Convivio
. Opera conclusiva di esperienze giovanili e fattivamente aperta a sviluppi ulteriori, fu concepita da D. durante i primi anni dell'esilio come un'unitaria summa di saggezza pratico-operativa, sviluppata intorno ad alcune liriche per mezzo del loro commento prosastico. Le liriche, che rappresentano strutturalmente i centri organizzativi della materia da trattare, erano state composte a Firenze assai prima della condanna all'esilio senza nessuna preoccupazione del commento che D. penserà di organizzare molto più tardi. Le prose, invece, che espongono la sentenza letterale e la sentenza ‛ vera ', allegoricamente espressa, di tali liriche, si fanno risalire agli anni 1304-1307, secondo la oramai indiscussa cronologia fissata da M. Barbi. L'opera, con questo titolo, viene esplicitamente citata in I I 16 la presente opera, la quale è Convivio nominata, e IV XXII 1.
Struttura e Contenuto. - D. aveva stabilito che le liriche commentate sarebbero state quattordici (cfr. I I 14 La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata, cioè quattordici canzoni); l'opera quindi avrebbe dovuto comporsi di quattordici trattati, ognuno a commento di una canzone, preceduti da un trattato proemiale, che avrebbe permesso, tra l'altro, una possibile partizione ternaria di tutta l'opera. Come D. poi avrebbe portato avanti e compiuto il suo giuoco strutturale, scomponendo o ricomponendo in parti più o meno unitarie il risultante numero 15, non è dato neppure di supporlo: il C. è rimasto incompiuto e i trattati scritti sono soltanto quattro: il proemio e, in ordine, il commento alle canzoni: Voi,che 'ntendendo; Amor, che ne la mente; Le dolci rime. Possiamo soltanto osservare che nel commento la suddivisione dei capitoli ripete il numero 15: quindici capitoli per il secondo trattato, quindici per il terzo, e trenta - cioè 15+15 - per il quarto. Qualcosa di più si potrebbe forse aggiungere se conoscessimo almeno le ulteriori undici canzoni prescelte per il commento. Ma niente è rimasto a indicare, sia pure alla lontana, le intenzioni di Dante. I vari critici, dal Boccaccio in poi, si sono affaticati in supposizioni e contrassupposizioni tanto astruse e arbitrarie da giustificare le parole del Barbi, che definivano tale ricerca un " almanaccare a vuoto ".
E in realtà ben poco si può dire intorno ai trattati non mai scritti: abbiamo qua e là alcuni accenni danteschi, ma così vaghi e indefiniti che offrono scarso aiuto, e d'altra parte riguardano soltanto gli argomenti che avrebbero dovuto essere svolti nel settimo, nel quattordicesimo e nel quindicesimo trattato. È probabile, come già è stato detto, che la definizione e l'elogio della temperanza sarebbero stati al centro del settimo trattato, così come la definizione e l'elogio della liberalità avrebbero potuto essere gli argomenti conclusivi di tutto il libro; ma, per quello che D. ne dice, è anche questo un eccedere in precisione. Soltanto per il quattordicesimo si può dire con una qualche certezza che D. lo avrebbe dedicato alla giustizia: Di questa vertù [la giustizia] innanzi dicerò più pienamente nel quartodecimo trattato (I XII 12), e però che di giustizia nel penultimo trattato di questo volume si tratterà (IV XXVII 11). Il settimo, a non volere usare troppa fantasia, poteva incentrarsi sulla temperanza come su qualsiasi altra virtù o anche sui piaceri d'amore; D. vi accenna in IV XXVI 8 E così infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea... .E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà. Il richiamo, evidentemente, inquadra un particolare e non il centro della materia; difficile dunque trarne deduzioni, specie se teniamo presente che lo stesso argomento del quattordicesimo, così chiaramente espresso nei due luoghi sopraccitati, difficilmente lo si sarebbe potuto dedurre dalla terza citazione che abbiamo in II I 4 E perché questo nascondimento [l'allegoria] fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Da queste parole avremmo piuttosto concluso che D. nel penultimo trattato avrebbe parlato della poesia o dell'arte in genere o della bellezza. Anche in relazione all'ultimo trattato l'ipotesi corrente secondo la quale D. avrebbe parlato in esso della liberalità, è tutt'altro che indiscutibile. I due passi in cui D. fa riferimento alla materia del quindicesimo trattato lasciano troppo libero spazio alla fantasia. Al passo I VIII 17 si legge: Perché sì caro costa quello che si priega, non intendo qui ragionare, perché sufficientemente si ragionerà ne l'ultimo trattato di questo libro, e in III XV 14: Ove è da sapere che li costumi sono beltà de l'anima, cioè le vertudi massimamente, le quali tal volta per vanitadi o per superbia si fanno men belle e men gradite, sì come ne l'ultimo trattato vedere si potrà.
Il fatto è che i richiami interni, che D. istituisce tra un trattato e l'altro, non sono sufficienti a chiarire lo svolgersi progressivo dell'argomentazione, ma ne documentano la programmazione organica, prefissata da D. fin nei corollari di più lontana derivazione e forse negli stessi incisi da inserire quasi ad allentare i freni di un discorso troppo logicamente chiuso, e ad acquistare all'autore la libertà di giungere dovunque l'interesse o la curiosità dialettica lo spingessero. Tali richiami restano per noi testimonianze di un metodo di lavoro, ma non sono utilizzabili ai fini di una ricostruzione della struttura sia pure latamente contenutistica delle parti non scritte.
Quando poi dalla ricerca degli argomenti possibili, si tenta di pervenire a uno scavo più profondo che possa indicare le canzoni che D. poteva e doveva avere già scelto e che rappresentavano una parte già nota e diffusa della sua produzione lirica (cfr. I I 10-11 per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata... intendo fare un generale convivio di ciò ch'i' ho loro mostrato) la questione si fa sempre più buia, anche per i trattati settimo quattordicesimo e quindicesimo dei quali si conosce vagamente l'argomento. Fra le canzoni che avevano qualche probabilità di essere state scelte a far parte del C. il Barbi indicava Tre donne intorno al cor per il XIV trattato sulla giustizia - e questa resta, a mio avviso, l'unica indicazione valida -; Doglia mi reca per l'ultimo trattato che, secondo il Barbi, avrebbe discusso sulla liberalità o sulla vera leggiadria; e infine Poscia che amor, per la quale il Barbi stesso diceva impossibile assegnare un trattato. Il Contini accetta le ipotesi del Barbi e aggiunge nel novero delle canzoni possibili Amor, che movi tua virtù da cielo; " Sarà stata destinata al commento del Convivio - afferma -; ma non possiamo immaginare in quale trattato ". I due studiosi non fanno altre ipotesi e niente dicono sulle altre sette canzoni che D. avrebbe inserito nel commento. Volendo restare entro un margine di fondatezza filologica anche le ipotesi già fatte sembrano troppo ardite. V. inoltre sotto la voce RIME.
I quattro trattati scritti documentano a sufficienza che D. seguiva, organizzando liriche e prose, una logica piuttosto poetica che dialettica. Basti osservare la profonda frattura che divide il quarto trattato dai due precedenti, senza tener conto del primo, che per il suo valore proemiale esula di per sé dallo sviluppo dei trattati seguenti. Il secondo e il terzo trattato formano un blocco unico. Raccontano due momenti diversi della stessa storia d'amore; raccontano e spiegano il nuovo amore che ha legato D. alla bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia (II XV 12) dopo che il primo conforto della sua anima, Beatrice, era salita oltre la spera che più larga gira (Vn XLI 10). Il secondo e il terzo trattato rappresentano, in un certo particolare senso, il seguito della Vita Nuova; il quarto invece si muove su tutt'altro tono per indagare intorno alla vera nobiltà. L'amore da esperienza vissuta diviene speculazione e teoria. Avendo impostato l'opera come ‛ confessione ' per ‛ cessare ' grande infamia o pericolo, secondo l'esempio di Boezio, e per dare agli altri grandissima utilitade... per via di dottrina, secondo l'esempio di Agostino (cfr. I Il 13-14), D. non ha impacci o limiti alla propria libertà costruttiva.
Il C., come la Vita Nuova prima e la Commedia poi, vuole tracciare la storia di un'anima e, in particolare, la storia dell'anima di D. ‛ in itinere ' verso la perfezione, conquistata nella piena consapevolezza che ogni età ne possiede una propria la quale, nel contempo, è preparazione o gradino per raggiungere la perfezione dell'età seguente. Così, se il secondo e il terzo trattato avevano svolto il processo di argomentazione entro la trama narrativa della ‛ battaglia dei sospiri ' (fra il nuovo pensiero d'amore e l'antico pensiero per Beatrice ormai morta) e della ‛ loda ' (in esaltazione della nuova donna), mentre il quarto segna una stasi, un periodo di ripensamento, e si distacca dalla trama narrativa; nel quinto o nel settimo o in qualsiasi altro dei trattati successivi D. avrebbe potuto tornare alla storia del suo amore; e poi di nuovo alternare alla narrazione di momenti, diciamo così, attivi, la narrazione di momenti passivi o di ripensamento. La struttura avrebbe così dato concreta rappresentazione alla vita dello spirito, le cui conquiste non procedono secondo una linea ascensionale unica e diritta, ma piuttosto sul ritmo franto di una scala i cui gradini segnano tanti momenti di arresto, quasi di riposo a prender fiato per il passo successivo. Questa immagine è quella stessa che D. suggerirà nella Commedia: Io veggio ben che già mai non si sazia / nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia. / Posasi in esso, come fera in lustra, / tosto che giunto l'ha; e giugner puollo: / se non, ciascun disio sarebbe frustra. / Nasce per quello, a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio; ed è natura / ch'al sommo pinge noi di collo in collo (Pd IV 124-132). La linea costruttiva dell'opera e le liriche che avrebbero dovuto sorreggere tale linea costruttiva, allo stato attuale delle ricerche, rappresentano un problema privo di soluzione o, se vogliamo, con troppe soluzioni possibili.
I quattro trattati, che compongono il C., furono scritti secondo il procedimento scolastico: si pone cioè una quaestio, che poi viene partita e discussa nei vari articula fino alla responsio conclusiva. Al primo trattato di proemio D. aveva affidato più funzioni: 1) difendere la propria reputazione di uomo e di poeta dopo l'infamante condanna all'esilio; 2) dedicare l'opera al pubblico più adatto; 3) accennare a una specie di rapporto di continuità fra la sua attività giovanile e la presente; 4) giustificare l'uso di una lingua non ancora sperimentata a tale scopo, quale era il volgare del sì, in un'opera di nobile contenuto dottrinario, di ricerca di verità dimenticate o ignorate. I tredici capitoli del primo trattato sono così suddivisi: I: Dedica, titolo dell'opera, rapporto con la Vita Nuova. II-IV: difesa dell'autore costretto a parlare di sé stesso e a parlare troppo profondamente. V-XIII: difesa dell'uso del volgare invece del latino nelle prose di commento. Anche a una lettura superficiale appare evidente che la grossa questione del primo trattato è la questione della lingua. Ma D. intreccia sempre i tre motivi fondamentali: difesa di sé stesso e del proprio volgare in vista dell'utilità del pubblico a cui si rivolge. Anzi la difesa propria e del volgare trovano giustificazione soltanto nella scelta del pubblico, che si compone di coloro che erano rimasti nell'umana fame di saggezza, perché impediti da cure familiari o civili (cfr. I I 4), e nobili nel loro cuore, principi, baroni, cavalieri, e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non litterati (I IX 5). È dunque in favore di tale pubblico che D. difende la propria fama al fine di dimostrarsi degno di fede, e spiega come nel desiderio di dare a quel pubblico utile ammaestramento narrando la propria esperienza personale è ancora costretto a parlare di sé e a usare il volgare.
Pur con le differenze di contenuto e d'impegno imposte dal maturarsi dell'autore negli anni e dal suo allontanarsi dall'età fervida e passionata, non v'è dubbio che il C. rappresenta una fase evolutiva dello stesso atteggiamento spirituale che aveva ispirato la Vita Nuova: resta cioè dominante il desiderio della confessione vista come esperienza edificante per sé e per gli altri. Anzi, ciò che nella Vita Nuova era visto quasi come sognando, è ora acquisito in piena consapevolezza, tanto da chiedere appoggio e autorità esemplare a Boezio e a s. Agostino. Questi gli auctores che D. imita nella concezione e nella stesura dell'opera (cfr. I II 13-14): come Boezio egli ha la necessità storica di difendere la propria innocenza contro ogni detrattore; come Agostino ha la necessità e la possibilità di ammaestrare, d'insegnare la via della vera felicità agli altri per mezzo della propria esperienza di vita. È l'esilio che impone tale difesa, così come è l'esilio che impone un parlare fin troppo difficile; D. deve ripristinare una fama impoverita, invilita dal suo essere stato costretto a mostrarsi quasi a tutti li Italici... per che fatto mi sono più vile forse che 'l vero non vuole... onde le mie cose sanza dubbio meco sono alleviate (I IV 13). La fama infatti è tale che aumenta per colui di cui ben poco si conosce direttamente, e diminuisce nel bene e nel male in relazione alle persone per le quali il sentito dire non ha valore, perché sono note in maniera diretta. Al propagarsi e al restringersi della fama, D. dedica tutto il IV capitolo, che così è una specie di sacca, di inciso nello sviluppo del ragionamento; d'altra parte, privo di questo inciso, il ragionamento stesso avrebbe perso di consequenzialità. È un metodo di logica ragionativa che D. sperimenta ora per la prima volta, ma che diventerà la base della struttura d'argomentazione della Commedia.
Con il V capitolo D., come abbiamo detto, affronta il problema del volgare, affermando di dover difendere il commento che sta per presentare da una macula sustanziale, cioè da l'essere vulgare e non latino (I V 1). D. inizia dunque la difesa del volgare accettando una riconosciuta inferiorità di esso nei confronti del latino. (Quando nel De volgari Eloquentia vuole attribuire al volgare la massima dignità e dichiararlo nobilior del latino, deve ricorrere all'opposizione tra locutio primaria, cioè il volgare che si apprende dalla nutrice, e locutio secondaria... quam Romani gramaticam vocaverunt, che si apprende in un secondo momento, non è comune a tutti ed è potius artiflcialis: cfr. VE I I 3-4). Poi D. giustifica la sua scelta per tre ragioni fondamentali: cautela di disconvenevole ordinazione; prontezza di liberalità; naturale amore alla propria loquela. Soltanto la prima l'impegna come artefice in relazione all'opera da fare; le altre due l'impegnano piuttosto come artefice in relazione a sé stesso e agli altri. Essendo le liriche che era sua intenzione di commentare scritte in volgare, non poteva usare per la prosa intesa a espone dette liriche una lingua più nobile, più virtuosa e più bella di quella in cui le liriche erano state composte. In più il latino avrebbe portato l'esposizione delle liriche a un pubblico che non era in grado di leggerle (a tutti coloro cioè che pur conoscendo il latino non conoscevano il volgare del sì) e l'avrebbe negata a molti che, pur conoscendo il volgare, non capivano il latino. D'altra parte i letterati, coloro che avevano l'abito e la dottrina del latino, avrebbero avuto meno bisogno degli altri dell'interpretazione delle liriche offerta dalla prosa, appunto perché addottrinati. Insomma un commento latino a poesie in volgare sarebbe stato sconveniente e avrebbe trovato prima o poi un volgarizzatore: anche questo timore spinge D. all'uso della propria loquela. C'è quindi una coscienza d'artista che rifiuta l'uso del latino in questa particolare condizione. C'è poi la sua coscienza di uomo che gl'impone di liberamente donare all'altro uomo, però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico (I I 8), per quello che può, della saggezza che si è conquistata. Questa liberalità gioiosa di donare si legava anch'essa all'uso del volgare, in quanto soltanto il volgare avrebbe dato a molti, avrebbe dato cose utili e senza che il dono fosse stato richiesto da alcuno. Gli ultimi quattro capitoli del primo trattato, dedicati a spiegare come l'amore naturale alla propria loquela abbia imposto a D. l'uso del volgare, si risolvono nell'elogio del volgare stesso, non certo inferiore in bellezza ai volgari d'oltralpe, e con possibilità di perfezione quanta il latino. Detto che l'amore si dimostra magnificando l'amato, essendone geloso e difendendolo dai detrattori, D. scaglia una violenta invettiva - tutto il capitolo XI - contro i malvagi uomini d'Italia che lodano il volgare altrui e dispregiano il proprio; il quale, s'è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri (I XI 21). L'amore che D. ha per il volgare non è solo amore, ma è amore perfettissimo, in quanto hanno operato in lui le cause generative di ogni amore, che sono la vicinanza (e niente gli è stato più vicino del volgare) e la bontà (e la bontà del volgare è quella di potersi piegare a ben esprimere ogni concetto della mente); come quelle accrescitive, che sono il ricevere beneficio, la comunanza di studio e la consuetudine. D. ha raggiunto per mezzo del volgare le due perfezioni proprie dell'uomo: l'essere (in quanto il volgare ha aiutato l'unione dei suoi genitori) e l'essere buono (in quanto per mezzo del volgare D. ha appreso l'uso del latino che introduce alla dottrina e alla scienza e quindi all'essere buono). Ha avuto con il volgare una continua comunanza di studio, in quanto, usandolo in poesia, D. lo ha fissato, cristallizzandolo ed evitandogli il mutamento troppo veloce, cioè conservandolo; né il volgare avrebbe avuto altra cura - se gli fosse stato dato di averla - che quella della propria conservazione. In quanto alla consuetudine, nulla ha avuto con D. maggiore consuetudine del volgare, che egli ha usato fin dall'inizio della vita. E il primo trattato si chiude con il famoso elogio in cui il volgare è visto come la loquela pronta e adatta a prendere il posto del latino, ormai difficile a essere compreso da tutti: Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce (I XIII 12).
La canzone Voi, che 'ntendendo è la materia del secondo trattato. La cronologia della lirica porta indietro negli anni, sul finire dell'estate del 1293, per dar credito a quello che D. dice nel commento: la stella di Venere due fiate rivolta era in quello suo cerchio che la fa parere serotina e matutina, secondo diversi tempi, appresso lo trapassamento di quella Beatrice beata (II II 1). Il nuovo amore per la ‛ Donna gentile ' cantata nelle prime due canzoni del C. è dunque nato dopo l'8 agosto 1293; e a poco tempo dopo, forse ai primi del 1294, risale la composizione delle liriche. Tuttavia il problema critico intorno a Voi, che 'ntendendo, non è un problema di cronologia, bensì storico-interpretativo. Essendo infatti la ‛ battaglia dei pensieri ' il centro tematico, e la prosa di commento tutta intessuta sul motivo del vecchio amore per Beatrice superato e vinto dal nuovo amore, con richiami continui, cioè, alla Vita Nuova, è evidente che la questione chiave è se nell'aneddotica poetica, fissata da D. per la propria vita, egli voglia o non voglia far coincidere il penultimo episodio della Vita Nuova (il ‛ vilissimo pensiero ' per la ‛ donna pietosa ', capp. XXXV-XXXIX) con la storia d'amore narrata nel II e III trattato del Convivio. La questione s'intorbida e s'intreccia con un altro grosso problema: quello dell'allegoria. Il fatto è che subito, nel primo capitolo di questo secondo trattato, D. pone la definizione dell'allegoria e la netta partizione in allegoria dei poeti e allegoria dei teologi. Egli dichiara di usare l'allegoria dei poeti, che è una veritade ascosa sotto bella menzogna. Abbiamo cioè la narrazione di un fatto, di una storia non mai accaduti o non accaduti in quel determinato modo, e quindi una narrazione menzognera nel suo significato letterale, falsa proprio in quello che viene narrando, ma che ha l'obbligo di essere bella, armoniosamente costruita nelle sue parti, piacevole per colui che legge o ascolta. Tuttavia proprio attraverso quei fatti, slegati da ogni realtà storica, tale narrazione, se bene interpretata, si fa portatrice di verità. La verità è dunque racchiusa nella menzogna della lettera, e può riguardare il rapporto dell'uomo con l'altro uomo (e sarà una verità morale), oppure il rapporto dell'uomo con Dio (e sarà allora una verità anagogica). In contrapposizione all'allegoria dei poeti, c'è l'allegoria dei teologi, in cui la verità spirituale si nasconde entro la verità storica esposta, dalla lettera. La grande differenza riguarda dunque la lettera: la realtà storica, il processo storico dell'umanità narrato dai libri sacri è la trama letterale entro cui il teologo va scoprendo la sua verità allegorica; il poeta la scopre invece nella trama letterale delle sue immagini e delle sue invenzioni. L'allegoria diviene, cioè, mezzo espressivo. Voi, che 'ntendendo è, al dire di D., la prima canzone in cui egli abbia sperimentato tale mezzo espressivo. È dunque evidente che i fatti, la storia che qui D. narra non è vera; è una pura immagine poetica atta a rappresentare o, per dire meglio, a portare le verità che D. voleva esprimere: che non sono verità storiche, ma di ordine spirituale. La verità storica è narrata invece nella Vita Nuova, allorché il naturale richiamo alla vita, dopo il lungo periodo di pianto e di desiderio di morte seguito alla perdita di Beatrice, si concretizza nel ‛ vilissimo pensiero ' per la donna pietosa: una ‛ falsa immagine di bene ' che non conduceva alla gioia, ma a nuovo dolore. Adesso, nel C., D. usa l'immagine dettatagli dall'esperienza concreta, del secondo amore e della consequente battaglia di pensieri, come lettera della propria allegoria. Direi che il preciso desiderio che i due momenti di vita (quello narrato nella Vita Nuova e questo adombrato nell'allegoria del C.) non fossero confusi e soprammessi ha spinto D. a chiarire per prima cosa che l'allegoria che egli usa è quella dei poeti, per i quali la lettera è bella menzogna.
L'episodio della donna pietosa, penultimo della Vita Nuova, non ha dunque, nella composizione del C., altro valore che quello di un ricordo tematico su cui costruire l'episodio fantastico della ‛ Donna gentile '. La linea interpretativa, che sembra suggerita da D., deve considerare la Vita Nuova come una confessione detta attraverso aneddoti di realtà storica, mentre il C. sarà da considerare una confessione tradotta in aneddoti di realtà spirituale, allegoricamente espressi.
Spiegata l'allegoria e l'uso che ne aveva fatto, D., sempre nel primo capitolo di questo secondo trattato, stabilisce la norma per la partizione del commento: prima sarà illustrata la lettera e quindi l'allegoria di ciascuna canzone. Data l'incompletezza dell'opera, soltanto Voi, che 'ntendendo e Amor, che ne la mente abbisognano di entrambe le parti di commento; Le dolci rime d'amor, canzone non allegorica, ha invece un commento unico.
Dei quindici capitoli del secondo trattato, dieci sono dedicati all'esposizione della lettera, mentre il primo, come abbiamo visto, aveva trattato dell'allegoria: una piena prevalenza del commento letterale sulla parte allegorica che ritroveremo in proporzioni quasi identiche nel terzo trattato, dei cui quindici capitoli dieci riguardano la lettera e cinque l'allegoria. Non credo che tale misura ripartitiva sia casuale; il C. ha sempre un valore magistralmente esemplare e D. insiste sulla basilare importanza della lettera: in ogni testo, la maggiore fatica interpretativa va dedicata alla lettera; per chiarire l'allegoria saranno sufficienti alcuni elementi esegetici chiave e la retta interpretazione della lettera.
La canzone Voi, che 'ntendendo tratta del nuovo amore in cui D. trovò conforto dopo la morte di Beatrice. La morte di Beatrice segna dunque anche nel C. - così come lo era stato nella Vita Nuova e lo sarà nella Commedia - la data cruciale della vita di D., il momento-pernio della sua storia di uomo. Sia la lettera che l'allegoria prendono inizio cronologico da quell'8 di giugno del 1290. La lettera, come ho detto, si rifà al tema della donna pietosa, al tema dell'incertezza tra il volere e il disvolere cedere alla vivacità prorompente del nuovo sentimento; temi che D. aveva già sfruttato a tutt'altro fine nella Vita Nuova. Adesso egli si dice sconvolto dalla battaglia de' pensieri e, sia per trovare sfogo sia per scusare sé stesso de la [novi]tade, ne la quale parea... avere manco di fortezza (II II 5; il Busnelli e il Vandelli avevano letto v[a]ri[e]tade sul veritate dei codici), si rivolge a coloro dai quali dipendeva la vittoria del nuovo pensiero d'amore: gli angeli che presiedono al movimento del terzo cielo. Il commento alla lettera del primo verso della canzone si presta così a un lungo inciso di cosmologia celeste e di angelologia. Il numero dei cieli e il numero degli angeli attirano l'attenzione dantesca. Gli otto cieli individuati dagli antichi (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse) si arricchiscono del Primo Mobile o Cristallino a opera di Tolomeo, il quale costretto da li principii di filosofia... puose un altro cielo essere fuori dello Stellato, che con il suo velocissimo muoversi giustificasse il moto dei cieli sottostanti. I cattolici infine pongono al di sopra dei nove cieli mobili l'Empireo, il cielo di tutta pace, quieto e pacifico... luogo di quella somma Deitade che sola [sé] compiutamente vede. È la prima concezione dantesca del Paradiso, soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s'inchiude, e di fuori dal quale nulla è (II III 5-11). Dato l'ordine dei cieli, il terzo sarà quello di Venere. Le Intelligenze celesti, gli angeli, possono essere infiniti di numero; e D., secondo l'ammaestramento della ‛ Santa Ecclesia ', li partisce e ordina in nove gerarchie. Seguendo una tradizione, rappresentata anche dai Morali di s. Gregorio Magno, D. accetta i Troni come l'ordine angelico che presiede al terzo cielo (in Pd XXVII saranno invece i Principati, e non è soltanto questa la divergenza tra i due testi: il diverso ordinamento degli angeli è questione assai ben studiata; l'uso di fonti diverse può spiegare il diverso atteggiamento di Dante. Del resto lo stesso s. Gregorio Magno presenta nell'omelia 34 le gerarchie angeliche in un ordine che si diversifica da quello in cui le aveva citate nei Morali: come i Morali possono essere assunti a probabile fonte del C., così l'omelia 34 può essere assunta come probabile fonte del XXVIII del Paradiso). Quel Voi con cui s'inizia la canzone è dunque un'invocazione ai Troni, la cui nobiltà è partecipata alla stella di Venere, la quale ne acquista così tanta virtù da avere grandissimo potere sulle anime e sulle cose terrene. Un'accettazione piena delle influenze astrali che D. non contraddirà mai, inserite come sono nell'ordine provvidenziale. I Troni, causa del nuovo amore, devono comprendere la condizione in cui D. si trova in ragione di effetto. Spiegato anche il valore delle parole usate nella canzone a indicare il vecchio amore per Beatrice (anima) e il nuovo amore (spirito), D. può infine commentare la lettera delle tre stanze centrali della canzone (la prima è di proemio, l'ultima di congedo) drammaticamente tessute del dialogo tra l' ‛ anima ' e lo ‛ spirito '; stanze che narrano la battaglia de' pensieri. Sono anche i capitoli centrali del trattato (VII, VIII, IX, X): l'esposizione viene interrotta soltanto da un lungo inciso sull'immortalità dell'anima perché, di quella ragionando, sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, de la quale più parlare in questo libro non intendo per proponimento (II VIII 7). L'inciso sull'immortalità dell'anima viene così a coincidere con il centro esatto del trattato.
Con il capitolo XII D. inizia l'interpretazione allegorica; e, ancora una volta, si rifà al tragico momento della morte di Beatrice. Dopo la scomparsa della prima beatitudine della sua anima, egli cercò a lungo conforto, e poiché niente riusciva a scuoterlo dal torpore doloroso in cui era caduto (poi che né 'l mio né l'altrui consolare valea, II XII 2) pensò di cercarlo là dove già molti altri lo avevano trovato: nella filosofia. Comincia allora a frequentare le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti (§ 7). È il periodo della grande formazione della cultura filosofica dantesca. Mentre è abbastanza facile localizzare cronologicamente questo periodo tra la fine del 1292 e il 1294-95, assai più complesso è definire quali siano state le scuole e i maestri. Sappiamo che a Firenze c'erano scuole tenute da religiosi e aperte ai laici sia a S. Maria Novella, presso il convento domenicano, sia a S. Croce, presso quello francescano, sia a S. Spirito, presso gli agostiniani. Si è supposto che fra i maestri di D. possano essere menzionati Remigio Girolami, che insegnò a S. Maria Novella tra il 1289 e il 1303, o Pier Giovanni Olivi che contemporaneamente teneva l'insegnamento a S. Croce; ma niente fa escludere che la cultura dantesca abbia trovato alimento e perfezionamento filosofico e rettorico, in quel medesimo scorcio di anni, anche presso lo Studio di Bologna. Anzi certi riscontri testuali assai esatti fra il Tractatus de luce di Bartolomeo da Bologna (rettore della scuola francescana bolognese dal 1282 al 1294) e il C. potrebbero essere presi come testimonianza di un periodo bolognese di Dante. Quello che rimane certo è che dopo la morte di Beatrice D., trascorso un anno d'indifeso dolore, sentì la necessità di tornare in qualche modo alla vita; l'episodio del ‛ vilissimo pensiero ' per la donna pietosa, narrato nella Vita Nuova, nasce da questo stato d'animo e da questo bisogno. Ma il conforto è ancora negato. S'iniziano, in questo clima di ricerca di vita, gli studi filosofici che perdurano faticosi per circa trenta mesi; dopo i quali D. sente di aver conquistato qualcosa di stabile. La vita torna a essere movimento, cammino verso il bene e il bello. La filosofia gli ha donato tutti i conforti e D. oramai le appartiene; e la immagina fatta come una donna gentile a cui sia legato da perfettissimo amore. La donna ‛ gentile ' del C. è dunque ombra della figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, così come i cieli sono presi ciascuno a simbolo di una scienza, per cui il terzo cielo rappresenta, nell'esposizione allegorica, la Rettorica soavissima di tutte le altre scienze. I capitoli XIII e XIV istituiscono il lungo parallelo fra i cieli e le scienze per cui al cielo della Luna corrisponde la Grammatica, a quello di Mercurio la Dialettica, a quello di Venere la Rettorica, a quello del Sole l'Aritmetica, a quello di Marte la Musica, a quello di Giove la Geometria, a quello di Saturno l'Astrologia, a quello delle Stelle fisse la Fisica e la Metafisica (adombrata nella Via lattea o Galassia), al Primo Mobile la Filosofia morale, all'Empireo la Teologia. Seguitando la spiegazione degli elementi chiave dell'allegoria, D. dice che i Troni, movitori del terzo cielo, rappresentano coloro di cui la Filosofia è donna, cioè gli amatori della Filosofia. Gli occhi poi di questa donna sono le dimostrazioni filosofiche che fanno innamorare l'anima e conducono alla beatitudine; lo spirito d'amore altro non è che il pensiero dominante che nasce dallo studio; quindi con la parola amore D. indica sempre il suo continuo studio. Il trattato termina con l'affermazione che la donna, di cui D. si era innamorato appresso lo primo amore, fu la bellissima e onestissima figlia de lo Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia (II XV 12).
Il terzo trattato, commento alla canzone Amor, che ne la mente, è dedicato alla loda della ‛ Donna gentile-Filosofia '. Il tema della ‛ loda ', già sperimentato da D. come genere di una particolare tradizione poetica, era stato il centro della Vita Nuova. Direi che nel momento stesso della composizione di Amor, che ne la mente c'era in D. il desiderio di superare e staccarsi dalla tradizione pur servendosi di spunti metaforici o lessicali presi dalla tradizione medesima. Con il commento, scritto, ricordiamolo, una diecina di anni più tardi, il distacco è completo e anche certi elementi topici - l'ineffabilità del tema e l'insufficienza dell'autore, la bellezza di madonna cosa paradisiaca, la soavità dell'atteggiamento, la dolcezza del sorriso - vengono innalzati a tale livello dottrinale da acquistare totale novità semantica. Si capisce che anche per questo trattato D. spiega prima la lettera (capitoli I-X) poi l'allegoria (capitoli XI-XV). La lettera richiama uno dei fili conduttori dell'opera: il timore di essere accusato di leggerezza d'animo per aver abbandonato il primo amore per il secondo; mostra cioè il desiderio ininterrotto di D. di ripristinare la propria fama sia in relazione ai contemporanei, sia in relazione a coloro che chiameranno antico il tempo in cui egli scriveva. Tentando di esprimere la perfettissima nobiltà della sua donna, D. difende e onora sé stesso e conferma l'amicizia con la sua donna. Commentando il primo verso (i primi versi lo impegnano sempre a fondo) D. offre la definizione di amore e di mente. ‛ Amore ' è unimento spirituale de l'anima e de la cosa amata; ‛ mente ' è invece la potenza intellettiva che distingue l'uomo dalle altre creature sublunari (mentre le potenze vegetativa e sensitiva ve lo accomunano). La mente è reperibile nell'uomo, nelle creature separate da materia, cioè negli angeli, e in Dio. Questa nobilissima parte è quella in cui amore parla. D. lo ascolta, ma le cose dette intorno alla sua donna sono tali che in gran parte egli non è in grado di comprenderle; e anche di quelle di cui riesce a farsi un concetto, ce n'è gran parte che non è in grado di tradurre in parole. Il tema dunque ha una doppia ineffabilità: quella derivata dalla nobiltà di madonna, che si pone al di là della capacità dell'umano intelletto, e quella derivata dalla limitatezza della loquela umana. E fin qui il proemio, o prima stanza della canzone. La ‛ loda ' in sé occupa le tre stanze successive, dedicate ognuna: alla lode generale e dell'anima e del corpo congiunti, alla lode dell'anima, alla lode del corpo. A sé il congedo o ultima stanza. L'analogia strutturale con la canzone precedente è inequivocabile: le due canzoni sembrano nate gemelle a rappresentare due momenti della stessa storia d'amore, così proprio come le dice il loro autore. Ma al tempo del commento l'interesse di D. era già . nitidamente teso a chiarire certi fondamentali problemi cosmologici. Nel secondo trattato erano stati i cieli-scienze e le gerarchie angeliche, adesso è la terra-centro dell'universo con il suo perenne alternarsi di luce e di tenebra, di caldo e di freddo, che attira l'attenzione di Dante. Il capitolo V è tutta una precisa descrizione e spiegazione teorica del come e del perché al giorno succeda la notte e come durante un anno solare in ogni punto della terra - fissa e stabile al centro dei cieli che la circondano e la girano - la quantità di luce e di tenebra si riceva in uguale misura, anche se in diversa scansione: Per che vedere omai si puote, che, per lo divino provedimento, lo mondo è sì ordinato che, volta la spera del sole e tornata a uno punto, questa palla, dove noi siamo, in ciascuna parte di sé riceve tanto tempo di luce quanto di tenebre (III V 21). Soltanto dopo il lungo inciso D. riprende il tema centrale. Se lo spiegare Non vede il sol, che tutto 'l mondo gira aveva dato l'avvio all'inciso sopraccennato, il verso Ogni Intelletto di là su la mira apre l'altro grande argomento di questo terzo trattato: l'ordine gerarchico dell'universo legato all'ordine causale e a tutto il problema della causalità. In questo senso - e lo vedremo meglio in seguito - il terzo trattato può ritenersi la matrice filosofica della Commedia e in particolare della terza cantica. Conoscere, secondo D., importa un rapporto di causa-effetto. Ogni cosa conosce la propria causa nella misura in cui partecipa della causa, così come conosce ogni proprio effetto. Dio, causa di tutte le cose, conosce tutte le cose in sé stesso in quanto le causa, mentre le cose conoscono Dio in ragione di effetto e per quel tanto che Dio partecipa di sé alle cose, chiamandole all'essere. Gli angeli conoscono le cose in Dio, in quanto Dio-causa li ha chiamati all'essere, e le conoscono in sé stessi in quanto le cose sono effetti da loro prodotti. Nell'affermazione che le Intelligenze celesti mirano, cioè contemplano, madonna, è insita l'affermazione che essa madonna è fatta come l'essemplo intenzionale che de la umana essenzia è ne la divina mente (III VI 6). Se questa è la lode generale che D. offre alla sua donna, quando discende alla lode particolare dell'anima di nuovo gli si affaccia alla mente tutto l'ordinamento universale; fin qui tale ordine era stato visto nella prospettiva ascendente - dalla creatura a Dio -; adesso il tutto è proiettato nella prospettiva discendente che va da Dio alle cose, attraverso gl'infiniti gradi dell'essere, misurati sulla maggiore o minore partecipazione alla Causa prima, lungo una linea continua priva di fratture. Dio, gli angeli, l'uomo, le bestie, le piante, i minerali, la terra: questi i gradi di base; ma non si hanno passaggi bruschi. Come esistono uomini di tanta bestialità che poco c'è che non siano essi stessi bestie, altri devono esistere di così alta nobiltà che c'è poco che non siano essi stessi angeli.
L'anima di madonna è tanto nobile che fa vedere la verità dell'assunto; con il suo esempio indica agli altri la via della retta operazione, e in più è una vivente testimonianza della possibilità di miracolo, per cui viene aiutata la fede cristiana.
L'anima è la bontà stessa di madonna; il corpo è la sua bellezza, ma è una bellezza specchio della bontà e traspare infatti negli occhi e nel sorriso soprattutto, nei due luoghi cioè dove l'anima si rende più visibile. Le bellezze di madonna offrono, a chi le contempla, piaceri paradisiaci, cioè appaganti, anche se rimane la differenza che gli ultraterreni piaceri di Paradiso saranno atemporali, mentre quelli offerti dalla contemplazione di madonna sono temporali, cioè goduti con certo limite. Essa bellezza fu creata da Dio per ridurre a bontà ogni uomo. Il congedo della canzone documenta la cura di D. per la sua biografia poetica. Nella ballata Voi che savete ragionar d'amore - dedicata alla stessa ‛ Donna gentile ' - D. aveva chiamato madonna disdegnosa e fera. Adesso sente il bisogno di spiegare l'apparente contraddizione: non è la donna che una volta è fera e disdegnosa e altra nobilissima sovra tutte, ma è D. stesso che nelle accresciute possibilità di comprendere modifica il giudizio. E porta l'esempio della stella. La stella è sempre uguale a sé stessa, ma l'uomo la vede a volte più a volte meno splendente, sia a causa del cielo più o meno ricco di vapori, sia a causa del proprio occhio più o meno capace di vedere.
Nel riprendere in mano tutta la canzone per darne la spiegazione allegorica, D. per prima cosa riconferma l'analogia tra la ‛ Donna gentile ' e la Filosofia, già istituita nel secondo trattato. Rimane da definire cosa è Filosofia e perché è stata così chiamata. Filosofia è, per D., amoroso uso di sapienza al quale si perviene attraverso la dottrina acquistata con studio, che è a sua volta l'analogo dell'amore. A darle il nome di Filosofia fu Pitagora, il quale rifiutò per sé stesso il nome di sapiente, ma si definì amatore di sapienza, cioè filosofo; Filosofia è l'atto proprio del filosofo. La loda s'inizia con l'affermazione che il sole non vede niente di più nobile, nel suo girare la terra, della ‛ Donna gentile '. Il sole, nella sentenza vera, assurge a similitudine di Dio. Dio che conosce tutte le cose come proprio effetto, nessuna ne conosce più nobile. La sapienza è in Dio un attributo; la sapienza perfettamente attuata non è che in lui: nelle creature la sapienza sarà in via di partecipazione, e in misura adeguata al loro essere. L'interpretazione allegorica di nuovo impegna D. nella visione dell'ordine provvidenziale. Dio-sapienza partecipa di sé agli angeli e avremo le Intelligenze-sapienza; siccome l'uomo partecipa anch'egli della sapienza di Dio, avremo l'uomo-sapienza, ma il limite umano è posto non solo dalla misura di essere effetto della Causa prima, ma dalla materia corporale che impedisce un continuo uso della Filosofia. L'uomo godrà della Filosofia nei momenti di speculazione, e sono attimi del tempo, piccoli sorsi di felicità, arra di ciò che la vita futura, dopo la morte-liberazione dalla materia, donerà a pieno. In questa vita, cioè, l'uomo non è limitato soltanto nella sua oggettiva misura di essere (tale limitazione, che non impedisce la pienezza della gioia, rimarrà in ciascuno come eterna personalità), ma viene impedito dai mille bisogni del corpo, che non permettono la speculazione continua.
Tuttavia, in chiunque essa sia e in qualsiasi misura essa sia attuata, la Filosofia rappresenta la perfezione, quindi la felicità. Uniche creature dotate d'intelletto, ma private della Filosofia, sono gli angeli caduti, cioè i demoni: essendo spenta in loro ogni capacità d'amore, è in loro spenta ogni capacità di filosofare. Fin qui_le lodi generali; scendendo alle particolari D. pone l'analogia fra l'anima della ‛ Donna gentile ' e la forma della Filosofia che è l'amore, e il corpo che è la sapienza; composto di anima e di corpo, cioè di sapienza e di amore, è l'uso di speculazione, è l'amoroso uso di sapienza; la filosofia in sé stessa. Come la bontà dell'anima traluce attraverso la bellezza degli occhi e del sorriso, così la forma della filosofia traluce nella sapienza attraverso le sue dimostrazioni e le sue persuasioni, per mezzo delle quali l'uomo giunge alla beatitudine, alla felicità che consiste nell'operare secondo virtù in vita perfetta. Anche il congedo ha un suo valore allegorico: la Filosofia è sempre perfetta in sé stessa e donatrice di ogni beatitudine, ma a D. che non comprendeva le sue persuasioni e non era in grado di vedere le sue dimostrazioni, era apparsa fera e disdegnosa. E il terzo trattato si chiude in una specie di discorsività placata dopo l'invettiva ai peggio che morti che rifiutano l'amoroso uso della sapienza.
Il quarto trattato sulla nobiltà ha dimensioni doppie in confronto ai due trattati precedenti. Tuttavia, come ho già notato, la struttura resta intessuta intorno al numero 15. I trenta capitoli infatti si dividono in due parti nette: i primi quindici confutano le opinioni errate e correnti ai tempi di D., i secondi quindici presentano e documentano la tesi dell'autore. Ritengo forse non troppo arbitrario sottolineare il fatto che in ciascun trattato il centro dell'argomentazione si trova nel quinto capitolo. Nel quinto capitolo del primo trattato D. imposta la questione del volgare; nel quinto capitolo del secondo trattato vengono descritte le gerarchie angeliche; nel quinto capitolo del terzo trattato è descritta la terra e il suo ordinamento in seno all'universo; nel quinto capitolo del quarto trattato si tratta di Roma e della provvidenzialità della sua monarchia; ma c'è di più: nel capitolo XX, sempre del quarto trattato, che sarebbe come dire il quinto della seconda parte, si definisce la nobiltà umana, come seme... messo da Dio ne l'anima ben posta. Tralasciando il primo trattato, che nella sua qualità di proemio non può entrare in una programmazione più sicura, mi sembra che l'ordine dei quinti capitoli, così come lo vediamo, sia in qualche modo un'analogia dell'ordine universale: dal cielo alla terra, dalla cosmologia celeste alla terrestre, dall'ordine umano collettivamente inteso come monarchia e pace provvidenziale, fino all'individuo e alla sua perfezione di nobiltà. Che tutto questo sia casuale non credo. Quando nella Commedia il giuoco strutturale non si baserà più sul 5 (neppure preso nel suo valore ternario di 5 X 3) ma si baserà tutto sul 3 e suoi multipli e sul 3 X 3+1, un tipo di ordine simile a quello riscontrabile nei quinti capitoli del C., si potrà scoprire nei canti VI (da Firenze città partita, all'Italia ostello di dolore, fino alla visione dell'Impero, offertaci da Giustiniano).
La canzone Le dolci rime d'amor fu scritta in un momento di stasi negli studi filosofici. Così almeno spiega D.: il problema arduo della materia prima nel suo rapporto con il creatore lo aveva obbligato a una pausa di ripensamento. In onore della sua donna, la Filosofia, e per non stare in ozio e per difendere la verità, di cui la Filosofia sempre è amica, D. compone la canzone intorno alla vera nobiltà. L'impegno era notevole e anche di attualità, in una Firenze dilaniata dalle lotte di parte e da poco decretante gli Ordinamenti di Giustizia contro i magnati, contro cioè la classe nobiliare feudale che riferiva la propria nobiltà forse soltanto alle antiche ricchezze. Contro questa classe, e quindi in difesa di un'organizzazione più democratica del comune, si levano le parole di Dante. La gravità dell'assunto si rispecchia nella solennità del ritmo prosastico del commento. Il passare degli anni non aveva tolto fuoco alla polemica. Anzi, la prosa di commento si distende piena e fluente a dimostrare la consapevole autorità del suo autore: l'argomento scotta sempre e adesso D. vuole darne una soluzione definitiva. Per lui, in particolare, esiliato con una condanna vergognosa, povero, ridotto a vivere degli aiuti di nobili feudatari, l'argomento è ancora più pungolante. Il clima sentimentale in cui fu scritto questo per noi ultimo trattato del C. è di poco lontano, appena appena più quieto e distaccato, da quello che aveva spinto D. ad affermare: l'essilio che m'è dato, onor mi tegno: / ché, se giudizio o forza di destino / vuol pur che il mondo versi / i bianchi fiori in persi, / cader co' buoni è pur di lode degno (Rime CIV 76-80). Il largo respiro del trattato si nota anche dall'accurata partizione degli argomenti entro la canzone: i primi tre capitoli ne sono pienamente occupati. Partizione e proposizione della materia. Federico II di Svevia, ultimo imperadore de li Romani, aveva definito la nobiltà come antica ricchezza accompagnata da bei costumi. Il detto imperiale si era largamente diffuso ed era giunto perfino a ridursi dell'ultima parte: nobiltà cioè veniva a equivalersi con antica ricchezza. Contro la definizione federiciana e l'opinione del volgo D. leva la voce della verità, nonostante che l'autorità imperiale e l'autorità di Aristotele - che aveva detto che ciò che pare alla maggioranza è impossibile che sia del tutto falso - sembrino convalidarle. D. mette in primo piano il concetto di autorità imperiale e autorità filosofica. La prima deriva dallo stesso ordine di natura che obbliga l'uomo a cercare la felicità e a trovarla in una vita sociale pacifica e giustamente retta. Per giungere a quest'ideale vita di pace e di giustizia occorre che la terra divenga similitudine del cielo e attui la ‛ ordinatio ad unum ' propria del cielo. Come nella vita ultraterrena tutto tende a Dio che regge e governa, così nella vita terrena tutto deve tendere a un solo imperatore che regga e governi. Roma con i suoi principi aveva svolto il provvidenziale processo di ridurre la terra in pace e in giustizia tanto da renderla degna di accogliere il suo Fattore. Grandissima dunque l'autorità imperiale. Autorità significa atto degno di fede e di obbedienza, e in ogni arte o operazione umana l'uomo deve seguire l'artefice o il maestro. In relazione ai fini che l'uomo deve perseguire durante la vita terrena, il maestro è Aristotele. Grandissima dunque la sua autorità. Autorità imperiale e autorità filosofica che D. vede congiunte e compenetrantisi: la prima senza la seconda è pericolosa, e la seconda senza la prima è debole. Ma l'opinione del volgo è divisa da ogni uso di ragione, perché colui che, nato da nobile uomo, agisce male, è paragonabile a chi, dovendo percorrere un tratto di strada dopo una grande nevicata, che tutto ha pareggiato e reso uguale, sbagli la direzione nonostante le orme ben visibili di chi lo ha preceduto. Costui non sarà da dire nobile ma addirittura vilissimo. Nobile è colui che nelle stesse condizioni e non preceduto da nessuno, compie il diritto cammino senza errori. Dunque il volgo dice cosa non razionale guidato soltanto dall'apparenza sensibile. Quando Aristotele affermava che l'opinione dei più è impossibile essere del tutto falsa, non si riferiva al giudizio basato sull'apparenza sensibile, bensì al giudizio di ragione. Contraddire all'opinione del volgo non è, di conseguenza, venir meno al rispetto dovuto all'autorità del Filosofo. In quanto all'autorità imperiale, essa deve regolare e reggere le operazioni umane; non si estende tuttavia al di là di questo limite; e definire cosa sia nobiltà non rientra nell'arte imperiale, quindi porre in discussione la definizione di nobiltà data da Federico II non è mancare di riverenza all'autorità imperiale. Del resto tale definizione è in parte con difetto e in parte errata. I bei costumi fanno parte della nobiltà ma non bastano a definirla. In quanto alle antiche ricchezze, D. sottolinea come ci sia errore sia nel parlare di ‛ antiche ' sia di ‛ ricchezze '. Le ricchezze vili - non in sé stesse ma in relazione al loro possedimento da parte dell'uomo - non possono dare né togliere nobiltà. E il tempo, il cui concetto è insito nell'aggettivo ‛ antico ', non può causare nobiltà sia perché, negando la possibilità di discendere un figlio nobile da un padre ignobile, si arriva a negare o la nobiltà in sé stessa, o la discendenza unica da Adamo di ogni uomo; sia perché, poggiando il concetto di nobiltà sulla dimenticanza dei non nobili antecessori, l'uomo acquisterebbe più facilmente nobiltà quanto più fosse privo di buona memoria, e si arriverebbe all'assurdo che un qualche uomo diverrebbe nobile soltanto dopo la morte, mentre da vivo era da considerare non nobile. Liberatosi dalle false opinioni, D. vuol dimostrare cosa è la nobiltà e come si può conoscere l'uomo nobile. La nobiltà è un fatto estremamente individuale: è un dono gratuito, di Dio concesso all'anima ben disposta a ricevere tale dono. La nobiltà è seme di felicitade messo da Dio ne l'anima ben posta. Essendo seme di felicitade la nobiltà viene a coincidere con l'impulso verso il bene che è in tutte le cose. Infatti la nobiltà non è predicato soltanto dell'uomo, ma di qualsiasi cosa - nobile uomo come nobile spada o nobile cavallo e così via. La nobiltà è perfezione di propria natura in ciascuna cosa; siccome l'uomo è dotato di ragione, la sua felicità, cioè la sua nobiltà, si attuerà nella dritta operazione pratica e speculativa. Un dono divino che trasparirà in ogni azione e in ogni età. A questo punto D. prende l'occasione per distinguere le quattro età dell'uomo e le virtù particolari a ogni età. L'uomo nobile sarà da prima un nobile adolescente grazioso, verecondo, bello e snello di corpo; quindi un giovane temperato e forte, amoroso, cortese e leale; durante la senettute diverrà prudente, giusto, largo e affabile; infine nel senio calerà le vele de le... mondane operazioni e si renderà a Dio benedicendo la via che ha fatta: la nobile anima in questa etade... attende lo fine di questa vita con molto desiderio e uscir le pare de l'albergo e ritornare ne la propria mansione, uscir le pare di cammino e tornare in cittade, uscir le pare di mare e tornare a porto (IV XXVIII 7). La nobiltà è dunque una qualità dell'anima individuale ricevuta per grazia. Le stirpi, non avendo anima, non possono essere né nobili né ignobili. Si possono paragonare a un ammasso di grano che appare bianco perché bianco è ogni grano individuale; ma allorché si mutasse ogni grano con meliga rossa tutta la massa cambierebbe di colore.
Il pensiero dantesco nel Convivio. - Già un riassunto schematico dell'opera dovrebbe risolvere, in un certo senso, lo pseudo problema critico impostato dal positivismo storico e ripreso, in forma diversa ma con identica sostanza, dal neo-idealismo o dal neo-spiritualismo: se cioè il C. possa o non possa rappresentare la ‛ crisi ' della vita di D.; se il razionalismo, che certa critica vi scopre, possa segnare lo smarrire della diritta via fino alla selva oscura. Si capisce che ci si riferisce a quella parte del C. scritta prima dell'esilio, le liriche cioè per la ‛ Donna gentile -Filosofia '; il commento, per quanto scritto in ben altro periodo e in ben altra disposizione di spirito, non sarebbe che la continuazione fittizia o non fittizia, sicuramente determinata con un atto di volontà, del periodo di crisi razionalistica vissuto una decina di anni prima. L'amore per la ‛ Donna gentile -Filosofia ' coinciderebbe, secondo tutta una particolare corrente di critica, con la via non vera, con ‛ le false imagini di bene ' che D. avrebbe seguito subito dopo la morte di Beatrice (cfr. Pg XXX 124 ss.), quelle presenti cose di cui D. stesso confessa che col falso lor piacer volser miei passi, / tosto che 'l vostro viso si nascose (Pg XXXI 35-36). Pur trascurando il fatto che se D., così accuratamente attento alla sua biografia da voler giovare al libello giovanile attraverso il C. e a dare tutta una sottile trama aneddotica di giustificazione, avesse voluto fare del C. il libro della crisi e del traviamento, non lo avrebbe scritto per ripristinare la fama che poteva essere oscurata dall'aver lui seguito così tanta passione, né avrebbe ribadito nella Monarchia che la felicità terrena si raggiunge per phylosophica documenta... virtutes morales et intellectuales operando (III XVI 8); non conviene dimenticare che noi parliamo di ‛ crisi ' nella vita di D. perché egli ne ha parlato, perché la Commedia è la rappresentazione in immagini di tale crisi e del suo superamento attraverso la ratio, la saggezza dei documenta phylosophica, che conduce all'operazione delle virtù morali e intellettuali fino alla felicità terrena che per terrestrem paradisum figuratur, ratio di cui Virgilio è la personificazione. Soltanto dopo l'esperienza operativa della ratio, avremo a disposizione gli altri mezzi catartici personificati in Matelda, Beatrice, s. Bernardo. L'unico scritto dantesco in cui c'è l'accenno a un ‛ vilissimo pensiero ' da cui egli sia stato dominato per un qualche periodo è la Vita Nuova, e già nella chiusa del libello giovanile è descritta la liberazione da quel pensiero vilissimo. Ma quanto a lungo tale crisi sia durata nella realtà storica (o se più semplicemente essa crisi rappresenti una realtà storica) noi non possiamo dirlo senza rischiare di cadere in un biografismo di qualche arbitrarietà sul tipo di quello che ha dettato le vidas dei poeti provenzali. Al di là dei richiami biografici, possibili o impossibili, al di là del valore di crisi razionalistica o no, resta l'opera nella sua struttura e nel suo apporto di pensiero. E non c'è dubbio che le posizioni filosofiche assunte da D. nel c. rappresentano un chiarimento e un approfondimento delle intuizioni giovanili mentre anticipano e spesso condizionano gli scritti posteriori, sia la Commedia come la Monarchia. Anche se quest'ultima opera, per un certo aspetto, non è che l'allargamento e lo scavo in profondo della teoria politica istituita nel IV trattato del C., i legami più stretti e di pensiero e di immagini si trovano con la Commedia. Perfino la tecnica espressiva avvicina le due opere: l'allegoria viene usata da D. soltanto nelle liriche del C., quasi come esperimento, e poi nella Commedia; anche il pubblico a cui le due opere sono rivolte è lo stesso: l'élite dei nobili di cuore che per cura familiare o civile sono rimasti ne la umana fame.
Non è questa la sede per documentare uno a uno i richiami che si prestano a far vedere il C. come la fonte più importante della Commedia. Noterò solo qualche spunto, a mio avviso, essenziale. L'idea di ‛ iter ', di ricerca, di ‛ quête ' verso la felicità, così comune all'agostinianesimo medievale (" Inquietum est cor meum, donec requiescat in te " è il punto di partenza), idea base della Commedia (immagini e contenuto filosofico), viene espressa e quindi acquisita da D. come bagaglio di cultura personale nel Convivio. Due passi sono sopra gli altri da indicare: il III VI 7 (Dove è da sapere che ciascuna cosa massimamente desidera la sua perfezione, e in quella si queta ogni suo desiderio, e per quella ogni cosa è desiderata; e questo è quello desiderio che sempre ne fa parere ogni dilettazione manca; ché nulla dilatazione è sì grande in questa vita che a l'anima nostra possa torre la sete) e il IV XII 14-18 (lo sommo desiderio di ciascuna cosa... è lo ritornare a lo suo principio. E però che Dio è principio de le nostre anime... essa anima massimamente desidera di tornare a quello. .E sì come peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni casa, che da lungi vede, crede che sia l'albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza a l'altra, e così di casa in casa, tanto che a l'albergo viene; così l'anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però qualunque cosa vede, che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso... Per che vedere si può che l'uno desiderabile sta dinanzi a l'altro, a li occhi de la nostra anima per modo quasi piramidale, che 'l minimo li cuopre prima tutti, ed è quasi punta de l'ultimo desiderabile, che è Dio, quasi base di tutti... Veramente così questo cammino si perde per errore come le strade de la terra...). Le linee fondamentali della Commedia sono già tracciate, e in più nascono da questi passi del C. non pochi brani del Purgatorio di primaria importanza esegetica (cfr. XVI 85-93 Esce di mano a lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia, / l'anima semplicetta che sa nulla, / salvo che, mossa da lieto fattore, volontier torna a ciò che la trastulla. / Di picciol bene in Aria sente sapore; quivi s'inganna, e dietro ad esso corre, se guida o fren non torce suo amore; oppure i famosi brani dei canti XVII 91 ss., e XVIII 19 ss., nei quali Virgilio espone la teoria dell'amore). Siamo ben lontani dalle raffinate teorie d'amore di un Guinizzelli o di un Cavalcanti. D. aveva preso da loro tutto ciò di cui aveva avuto bisogno durante la sua formazione poetica; ma i trenta mesi passati alle scuole dei filosofanti lo distaccano per sempre dal mondo dei fedeli d'amore. Il desiderio della donna, bella e saggia, non è che un momento, un attimo particolare degl'infiniti desideri umani che si muovono verso ciò che piace.
I due fini proposti all'uomo dalla divina Provvidenza sono la meta della ‛ quête ': una meta terrena che conduce all'acquetante riposo del Paradiso terrestre (perfezione raggiunta entro i limiti corporali) e che offre i mezzi per salire alla perfezione extracorporale (la contemplazione perenne della Gioia in sé). Questo postulato, che potrebbe assumersi come riassunto della Commedia, e che chiude la Monarchia, era stato svolto in lucide argomentazioni filosofiche nel Convivio. Se in IV XVII 9-12 D. lo dichiara con tutta evidenza (Veramente è da sapere che noi potemo avere in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buon[o] e ottim[o] che a ciò ne menano: l'una è la vita attiva, e l'altra la contemplativa; la quale, avvegna che per l'attiva si pervegna, come detto è, a buona felicitade, ne mena ad ottima felicitade e beatitudine...), il primo accenno lo possiamo leggere in I XIII 3 Onde, con ciò sia cosa che due perfezioni abbia l'uomo, una prima e una seconda (la prima lo fa essere, la seconda lo fa essere buono...). Nel secondo trattato lo svolgimento è più accurato e il postulato serve a dimostrare l'infinito numero delle creature angeliche (II IV 10 Onde, con ciò sia cosa che quella che è qui l'umana natura non pur una beatitudine abbia, ma due, si com'è quella de la vita civile, e quella de la contemplativa, inrazionale sarebbe se noi vedemo quelle avere la beatitudine de la vita attiva, cioè civile, nel governare del mondo, e non avessero quella de la contemplativa, la quale è più eccellente e più divina).
Queste citazioni, scelte a titolo esemplificativo, mi sembrano abbastanza probanti della funzione del C. nell'attività poetica di D.: chiarire i presupposti teorici prima di accingersi alla grande opera di trasfigurazione in immagini. Del resto nel C. venivano enunciati anche certi principi di estetica, a cui D. resterà fedele per tutta la Commedia. Mentre il De vulgari Eloquentia offre la definizione del linguaggio più idoneo a esprimere il pulchrum (senza mai porre la questione di che cosa è il bello, e in particolare, il bello in arte), nel C., in uno dei corollari che arricchiscono la trattazione, D. dice ciò che è bello e perfetto in arte: quella orazione si può dir bene che vegna da la fabrica del rettorico, ne la quale ciascuna parte pone mano a lo principale intento (III IV 3). In IV X 11 D. accenna invece all'impossibilità espressiva dell'artista qualora non abbia ben chiara dentro di sé l'idea da comunicare; e questo al di là del mezzo espressivo scelto per la comunicazione, sia cioè esso scrittore, pittore o scultore: Onde nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale, quale la figura essere dee. Costruzione armonica ‛ ad finem ', e limpida conoscenza del fine: sono le stesse basi estetiche della Commedia, in rispetto alle quali D. varie volte tralascia i particolari inutili, ne avverte il lettore e corre veloce verso il fine d'arte che si era proposto (cfr. If IV 103-105, X 118-120, XV 103-105, XXI 1-3, Pg XXII 127-129, XXIV 25-27, XXXIII 136-141).
Le Fonti. - Definire esattamente le fonti del Convivio, avere cioè una chiara idea intorno agli autori e alle opere noti a D. in quel primo decennio del XIV secolo, significherebbe offrire anche una soluzione al grave problema delle fonti, almeno filosofiche, della Commedia, e sciogliere così il nodo esegetico di vari passi controversi. Bisogna ammettere che non siamo ancora in grado di dare una risposta probante al quesito, nonostante gli sforzi di valentissimi maestri. Forse l'impianto stesso delle ricerche è stato inquinato da una sorta di parzialità aprioristica. Si è infatti discusso a lungo e animatamente intorno a un presunto tomismo o a un altrettanto presunto averroismo dantesco attraverso un dibattito, ormai quasi secolare, cui hanno partecipato i maggiori studiosi italiani e stranieri di cose dantesche o, in genere, del pensiero medievale. E così avvenuto che ciascuno studioso ha abbracciato una tesi da difendere con tutti i mezzi e gli argomenti possibili, giungendo inconsapevolmente, nel calore della difesa, anche a forzature del testo: molte correzioni alla lettera del Convivio, tramandata dalla tradizione manoscritta, sono state apportate o proposte soltanto allo scopo di far coincidere la parola dantesca con la parola della presupposta fonte, fosse essa Alberto Magno o s. Tommaso o chiunque altro dei grandi filosofi il cui pensiero aveva dominato o dominava ancora quella fine del XIII secolo o i primi anni del XIV, in cui D. andava stendendo le sue opere. Veniva accettata implicitamente, se non teorizzata, l'idea che D. potesse avere una conoscenza profonda, quasi memorizzata frase dietro frase, delle maggiori Summae filosofiche composte tra il XII e il XIII secolo; o che almeno avesse avuto la continua possibilità di consultare e avere sotto mano tutte le grandi opere filosofiche. E questo al di là di ogni documentazione storica disponibile. Sarebbe invece stato necessario rispondere prima alla domanda di come, dove e quando D. avesse letto, studiato, imparato a memoria i testi, invocati come fonte del suo pensiero. D. parla di trenta mesi di studio presso le scuole de li filosofanti (II XII 7). Abbiamo già visto quanto sia difficile determinare, sia pure in maniera approssimativa, quali potessero essere queste scuole e quali i maestri. Certo i trenta mesi indicano il periodo iniziale e più intenso dell'interesse filosofico di D., e non il completamento delle sue ricerche intorno alla verità che presiede ai rapporti dell'uomo con sé stesso, con gli altri uomini, con Dio. Tuttavia il periodo iniziale, le scuole, i maestri avrebbero avuto per noi il valore indicativo del punto di avvio, da cui la ricerca dantesca aveva preso le mosse. Non potendo giungere a conclusioni definitive su questo problema, si è ricorsi al metodo induttivo, cercando di catalogare il pensiero dantesco entro i limiti dei sistemi filosofici noti, partendo dalle opere; e il Convivio è sempre stato ritenuto, e giustamente, opera di fondamentale importanza. La ricostruzione delle letture dantesche, operata con questo metodo, è stata minuziosa, intensa, con apporti sovente preziosi: ma ne è venuta fuori una serie abnorme di autori e di opere, al di sopra quasi di ogni possibilità umana di leggere. Senza contare il fatto che dopo i trenta mesi D. aveva partecipato attivamente alla vita pubblica della propria città, percorrendo il cursus honorum fino al culmine del priorato, e che di lì a poco sarebbe stato colpito dalla condanna all'esilio e, di conseguenza, costretto a una vita raminga, inquieta, apparentemente inadatta allo studio metodico e alle intense letture. Eppure il complesso di tali ricerche si dimostra utile a rivelare, anche a un primo colpo d'occhio, più che un preciso indirizzo del pensiero di D., un certo eclettismo. Infatti ogni ricerca - sia che fosse condotta al fine di stabilire uno stretto tomismo, come quella del Busnelli, o a mettere in luce elementi averroistici, come quella del Nardi, o più recentemente, come quella del Singleton e della sua scuola, a sottolineare i rapporti con s. Bonaventura - ha approdato ad accostamenti per lo meno convincenti, anche trascurando le forzature interpretative, nate dal desiderio di far prevalere il particolare assunto teorico. Ogni studioso ha trovato nel testo di che sostenere la propria tesi. E si può affermare che continuando lo spoglio della Patristica Latina, accanto a un D. tomista, a un D. averroista, bernardino o bonaventuriano, potremmo scoprire un D. vittorino di stretta osservanza (i rapporti con il Benjamin minor e il Benjamin maior di Riccardo di San Vittore sono talvolta estremamente sconcertanti) o un D. anselmiano e, sempre, un D. agostiniano. È evidente che D. era, e nello stesso tempo, non era tutto questo. Ma dare un elenco esatto, o anche approssimativo, delle letture dantesche al tempo della stesura del Convivio, è cosa che supera le nostre attuali possibilità. Il pensiero che D. espone è un pensiero latamente scolastico, senza una precisa coloritura, o, se si vuole, sfumato d'infinite coloriture e, appunto per questo, atto a essere interpretato anche in maniera unilaterale. Al tempo del Convivio D. conosceva con tutta probabilità direttamente la Contra Gentes di s. Tommaso, dal cui titolo trae ispirazione per chiamare la sua terza canzone Contra-li-erranti; ma quanto avesse letto di altre opere dell'aquinate, o il gran commento di Averroè o s. Bonaventura o i vittorini o s. Anselmo, è difficile a dirsi. Il bagaglio delle letture di scuola imponeva la conoscenza anzitutto dei Libri Sacri, del De Consolatione philosophiae di Boezio così come le Confessiones di s. Agostino e i classici latini, da Virgilio a Seneca moralista. Ma forse, piuttosto che tentare d'inquadrare il pensiero dantesco in una precisa corrente filosofica o ricorrere a un solo autore per interpretarlo, la ricerca si presenterebbe più fruttuosa indagando il materiale raccolto nelle sillogi di sentenze, o in quelle specie di enciclopedie del sapere universale che circolavano in Italia ai primi del XIV secolo. Pietro Lombardo e i suoi imitatori, Isidoro di Siviglia, Uguccione da Pisa hanno sicuramente offerto a D. molto più di quanto non si supponga. Inoltre ogni palazzo signoriale, ogni convento possedeva raccolte di quel tipo, e la consultazione non doveva presentare difficoltà. Erano i libri-summa del sapere del tempo; assai più arduo doveva essere il leggere, cioè il possedere o avere sotto mano, opere complete di estensione vastissima che impegnavano i copisti per lunghi e lunghi mesi. Del resto lo stesso uso scolastico della lectio-comentum abituava allo stralcio, al passo scelto, alla citazione autorevole.
È in fondo lo stesso metodo usato da D. nel Convivio: le citazioni servono a corroborare il ragionamento, a nobilitarlo d'autorità. Spesso la citazione autorevole veniva scritta da D. sotto l'impulso di un ricordo più o meno lontano; raramente si riscontra esatta. E questo non agevola la ricerca. Inoltre lo scrutatore di fonti non deve mai dimenticare - in sede di analisi testuale - che noi ignoriamo sempre come si presentasse il testo di un qualsiasi autore nel codice che D. aveva avuto la possibilità di leggere o nella raccolta di sentenze da lui consultata. Questa ultima osservazione vale non solo per gli autori classici, ma anche per quelli latamenti coevi di D. stesso. C'è infine da considerare che la cultura filosofica, la sapienza del tempo non veniva divulgata soltanto attraverso le opere squisitamente filosofiche, di quegli autori cioè che si presentano ai nostri occhi, abituati alla storicizzazione della cultura, come filosofi. Molto spesso poteva filtrare anche attraverso opere dottrinali, ma di tipo più letterario e di un genere meno impegnato (si pensi per es. al De Amore di Andrea Cappellano e alla produzione trattatistica di questo particolare genere); e non soltanto in latino, ma in volgare. Il volgare, fosse di sì o d'oc o d'oil, si diffondeva meglio e in strati più larghi di pubblico che non il latino in quello scorcio del XIII secolo in cui si presuppone la formazione dantesca. La nostra ricerca verrebbe così ad allargarsi a macchia d'olio sino a considerare tutto il patrimonio dottrinale in volgare che D. potrebbe aver letto. I libri più diffusi erano spesso quelli che non venivano citati, perché non erano considerati ‛ auctoritates '. E non circolavano soltanto i libri che a noi storici appaiono come i grandi successi editoriali dell'epoca, come il Roman de la rose o il Tresor di Brunetto Latini. Esiste tutta una massa di produzione minore, ma che per una ragione o per l'altra avrebbe potuto suscitare l'interesse di Dante. A titolo di puro esempio possiamo citare i Songes di Raoul de Houdenc o il poemetto didascalico attribuibile ad Adamo di Perseigne, in cui viene parafrasato, riducendolo a una visio paradisi, il Salmo Eructavit.
Quello che rimane indubitabile è l'aristotelismo dantesco. Aristotele è il Filosofo, il maestro de l'umana ragione, l'autore per il quale la saggezza greco-romana si accorda e, in certo qual senso, prelude alla saggezza giudaico cristiana: una confluenza che D. coglie al livello più alto, in relazione al fine proprio dell'uomo, al di là delle verità particolari che la saggezza antica non aveva potuto afferrare e per difetto di ragione e per difetto d'ammaestramento (II IV 8). Culminando l'elogio della Filosofia nel XV capitolo del terzo trattato D. scrive: E però si dice nel libro di Sapienza: " Chi gitta via la sapienza e la dottrina, è infelice ", che è privazione de l'essere felice [che] per l'abito de la sapienza seguita che s'acquista; e felice è essere contento, secondo la sentenza del Filosofo (III XV 5). Il libro della Sapienza e la sentenza del Filosofo sono presentati nel sublime accordo riguardo al fine provvidenziale umano che è la felicità, il contentamento, raggiungibile soltanto attraverso l'amoroso uso di sapienza (III XII 12). Da questo lato dell'aristotelismo, che può colorarsi di varie sfumature a seconda delle fonti, dei commenti, dei volgarizzamenti avuti fra mano, D. ricava il linguaggio filosofico del C. e i concetti fondamentali, come quelli di potenza e atto, di abito, di essere come piena attualizzazione della potenzialità e quindi della somma Deitade che sola [sé] compiutamente vede (II III 10), in quanto atto puro, essere in sé, causa causante non causata; nonché il principio stesso di tutto il suo pensiero politico, già espresso in nuce nei capitoli IV e V del IV trattato, che l'uomo naturalmente è compagnevole animale (IV IV 1).
Tuttavia, nello stesso modo come D. aveva sincreticamente posto la saggezza biblico-testamentaria accanto alla saggezza antica di cui Aristotele segna il punto culmine, così egli non rifiuta linguaggio e idee più propriamente neo-platoniche, quando queste servano al suo assunto. Quando nel terzo trattato (cap. VII e poi capp. XII-XIII) D. affronta il problema della causalità e il consequente graduarsi dell'essere - dall'Essere in sé alla creatura, per maggiore o minore partecipazione -, il linguaggio aristotelico si fonde e si arricchisce di tonalità neo-platoniche, che giungono a D. probabilmente da Bartolomeo da Bologna e dal suo Tractatus de luce. Il problema, squisitamente aristotelico, della causalità, si traduce esemplarmente nel problema della luce: " Veramente ciascuna cosa riceve da quello discorrimento secondo lo modo de la sua vertù e de lo suo essere; e di ciò sensibile essemplo avere potemo dal sole " (III VII 3). Ed è questa un'impostazione esemplare che permea tutto il trattato, sia nella sua parte di esposizione letterale, sia in quella, più impegnata, dell'esposizione allegorica. Partito com'è dal Libro de le Cagioni di Alberto Magno - dove poteva trovare a un dipresso la stessa esemplificazione - D. se ne distacca, per ripresentare il problema della causalità in sé stesso e non sotto figura: E però, sì come ne la litterale si parlava cominciando dal sole corporale e sensibile, così ora è da ragionare per lo sole spirituale e intelligibile, che è Iddio (III XII 6). Dio luce intellettual piena d'amore (Pd XXX 40), la cui gloria... / per l'universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove (I 1-3) è già presente in questo terzo trattato del Convivio, dove, al cap. XIV, si farà distinzione tra luce, raggio e splendore servendosi, forse al di là della citazione di Avicenna, delle parole di Bartolomeo da Bologna. Dio-luce ne le Intelligenze raggia... sanza mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate... per modo di splendore reverberato (III XIV 4).
Dopo quanto ho esposto, è chiaro che anche il richiamo a Bartolomeo è puramente indicativo; il tema Dio-luce, Dio-sole spirituale è tema comune a tutta la rinascita della trattatistica cristiana e occidentale e orientale dopo l'anno mille. Il sapore rimane neo-platonico, ma direi che non si va al di là di un sapore sfumato, almeno per quanto riguarda Dante.
Concludendo, mi pare che le polemiche più o meno accese, che sono state caratteristiche della prima metà di questo secolo, in relazione al pensiero di D., pur nei loro fondamentali contributi esegetici (e penso a uomini del livello di un Nardi o di un Busnelli o di un Gilson) abbiano lasciato il problema apertissimo a ogni soluzione.
Tradizione manoscritta e fortuna. - L'opera, rimasta incompiuta, non deve avere avuto una grande diffusione, almeno all'inizio; né si può dire se D. l'abbia fatta conoscere o no durante la sua vita. La tradizione manoscritta che l'ha conservata porterebbe a pensare che il Convivio si sia diffuso soltanto con la rinnovata fortuna di D., a opera soprattutto del Boccaccio, negli ultimi decenni del XIV secolo. Infatti i più antichi manoscritti che noi possediamo risalgono a quel periodo, mentre la gran maggioranza è della prima metà del XV secolo o tra il 1440 e il 1470; si noti d'altra parte, che per quanto ragguardevole sia il loro numero (44), i manoscritti risalgono tutti a un'unica fonte.
Ciò è stato desunto dal fatto che tutti i quarantatré testimoni studiati (l'ultimo è ancora da descrivere nelle sue lezioni fondamentali) concordano in un certo numero di errori e di lacune evidentissime. Data questa situazione potremmo concludere che il C. ebbe un'iniziale diffusione disordinata e arbitraria (sembrerebbe senza l'autorizzazione o la revisione dell'autore), diffusione bruscamente interrotta e ripresa più tardi sopra un esemplare unico. È questa una delle tante ipotesi possibili per trovare una giustificazione al fatto sicuro di una tradizione manoscritta piuttosto numerosa e risalente a un unico archetipo che " si trovava in deplorevoli condizioni per colpa di amanuensi fra i più trascurati e distratti che si possano immaginare " - scriveva M. Barbi introducendo l'edizione del 1921. Tale ipotesi potrebbe trovare un qualche appoggio storico nella polemica antidantesca che si ebbe qualche anno dopo la morte del poeta, culminata nella reprobatio di Bertrando del Poggetto e nel rogo simbolico degli scritti voluto dallo stesso cardinale. È vero che l'opera incriminata era la Monarchia, ma il C. in cui lo stesso pensiero politico era presente, sia pure allo stato germinale, poteva aver subito un qualche incidente di diffusione. Del resto fino a Pietro Alighieri non sembra che gli antichi commentatori si siano serviti dell'opera rimasta incompiuta. Se la ricostruzione critica dell'archetipo avesse condotto a una precisazione linguistica dell'archetipo stesso (il Parodi aveva pensato a una coloritura dialettale aretina o per lo meno toscano sud orientale, mentre gli studiosi più recenti si mostrano assai più scettici sulla stessa possibilità di definire la coloritura linguistica di un testo inesistente di cui spesso è difficile stabilire l'esatta lezione), tale precisazione linguistico-geografica avrebbe forse offerto qualche ulteriore appiglio per una spiegazione storica. In assenza di concreti fattori esplicativi dobbiamo rimanere soddisfatti del dato storico di una tradizione a ramo unico, diviso poi in quattro gruppi fondamentali. La prima edizione del C. fu impressa in Firenze per ser Francesco Bonaccorsi nel 1490. Seguono le tre edizioni veneziane del Cinquecento: quella dei fratelli da Sabio (L'amoroso Convivio di D.,1521), quella dello Zoppino (L'amoroso Convivio di D., 1529) e quella del Sessa (L'amoroso Convito di D., 1531), che fu l'ultima edizione dopo la condanna bembiana (ricordiamo che la pubblicazione delle Prose della volgar lingua è del 1525) e prima della ripresa degli entusiasmi di scavo archeologico della metà del Settecento. Antonio Maria Biscioni, dotto fiorentino del XVIII secolo, ci ha lasciato due edizioni del C. (Delle opere di D.A., Venezia 1741, tomo I: Il Convito e le Pistole; Prose e rime liriche edite e inedite di D.A., Venezia 1758, vol. IV: Il Convivio). Con l'esaltazione romantica del Medioevo, le edizioni e i commenti danteschi si moltiplicano: l'Ottocento ci ha lasciato circa una decina di tentativi più o meno riusciti di edizione critica, dei quali almeno due fondamentali (l'edizione dei curatori G. Trivulzio, V. Monti e A. Maggi, Padova 1826, e quella di E. Moore, Oxford 1897). Il nostro secolo abbonda di edizioni di commento scolastico anche ad altissimo livello, ma pochi sono i tentativi di seria critica testuale del Convivio. Abbiamo così l'edizione di E.G. Parodi e F. Pellegrini, incorporata nell'edizione completa delle opere di D., curata dalla Società Dantesca Italiana nel sesto centenario dalla morte (Firenze 1921); l'edizione di G. Busnelli, e G. Vandelli, notevole per un commento ricco di erudizione e di dottrina; e infine l'edizione da me curata (Il Convivio, Bologna 1966), nella quale ho cercato di uscire dai binari tradizionali. Gli editori del 1826 erano stati i primi a intuire la situazione stemmatica della tradizione manoscritta; ciò aveva aperto la via alle integrazioni e alle correzioni, dalle più necessarie alle più fantasiose. Si era giunti così a una specie di stratificazione aggiuntiva di correzioni. A questo stato di cose ho tentato di reagire, aderendo il più scrupolosamente possibile alla lezione dell'archetipo.
Bibl. - Per gli studi sul testo del C. fino al 1966, vedere la bibliografia in M. Simonelli, Introduzione a D.A., Il C., Bologna 1966, pp. XX-XXIII; ulteriormente: F. Brambilla Ageno, Il quarantaquattresimo codice del C., in " Studi d. " XLIII (1966) 263-264; ID., Osservazione sugli errori significativi, in " Lettere Italiane " XIX (1967) 457-459; ID., Riflessioni sul testo del C., in " Studi d. " XLIV (1967) 85-114. Sul lessico e sulla prosa del C.: G. Lisio, L'arte del periodo nelle opere volgari di D.A. e nel secolo XIII; Saggio di critica e di Storia letteraria, Bologna 1902, VII-240 (e cfr. la recens. di E.G. Parodi, in " Bull. " X (1902-03) 57-77, ora in Lingua 301-328; A. Schiaffini, Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana, Roma 19432; C. Segre, La sintassi del periodo nei primi prosatori italiani, in " Mem. Accad. Naz. Lincei " s. 8, IV (1952) 39-193 (ora in Lingua stile e società, Milano 1963, 79-270); B. Terracini, La forma interna del C. e Il lessico del C.: creazione lessicale e neolologismo, in Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, 273-278 e 278-293.
Per l'interpretazione resta fondamentale il commento che accompagna l'edizione curata da G. Busnelli e G. Vandelli (D.A., Il C., con introduzione di M. Barbi, Firenze 1934-37; ripubblicata con appendice di aggiornamento a c. di A.E. Quaglio, Firenze 1964); si veda inoltre: B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Milano 1930 (Firenze 19672); È. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1939; L. Pietrobono, Filosofia e teologia nel C. e nella Commedia, in " Giorn. d. " XLI (1940) 13-74 (ora in Nuovi saggi danteschi, Torino 1954, 69-122); B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944; ID., D. e la cultura medievale, Bari 1949; J.A. Mazzeo, Light Metaphysics, Dante's C. and the Letter to Can Grande della Scala, in " Traditio " XIV (1958) 191-229 (ora in Medieval Cultural Tradition in Dante's Comedy, Ithaca, N.Y., 1960); B. Nardi, Le rime filosofiche e il C. nello sviluppo dell'arte e del pensiero di D., in " Lettere Italiane " VIII (1956) 270-298 (ora in Dal C. alla Commedia, Roma 1960, 1-36); R. Dragonetti, Le sens du cercle et le poète (Commentaire grammatical d'un passage du C.), in Aux frontières du langage poétique, in " Romanica Gandensia " IX (1961) 79-92 (recens. di M. Sampoli Simonelli, in " Cultura Neolatina " XXIII [1963] 273-285); L. Portier, Lecture du C., in " Bull. Société d'Études dant. du C.U.M. " XIII (1964) 63-66; M. Simonelli, Donna pietosa e Donna gentile fra Vita Nuova e C., in Atti del Convegno di Studi su aspetti e problemi della critica dantesca, Roma 1967, 146-159; ID., Allegoria e simbolo dal C. alla Commedia sullo sfondo della cultura bolognese, in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 207-226.