl Polanyi secondo cui: «il mercato avanza sulla desertificazione della società». È questa anche la posizione teorica di Bruno Jossa che tuttavia parte da una diversa prospettiva di sguardo. Per l’economista napoletano la vera ragion d’essere della cooperazione non è tanto nello scopo mutualistico – vera e propria invenzione, per Jossa, dei cultori del diritto escogitata per assegnare un’adeguata collocazione giuridica all’impresa cooperativa – quanto piuttosto nel fine ultimo di superare, per mezzo dell’abolizione della divisione in classi della società, il sistema capitalistico. In altri termini, la cooperazione è vista come strumento privilegiato per giungere, per via democratica e non rivoluzionaria, alla società socialista (Jossa 2005 e 2010).
Come si comprende, se avessero ragione questi autori, ben poche sarebbero le speranze di poter dare una risposta positiva all’interrogativo sopra posto. Ma, per fortuna, la situazione non è così disperata come potrebbe apparire a prima vista. In primo luogo, l’argomento che regge la linea di pensiero qui in discussione sarebbe accettabile se si potesse dimostrare che esiste un nesso causale tra disposizioni e istituzioni che risparmiano le virtù, un nesso in forza del quale si potesse arrivare a sostenere che, operando sul mercato capitalistico, gli agenti arrivano, con il tempo, ad acquisire per contagio una costituzione morale prettamente individualistica. Ora, a prescindere dalla circostanza che una tale dimostrazione non è mai stata prodotta, il fatto è che persone con disposizioni virtuose, agendo in contesti istituzionali in cui le regole del gioco sono quelle classiche del mercato capitalistico, tendono a ottenere risultati superiori rispetto a quelli ottenuti da soggetti mossi da disposizioni egocentriche. Un esempio, per tutti: si pensi alle molteplici situazioni descritte dal dilemma del prigioniero. Giocato da soggetti non virtuosi – nel senso sopra specificato – l’equilibrio cui essi arrivano è sempre un risultato subottimale. Giocato invece da soggetti che attribuiscono un valore intrinseco, cioè non solo strumentale, alla strategia cooperativa il medesimo gioco conduce alla soluzione ottimale. Generalizzando, il fatto è che il soggetto virtuoso che opera in un mercato che si regge sul solo principio dello scambio di equivalenti ‘fiorisce’, perché fa ciò che il mercato premia e valorizza, anche se il motivo per cui lo fa non è il conseguimento del premio. In tal senso, il premio rafforza la disposizione interiore, perché rende meno ‘costoso’ l’esercizio della virtù.
In secondo luogo, la tesi di Polanyi e degli altri studiosi sopra citati esige, per essere valida, che le disposizioni virtuose conseguano ai comportamenti, mentre è vero esattamente il contrario. Neppure il behaviorismo più spinto arriva a sostenere che il comportamento è un prius rispetto alle disposizioni d’animo. Non solo, ma se quella tesi fosse vera, non si riuscirebbe a spiegare perché, nelle condizioni storiche attuali caratterizzate dalla dominanza di istituzioni che ‘economizzano la virtù’, si assiste a una fioritura delle organizzazioni di volontariato, delle cooperative, delle cooperative sociali, delle imprese sociali, delle organizzazioni non governative – cioè degli enti non-profit. Questo accade perché la natura di ciò che induce l’attore a scegliere di comportarsi in modo virtuoso è rilevante. Infatti, che un soggetto si comporti in modo virtuoso per paura della sanzione (legale o sociale che sia) oppure perché intrinsecamente motivato a comportarsi in tal modo fa differenza e tanta.
È per certi aspetti paradossale che la cooperazione abbia prodotto molta più cultura, cioè pensiero pensante, durante l’Ottocento che non durante il Novecento, quando non ha saputo resistere al richiamo e alle tentazioni del pensiero calcolante. Certamente non è stato un errore aver dedicato così tante attenzioni (e investimenti) alla formazione manageriale dei quadri e dei dirigenti perché si dotassero delle più sofisticate tecniche di gestione e di organizzazione. L’errore – semmai – è stato quello di non aver compreso che le discipline manageriali non sono neutrali rispetto alla forma istituzionale di impresa alla quale si vanno ad applicare. La scienza tayloristica del management è nata e si è articolata per le esigenze specifiche dell’impresa capitalistica. Come si è potuto allora pensare che gli stessi strumenti e il medesimo impianto di discorso potessero andare altrettanto bene per l’impresa cooperativa? L’errata interpretazione di un fenomeno genera sempre un’errata individuazione dei problemi da affrontare e spinge ad azioni generatrici di effetti perversi (si pensi alle conseguenze nefaste dell’isomorfismo organizzativo).
Sarebbe veramente paradossale che, in una fase storica come l’attuale, caratterizzata dalla fine del taylorismo e nella quale l’impresa capitalistica inizia ad adottare principi organizzativi che sono propri del DNA dell’impresa cooperativa, quest’ultima continuasse a rincorrere lo stile di governo della prima. Ecco perché c’è bisogno di una nuova, cioè diversa, teoria economica della cooperazione. E non v’è chi non veda come il contributo del pensiero economico italiano sia a tale fine semplicemente indispensabile.
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