CONVERSIONE
Religione (fr. conversion; sp. conversión; ted. Bekehrung; ingl. conversion). - In latino conversio, da converti o se convertere, vale originariamente "portarsi dall'uno all'altro luogo", "volgersi verso qualcuno o qualche cosa" "cambiare direzione" o "strada". In senso morale religioso, di ritorno al culto e alla pietà di Dio, il termine fu usato dalla Bibbia latina, come equivalente del greco nella versione dei LXX ἐπιστροϕή e dell'originale ebraico èubh. Una volta introdottosi questo senso morale nelle lingue moderne, ha acquistato la più ampia e varia estensione, e ha significato mutamento di qualsiasi interna o esterna disposizione dell'uomo, di pensieri, sentimenti, condotta, religione, carattere, ecc.; non mutamento qualsiasi, ma in meglio, naturalmente dal punto di vista di chi parla, e non ordinario, ma insolito dal punto di vista della comune aspettativa. In mezzo alla grande varietà dei sensi derivati e parziali, è rimasta come dominante l'idea della conversione integrale e stabile di tutta la vita, che abbracci tanto l'interno quanto l'esterno, l'attività conoscitiva e l'effettiva e la volitiva.
Una conversione così ampia e radicale non si può pensare che come effetto di uno spostamento del centro intorno a cui la vita stessa si aggira: essa è cioè il passaggio dell'uomo dall'animalità alla spiritualità, per cui il bene proprio si subordina al bene universale. Questo rovesciamento completo dei valori della vita può essere semplicemente morale, o anche, secondo il senso che il termine ha avuto fin da principio, propriamente religioso, quando cioè il bene supremo viene identificato con la divinità. In questo senso, che è il più comune, la conversione è il passaggio da una concezione egocentrica a una concezione e pratica teocentrica della vita.
Ma non sempre il passaggio a una religione, sia pur superiore, è vera conversione, e viceversa la conversione può avvenire anche all'interno della medesima religione. Giacché sebbene la religione (non si parla qui della cristiana), a differenza della magia che cerca di sfruttare il divino a proprio vantaggio, importi per sé stessa l'assoggettamento dell'uomo a Dio, pure di fatto spesso conserva molte pratiche magiche e considera il culto come un contratto bilaterale; in altri termini non sempre esclude, specie nello stadio naturalistico e pagano, finalità egoistiche in chi la pratica. Quindi, alla pienezza e purità della conversione contribuiscono solo quelle religioni, che esigono un assoluto assoggettamento alla divinità, ovvero nel loro stesso seno cercano di elevare le anime da una religiosità volgare inferiore, ancora attaccata al proprio io, a una completa dedizione di sé a Dio.
India. - Il brahmanesimo si attribuiva la missione di risvegliare gli uomini dal mondo delle apparenze e di dar loro la conoscenza dell'unica vera realtà, il brahma o atman universale, col quale ciascuno s'identifica e deve perciò tornare a confondersi. Il risvegliato, l'illuminato o il sapiente, o buddha, è un vero convertito, perché, per la conoscenza che ha acquistato, si spoglia del desiderio di ogni vanità e si distacca dal mondo per riunirsi con l'essere universale. Uno, anzi il più grande tra i buddha, fu Siddhartha Gotama (v. buddha) che, illuminato sulla natura del dolore e sul modo di superarlo, con l'estinzione cioè dei proprî desiderî, consacrò la sua vita a praticare questa dottrina e a insegnarla, divenendo così il fondatore e il padre di un nuovo monachismo, quale in realtà il buddhismo fu da principio. In esso, alla stessa guisa che nel brahmanesimo, la conversione è concepita come il passaggio dall'apparenza e dall'inganno alla verità, dal turbamento alla pace; se non che tutta l'importanza pratica è riposta non, come nel brahmanesimo, nel punto di arrivo, la cui essenza è completamente ignorata, il nirvana, ma nel punto di partenza, nella conoscenza cioè della vanità del tutto, compreso il proprio io e lo stesso io universale, e nel distacco da tutto, interiore più che esteriore, con l'estinzione del desiderio perfino di vivere.
Grecia. - Anche nella filosofia dei Greci la conversione si faceva consistere nell'acquisto della conoscenza di ciò che è nostro vero bene, e quindi nella fuga di ciò che è bene solo apparente; ma, diversamente dagl'Indiani, anche e soprattutto nell'acquisto del sommo bene, che è realtà positiva e consiste nella virtù, cioè nella pratica della vita conforme al mondo delle idee o alla ragione, norma immanente dell'universo. Una conversione di tal fatta era limitata naturalmente al mondo filosofico; dove si ebbero celebri esempî, come quello del cinico Diogene, di uomini datisi a un genere di vita del tutto diverso dal comune. Ma nei secoli vicini a Cristo la filosofia si popolarizzò, e allora si videro insigni filosofi in rozzo manto col bastone in mano e il sacco in spalla andare di città in città apportatori di un nuovo verbo all'umanità in tutte le sue graduazioni; medici spirituali, che si proponevano di rialzare i molti caduti nel vizio e di avviarli nella virtù, cosicché la loro vita venisse a trasformarsi completamente (transfigurari: Seneca, Epist., VI, 94, 48). Trasformazione che poteva dirsi religiosa, perché sebbene orientata verso una regola di vita proveniente dal mondo delle idee o dal Logos, in questo si vedeva l'equivalente dell'idea di Dio, bruttamente deformata nella religione popolare. Ma nelle correnti mistiche della teosofia ellenistica la conversione acquistò un carattere anche più spiccatamente religioso; secondo essa cioè, la cognizione che opera la conversione, la gnosi, non è il frutto dell'attività dell'umano intelletto ma il portato di una rivelazione soprannaturale, che, come viene da un mondo superiore, così ha per oggetto il mondo superiore, al quale propriamente l'anima umana appartiene, e dal quale decaduta vive pellegrina inconsapevole in questo mondo inferiore, schiava del fato (εἱμαρμένη) e delle leggi fisiche che in esso dominano. La conversione pertanto nello gnosticismo era considerata come risveglio da uno stato di ubriachezza o di sonno alla chiara visione della propria origine divina, e una rinascita (παλιγγενεσία) dalla schiavitù della εἱμαρμένη alla libertà dello spirito.
Nelle conversioni sin qui descritte domina la tendenza intellettualistica: la conversione è un prodotto della riflessione sull'essere o il mondo, e fondamentalmente consiste in un cambiamento di convinzione. Invece nell'ebraismo e nel cristianesimo, in cui il principio fondamentale dell'essere è appreso anche come volontà viva e personale, alla quale l'uomo deve assoggettare la propria, la conversione è sia un mutamento nelle persuasioni intellettuali, sia un mutamento energico di volontà, il passaggio da un atteggiamento di ribellione o anche d'indifferenza verso Dio a quello contrario di amore e obbedienza.
Ebraismo. - Nell'antico Israele i profeti non erano che predicatori di penitenza, mandati però non ai singoli individui, ma all'intera nazione, la quale nella Palestina si era fatta traviare dal culto pagano dei Cananei.
In tempi posteriori, sulla conversione nazionale acquista maggiore interesse la conversione individuale. La "via del peccatore" (Isaia, LV, 7) è la vita menata a proprio piacere senza tener conto della legge divina, mentre la via alla quale egli è richiamato è il timore e l'obbedienza di Dio. Si noti bene però che nell'ebraismo la conversione, tanto nazionale quanto individuale, come ha comunemente per stimolo le esperienze dolorose della vita quali pene del peccato, così ha anche per scopo, come apparisce da molti testi (p. es. Isaia, l. c.) e specialmente dai Salmi, la misericordia di Dio, cioè la liberazione dai mali fisici meritati per il peccato. L'antinomia pertanto su cui si fonda la conversione, tra Dio e il proprio io, nell'ebraismo è alquanto attenuata: io e Dio non sono tanto due poli opposti, quanto i due fuochi della parabola che percorre la vita religiosa degli Ebrei; nel Salmo CX (ebr., CXI) si dice espressamente che il timore di Dio è una buona speculazione per chi lo pratica (v. 10).
Cristianesimo. - Qual sia l'importanza della conversione nel cristianesimo apparisce da ciò, che il Vangelo ha potuto essere compendiato in un semplice appello alla conversione: convertitevi ché il regno di Dio è vicino (Matteo, IV, 17; Marco, I, 49 seg.). La conversione dunque in vista del vicino regno di Dio era per Gesù la condizione unica necessaria per entrare in esso. Ora il regno di Dio, qualunque sia la figurazione materiale di cui si riveste, in sostanza non vuol dir altro che il dominio assoluto ed effettivo della volontà di Dio sul mondo e quindi su ciascuna persona in particolare (Matt., VI, 10; VII, 21, ecc.): la conversione dunque è la rinunzia a sé stesso per Dio, l'assoggettamento completo della propria volontà alla divina. Ma in questo capovolgimento di valori l'io umano non perisce ma piuttosto si salva, perché creato da Dio, voluto e amato da lui; onde nella conversione mentre l'uomo si dà tutto a Dio è sicuro di ritrovare sé stesso in lui: "chi perde l'anima sua per via mia la salva, e chi vuol salvarla la perde" (Matt., X, 39; XVI, 25). Da qui si vede la grande distanza che separa il cristianesimo dal buddhismo da una parte e dal giudaismo dall'altra. Nel buddhismo la conversione, puramente negativa, consiste nel rinnegamento di sé e non altro; nel cristianesimo invece, eminentemente positiva, nella dedizione completa di sé a Dio; onde mentre è affermazione di Dio come bene supremo e unico e per conseguenza negazione di sé come distinto e indipendente da lui, è di nuovo affermazione di sé come creazione e dono di lui. E l'abbandono completo di sé in Dio è ciò che distingue anche il cristianesimo dal giudaismo, dove l'io naturale o l'"uomo vecchio" non arriva mai alla piena distruzione di sé, ma sopravvive coi proprî bisogni e finalità, sia pure insieme e subordinatamente al riconoscimento del supremo dominio di Dio.
Per molto tempo dopo Gesù la conversione insieme col battesimo è stata l'unica porta d'ingresso al cristianesimo; ma in seguito per il battesimo è bastata la nascita del bambino da genitori cristiani, e allora invece della conversione come mezzo universalmente necessario per abbracciare la fede si sono avuti singoli casi di conversione da una vita immorale a una vita conforme al vangelo. Del primo genere di conversioni è tipica quella di S. Paolo; come esempio del secondo si può citare quella di S. Agostino, che è rimasta il vero tipo della conversione sino verso la fine del Medioevo, quando si credeva che il convertito ordinariamente non potesse abbracciare una vita veramente e pienamente cristiana che per mezzo dell'ascesi con la professione monastica. Nel linguaggio infatti degli scrittori medievali, quelli in ispecie appartenenti al monachismo, come S. Gregorio Magno (Epist., III, 39, 64; IX, 144), Cassiodoro (De orth., 6, 7), S. Cesario d'Arles (Regula mon.), ecc., conversione è sinonimo di professione monastica e viceversa; onde i monaci si dicevano anche conversi, titolo che col tempo rimase proprio dei convertiti da qualche umile professione ovvero da qualche genere di vita troppo infamante da non permettere loro di essere innalzati alla dignità sacerdotale, obbligandoli così a rimanere in perpetuo nello stato laicale. Effetto della conversio al monachismo era la conservatio morum, o integrità della vita, la quale obbligava il professo a rimanere in perpetuo nel suo monastero, e quindi implicava la rinunzia alla vita coniugale e familiare ma non a un regolato uso dei beni terreni. Con S. Francesco la parola conversione riacquista il suo significato più pieno: il totale e radicale cambiamento di vita per cui tutto si abbandona, perfino l'abitazione e il possesso delle cose più necessarie, e tutto si abbraccia che serva a mortificare l'amor proprio, per fare unicamente in sé trionfare l'amore di Dio. Con S. Francesco pertanto l'elemento negativo della conversione, la rinunzia di sé, ha raggiunto anche nella sua forma esteriore la più grande altezza, dalla quale però presto è disceso, anche in mezzo agli ordini mendicanti e agli stessi seguaci di lui. Quanto ai tempi moderni, poiché si fa sempre più strada il riconoscimento del proprio valore etico che nel loro ordine i beni mondani posseggono, non è tanto il distacco effettivo da essi, quanto il distacco interiore che è apprezzato e richiesto. Quindi il tipo più comune di conversione nel cattolicismo moderno è il ritorno dall'incredulità o da una fede manchevole a una fede più viva e più pura, e da una vita irregolare e dissipata a una vita pienamente conforme alla legge di Dio e della Chiesa. E si potrebbe a tale proposito ricordare come tipica la conversione del Manzoni.
Naturalmente anche nel protestantesimo la conversione ha una grande importanza. Mentre però nel cattolicismo essa ha un valore morale obiettivo, nel protestantesimo più comunemente ha un valore religioso subiettivo: è cioè, specialmente nella chiesa evangelica, come per Lutero, il superamento della coscienza del peccato e del timore dei castighi divini, per mezzo della fede nella grazia e nella bontà di Dio. Quindi si guarda alla conversione come a un fatto naturale, anzi necessario, della religione, che si aspetta dall'illuminazione interna dello Spirito Santo. Di qui il fenomeno caratteristico delle "reviviscenze" (revivals) religiose ed entusiastiche, frequenti in varie sette riformate e di cui esempî cospicui si ebbero nel metodismo (v.) e nella Salvation Army (v. salvezza, esercito della) sviluppatasi originariamente in seno al metodismo.
Le religioni comunemente si accordano nel considerare la conversione come l'effetto di cause misteriose, naturalmente inesplicabili, in quanto essa avviene per un radicale e spesso improvviso capovolgimento di tutti i valori della vita. Al contrario, la psicologia moderna, la quale ha fatto la conversione oggetto di studî speciali, sostiene che, come tutti gli altri fenomeni umani, la conversione è l'effetto naturale di una serie ininterrotta di fatti, parte esterni e parte interni, molti dei quali non appariscono alla stessa coscienza del convertito, perché si nascondono nel suo subcosciente, donde erompono all'improvviso quando l'intero processo è arrivato a maturità.
È questa la spiegazione comune, soprattutto degli psicologi americani come lo Starbuck e il James, ai quali però il loro connazionale Pratt rimprovera di aver limitato le analisi alle esperienze religiose dei protestanti americani, in gran parte prodotte dalla dottrina luterana sulla salvezza dal peccato, della quale essi fino dalla giovinezza più o meno consapevolmente sono imbevuti. Lo stesso Pratt, come altri psicologi, identifica invece la conversione con la formazione della personalità morale, l'unificazione cioè del carattere, avvenga questa dietro la mancanza assoluta di unità o per il semplice spostamento del suo centro; non altro dunque che un processo di formazione, più o meno comune a tutti e che ordinariamente si compie in una determinata epoca della vita, dagli 11 ai 23 anni. Tuttavia la conversione nel senso classico e storico del termine è un fatto singolare straordinario. Questa diversità dei due concetti è stata riconosciuta da S. De Sanctis; il quale, intendendo la conversione come un rovesciamento di valori, dà grande importanza ai suoi antecedenti coscienti, quantunque non neghi le relazioni discontinue ma costanti tra coscienza e subcoscienza, onde in genere la conversione è insieme l'effetto di luci e di ombre. Anche il De Sanctis, come gli psicologi in generale, proclama di voler soltanto osservare i fatti, prescindendo da qualche altra cosa che ci possa essere oltre i fatti. Contro gli psicologi si può osservare che nei fatti umani la forma esteriore non è separabile dal loro contenuto ideale, e quindi per la spiegazione della conversione, sia pure come fatto, non si può trascurare il contatto cosciente che il convertito finalmente prende col divino, che opera un cambiamento della volontà così radicale e importante. Così soltanto s'intenderebbe come, nonostante le circostanze esteriori e il lavorio interiore che possano averla preparata, la conversione sorga improvvisa e apparisca come una cosa del tutto nuova, dal momento cioè che il fondamento profondo e misterioso della vita si è impossessato dell'io mutevole ed empirico; come essa possa attribuirsi a una causa del tutto trascendente le forze proprie individuali, a un miracolo della grazia divina; come nella dedizione completa di sé all'assoluto il convertito esperimenti in sé una vita nuova piena di calma e di gioia soprasensibile, e si senta interiormente spinto a comunicare ad altri questa sua felicità con l'invitare anche loro a convertirsi.
La storia d'una conversione è tema che non di rado s'incontra in quasi tutte le letterature. Bisogna però distinguere i racconti fatti da altri, e quelli fatti dal convertito stesso. I primi naturalmente sono i più comuni e antichi; essi però ordinariamente non possono fare altro che descrivere le circostanze sensibili o l'aspetto esteriore della conversione. Tale è la descrizione che si fa nei Vangeli della conversione della peccatrice (Luc., VII, 37-49), di Zaccheo (Luc., XIX, 2-10), ecc. Ma pure si sono sempre dati casi anche contrarî: il più antico è nella descrizione, quantunque sommaria, della conversione di San Paolo (Atti, IX, 1-30; XII, 1-21 e XXVI, 2-30). Nell'antichità cristiana, il più tipico esempio è quello delle Confessioni di S. Agostino, il quale forse non avrebbe fatto la storia della sua vita e della sua conversione, se non avesse avuto di mira di contribuire così alle lodi (che è il senso vero di confessiones) spettanti a Dio e alla dichiarazione di molte questioni teologiche. Nel Rinascimento, esempio anch'esso tipico è la conversione di S. Ignazio di Loiola, argomento di studî tra cattolici (Mon. Ign., serie 4ª, I, pp. 31-98) e protestanti (H. Böhmer, Die Bekenntnisse des I. v. L., Lipsia 1902). In tempi moderni non poche sono le opere che hanno per oggetto la conversione dei loro autori, alcune delle quali note anche per il loro valore letterario, come quelle di Retté, Coppée, Huysmans, Benson, Schwob, Joergensen, ecc. Anche l'arte ha preso spesso per oggetto la conversione, il più delle volte contentandosi di ritrarre la scena esteriore; ma non mancano esempî insigni nei quali attraverso gli atti esterni rifulge magnificamente l'interno dell'anima del convertito, come nella Vocazione di S. Matteo del Caravaggio.
Bibl.: J. Strachan, in Hastings, Encycl. of Rel. and Ethics, IV, Edimburgo 1911; H. Leclercq, in Dict. d'arch. chrét., III, ii; J. H. Leuba, Les tend. fond. des mystiques, in Revue phil., 1902; W. James, The varieties of rel. exp., Londra 1902 (trad. it., Torino 1904); E. D. Starbuck, The psychology of religion, Londra 1909; M. Sturzo, La psic. della conversione, in Riv. neoscolastica, 1915; Th. Mainage, La psych. de la conversion, Parigi 1919; J. B. Pratt, The rel. consciousness, New York 1920; G. Runtze, Psych. der Religion, Monaco 1922; H. Delacroix, La rel. et la foi, Parigi 1922; S. De Sanctis, La conv. religiosa, Bologna 1924; A. Retté, Notes sur la psych. de la conversion, Bruxelles 1911.