contrattualismo
Concezione filosofico-politica secondo la quale la società civile e lo Stato nascono da un contratto stipulato fra i singoli individui che entrano a farne parte. Gli studiosi hanno individuato degli spunti dell’idea di contratto sociale già nella cultura dell’antica Grecia. Per es. il sofista Antifonte afferma che «le norme delle leggi sono create da un patto e non sono prodotte dalla natura». Epicuro a sua volta afferma che la giustizia e l’ingiustizia sono sorte dal bisogno che gli uomini avvertirono, quando incominciarono a vivere insieme, di fare un contratto (sunthéke) per garantirsi dai reciproci danni. Ma si tratta solo di spunti. In realtà l’idea di contratto sociale sorge in Europa solo nell’11° sec., a opera del monaco alsaziano Manegoldo di Lautenbach. Manegoldo era impegnato a difendere l’autorità del papa contro l’imperatore negli aspri conflitti legati alla lotta per le investiture. Egli sostiene con forza che un governante tirannico merita di essere deposto, e che «il suo popolo si affranca dal suo dominio e dalla sua signoria quando risulta evidente che il governante per primo ha rotto il patto (pactum) in virtù del quale era stato designato». Il popolo, spiega Manegoldo, non innalza il re al di sopra di sé perché egli diventi un tiranno, ma perché protegga dall’ingiustizia tutti i sudditi. Sicché colui che viene scelto (eligitur) per reprimere i cattivi e proteggere i giusti merita di essere deposto dalla carica che gli fu accordata, e il popolo è libero da ogni soggezione al re, proprio perché questi ha rotto il patto con i suoi sudditi. Una posizione analoga sarà sostenuta nel 12° sec. da Tommaso d’Aquino: il potere reale ha un’origine popolare; il re non può abusare del proprio potere e ha precisi doveri verso i propri sudditi; se viene meno alla parola data, i sudditi non sono tenuti a mantenere il loro patto (pactum) con lui. Alla fine del Medioevo era ormai convinzione diffusa che lo Stato avesse avuto origine in un pactum societatis. Questa idea perviene all’Età moderna. Ciò si vede nell’opera di Mario Salamonio, che scrive all’inizio del Cinquecento. Per Salamonio lo Stato non è nient’altro che un’associazione civile, la quale non può essere costituita senza contratti (sine pactionibus). C’è una differenza sostanziale fra un princeps e un tyrannus, poiché il princeps è vincolato dalla lex regia, che è una lex populi, in quanto sorge da un patto fra i cittadini (lex ergo inter cives ipsos pactio quaedam est). Salamonio è dunque, al pari di Manegoldo, una figura fondamentale nella storia dell’idea di contratto sociale. Un’idea che conosce nuovi, fondamentali sviluppi nel corso del Cinquecento nell’ambito della Riforma protestante. Un testo molto importante in questo senso è costituito dalle Vindiciae contra tyrannos, il più noto degli scritti politici degli ugonotti. Le Vindiciae apparvero nel 1579 ed ebbero larga diffusione e popolarità; nel Seicento ne fu fatta una traduzione in inglese. Le Vindiciae proclamano che i sudditi non devono obbedire ai principi qualora essi comandino qualcosa di contrario alla legge divina; ma i sudditi possono anche resistere legittimamente a un principe colpevole di oppressione politica. Per sostenere queste posizioni le Vindiciae chiamano in causa due patti o contratti (le parole foedus e pactum vengono usate indifferentemente). Il primo patto ha luogo fra Dio e il popolo: in virtù di tale patto la comunità diventa una Chiesa, un popolo scelto da Dio, al quale esso deve offrire il suo culto. Il secondo patto intercorre fra il popolo e il re: questo è un patto specificamente politico, in virtù del quale un popolo diventa uno Stato e il re è costretto da tale patto a governare con giustizia; in caso contrario il popolo non è tenuto a ubbidirgli. Ma alla fine del Cinquecento motivi contrattualistici appaiono anche in scrittori cattolici. Il gesuita spagnolo Juan de Mariana sostiene nel suo libro De rege et regis institutione (1599) che agli albori della storia gli uomini vagavano solitari come bestie, senza fissa dimora, senza legge e senza governo (una sorta di stato naturale, dunque, anche se Mariana non usa questa espressione). Ma questa condizione era insostenibile, per i latrocini, per la mancanza di sicurezza degli uomini e della loro prole, ecc. Così gli uomini strinsero un patto sociale (mutuo se cum aliis societatis foedere constringere), designando un qualche uomo eminente a governarli. Un re deve governare i suoi sudditi con equità, e se diventa tiranno non merita misericordia. Dunque, anche Mariana sostiene l’origine contrattuale della società e del potere politico. Nel Seicento il concetto di «contratto sociale» è ormai diffuso e riceve un’articolazione sempre più precisa. Francisco Suarez, nel Tractatus de legibus (1612) afferma che il potere reale varia di grado (maior vel minor existit) secondo i termini dell’accordo (pactum o conventio) concluso fra il re e i membri del regno (iuxta pactum vel conventionem factam inter regnum et regem). Questo accordo o patto, sottolinea Suarez, è vincolante tanto per il popolo quanto per il re, e il popolo non può rifiutare obbedienza al re: a meno che egli non diventi un tiranno, nel qual caso si può intraprendere una giusta guerra contro di lui. I grandi teorici del giusnaturalismo ereditano tutto questo patrimonio di idee, lo raffinano e lo sistematizzano. Così Samuel von Pufendorf (1632-1694) offre la formulazione più rigorosa della teoria del doppio contratto. Lo Stato nasce da due diverse convenzioni: il pactum societatis, che trasforma una moltitudine di individui in un popolo, e che viene stipulato singulis cum singulis; e il pactum subjectionis, che dà origine alla sovranità e che viene stipulato fra popolo e sovrano. Con questi due patti gli individui cedono una parte considerevole dell’illimitata libertà di cui godevano nello stato naturale, ma ottengono in cambio difesa e protezione. Thomas Hobbes (1588-1679) fa del contratto sociale un concetto centrale della sua teoria politica: lo stato di natura, in cui gli uomini vivono originariamente, è uno stato di assoluta insicurezza, sicché gli uomini devono uscirne e dar vita a uno Stato (civitas); a tal fine essi si accordano per alienare tutti i loro diritti (tranne uno: il diritto alla vita) a un sovrano. John Locke (1632-1704) riprende lo schema hobbesiano e al tempo stesso lo trasforma profondamente: anch’egli ritiene che gli uomini non possano vivere a lungo nello stato di natura e che a un certo punto debbano dar vita, attraverso un patto o contratto, a una società civile o politica (per lui i due termini sono sinonimi); ma gli uomini non alienano tutti i loro diritti naturali entrando in società, bensì li conservano tutti (tranne uno: quello di farsi giustizia da soli). Il potere sovrano deve quindi rispettare sempre e comunque i diritti naturali fondamentali dei sudditi (vita, libertà e averi), e se li viola rompe il patto o contratto, sicché il popolo ha il diritto di resistergli, di rovesciarlo e di sostituirlo con un altro potere. I Two treatises of government (1690) di Locke costituiscono il manifesto filosofico-politico delle forze parlamentari, che, dopo un secolo di aspre lotte che dilaniano l’Inghilterra, raggiungono nel 1688 il loro obiettivo supremo: quello di edificare uno Stato costituzionale.