conversio
. Con questo termine i latini indicavano lo schema retorico consistente nel ripetere la stessa parola alla fine di una serie di ‛ cola ' (generalmente tre): Herenn. IV 13 " Conversio est, per quam... ad postremum [verbum] continenter revertimur ". Esso corrisponde all'epiphora dei trattatisti greci. Raramente usata dagli scrittori classici, a differenza dell'anafora di cui costituisce l'opposto e con cui si lega nella ricercata figura della complexio, la c. appare frequentemente nei testi biblici, dove mira a raggiungere particolari effetti emotivi e sconfina talvolta nella forma litanica. L'esempio biblico, più che quello classico, suggerì l'uso della c. negli scrittori cristiani, mentre i retori continuarono a classificarla, sulla base della definizione della Rhetorica ad Herennium, fra le figure riguardanti la prosa. Alla poesia tuttavia l'attribuiva Goffredo di Vinsauf, nella Poetria nova (v. 1099), fra i colori dell'ornatus facilis.
In D. la c. è pressoché assente se la consideriamo nella sua forma più genuini; infatti, come non è adoperata, se non in qualche caso sporadico, per distinguere brevi membri del periodo (cfr. Ep XIII 78 quando elevatur, in tantum elevatur), così ricorre raramente in tricoli ed è spesso richiesta dalla struttura sillogistica del periodo. D. dovette avvertirne l'artificiosità se cercò sovente di evitare un tale genere di repetitio (cfr. Ep XIII 16 dependet ab alio... ab alio dependeat; Mn III VIII 3 potuit... ligare / ... potest... ligare / ... ligare ipsum posse) e la ignorò completamente nella prosa volgare in accordo con la quasi totale eliminazione del similiter cadens. Un carattere volutamente artificioso ha la medesima figura nella Commedia, dove l'uso di far rimare Cristo solo con sé stesso ha un valore simbolico (Pd XII 71-75, XIV 104-108, XXXII 83-87), e dove la triplice ripetizione di vidi in rima (XXX 95-99) mira a sottolineare l'orgoglio della visione avuta. Possiamo aggiungervi la duplice (o triplice) ripetizione di ammenda con intenzione ironica, in Pg XX 65-69 (altre duplici ripetizioni, che costituiscono rime equivoche pur enfaticamente conclusive di ben scanditi membri, non andranno forse considerate delle epifore: cerchi, Pg XVII 137-139; versi, XXIX 40-42; voto, Pd III 28-30).
Nella Monarchia i casi di c. o costituiscono necessarie ripetizioni con cui si mette in evidenza una formula (simpliciter ente, I XV 2), s'insiste sul rapporto fra due soli termini del sillogismo (Videre et audire, III VI 7; volare, VI 7; cfr. VE I III 2 cum de ratione... esse oportuit; cumque de una razione... esse oportuit, che è un raro caso di complexio, e II III 7 carissime conservantur), si fa eco alle citazioni di auctores (lavare pedes... lavas pedes, Mn III IX 15; a iugo ipsorum... iugum ipsorum, II I 5; de iure fit... divinus fit, IV 1; in solo illo est... scriptum est... tuus unus est, I VIII 3), o rappresentano un modo di legare i tre membri del sillogismo (bonum, I XV 1; non vult, III II 6-7; spiritualium et temporalium, VII 1-2; Ecclesia, X 3). Meno evidente è talora la dipendenza della c. dantesca, pur sempre aliena da una mera funzione ornamentale, dalla struttura logica della frase (intendit, II V 18; iuris, II V 26); talora la stessa figura è ridotta a scandire un lungo periodo o una serie di periodi mediante la triplice ripetizione di un verbo (non licet, III X 8-9; potest, I XI 13-14, XIII 7-8).
Bibl. - H. Lausberg, Handbuch der Literarischen Rethorik, Monaco 1960, 320; A. Quacquarelli, Epifora, in " Vetera Christianorum " IV (1967) 5-22; C. Segre, in Lingua, stile e società, Milano 1963, 262 ss.