Abstract
La riflessione sui rapporti fra contratto e fonti del diritto si sviluppa, tendenzialmente, intorno a due poli: il contratto come fonte, e le fonti del contratto. Il secondo polo della riflessione è quello che assume il contratto non già come fonte del diritto esso stesso, bensì come realtà esposta a fonti del diritto esterne, diverse da sé: in altre parole, alle fonti eteronome che ne fanno, in luogo di fattore regolante, fatto regolato. La nuova concezione del contratto risente della rivoluzione che si è registrata nella gerarchia delle fonti del diritto: se, nonostante gli auspici di molti civilisti, la “costituzionalizzazione del contratto” è sempre più lontana, il quadro attuale delle fonti del contratto testimonia l’avanzata prepotente della legislazione speciale e dei codici di settore. La disciplina del contratto è, inoltre, incisa notevolmente dalle fonti del diritto dell’Unione europea tra cui la giurisprudenza della Corte di Giustizia.
La tutela costituzionale del contratto ha incontrato molti ostacoli sul suo cammino: offrire tutela costituzionale significa rafforzare ciò che il contratto rappresenta, cioè l’autonomia contrattuale, ed è evidente che, a seconda di come sia orientato ideologicamente l’interprete, la garanzia gioca a favore degli interessi liberistici, se l’autonomia è considerata espressione della libertà della persona che negozia, oppure gioca a favore della libertà dal contratto, se l’orientamento è volto a tutelare la parte che subisce l’imposizione di condizioni dettate dal contraente più forte. Non è quindi rivendicandone una tutela costituzionale che si ottiene un rafforzamento dell’istituto, se esso dovesse essere utilizzato per ledere gli interessi della parte socialmente più debole.
La “costituzionalizzazione” del contratto, dunque, nonostante gli auspici di molti civilisti, non si è mai compiuta. Anche di recente, la libertà economica è vista come espressione sì delle libertà individuali, ma come una libertà da esercitare secondo i canoni della concorrenza e dell’utilità sociale e, quindi, in una dimensione collettiva, tale da non incidere sulle forme di espressione della persona. Dunque, il disposto dell’art. 41 Cost. funziona come limite alla libertà contrattuale, piuttosto che non come suo sostegno.
Diversa è invece la problematica della Drittwirkung delle norme costituzionali ai rapporti tra privati; più che di costituzionalizzazione del contratto si può parlare in questo caso di controllo dell’atto di autonomia privata secondo i valori costituzionali, al fine di tutelare il contraente che subisce la lesione di quei diritti attraverso l’accettazione del contratto: in altri termini, essa consente al giudice di applicare direttamente al contratto le regole costituzionali.
Si deve a Pietro Rescigno (Rescigno, P., L’autonomia dei privati, in Iustitia, 1967) la riflessione più rilevante su questo tema.Nell’ambito della nozione di autonomia negoziale, l’autonomia contrattuale significa (ai sensi dell’art. 1329) libertà di determinare il contenuto del contratto e di concludere contratti che non rientrino nei tipi previsti; significa libertà di forma e inclusione del contratto (v. anche Contratto 1. La disciplina del codice civile; Contratto 3. Nuove concezioni).
Tuttavia, non sembra che la nostra Costituzione contempli una garanzia neppure indiretta della libertà contrattuale; tale mancanza non vale a istituire una graduatoria di valori che imporrebbe alla libertà negoziale il rispetto di tutti i diritti fondamentali iscritti nel catalogo in cui essa non trova posto. È il tema della applicabilità diretta (Drittwirkung) dei diritti fondamentali, della efficacia immediata dei Grundrechte rispetto alle private disposizioni e convenzioni.
In verità i risultati della Drittwirkung possono raggiungersi coi tradizionali strumenti di giudizio sul contratto privato, l’ordine pubblico e il buon costume. Inoltre, si può risalire alla libertà contrattuale dalla garanzia di altri istituti.
Si è proposta una lettura degli artt. 41-47 Cost. nel senso di portare l’utilità sociale a fondamento dell’iniziativa privata e solamente entro il limite di realizzazione dell’utilità sociale ritenere tutelati gli strumenti dell’iniziativa, che sono i beni e l’attività, la proprietà e il contratto. Se ci si ferma al tenore dell’art. 41 c. 2 il contrasto con l’utilità sociale come il danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, sembra funzioni da limite esterno al carattere negativo della libertà d’iniziativa. Ma, nella prospettiva ricordata, l’utilità sociale si trasforma nella ragione stessa dell’esercizio dell’iniziativa economica privata. Di qui si giunge al discorso della funzionalizzazione dell’impresa (e di proprietà e di contratto).
Vi è inoltre un altro discorso: la posizione del giudice che sindaca nel merito l’operazione contrattuale e corregge la sperequazione di potere tra le parti. Dalla mobilità del contratto, qual fu concepito in astratto dai codici liberali, si ritorna alla rigidità degli status. Il ritorno allo status viene inteso nel senso che per ogni settore di attività i contratti siano destinati a modellarsi secondo tipi e discipline che rispecchiano la posizione sociale delle parti fino al punto di vedere nel contratto un mezzo onde si esprime la politica economica dello Stato.
L’autonomia contrattuale si definisce nel sistema non solo attraverso la libera determinabilità del contenuto e il possibile ricorso a schemi atipici, ma altresì attraverso la norma che circoscrive alle parti l’efficacia del contratto, escludendo che possano esserne colpiti i terzi; non a caso i primi studi sulle intese restrittive della concorrenza cercano di individuare, per discuterne la libertà, la categoria dei contratti a danno dei terzi.
Nel dibattito recente, si è riaperta la questione della connessione tra libertà economica e tutela della persona: in particolare, si è sostenuto che l’autonomia negoziale trova le sue radici nell’art 2 Cost.; mentre, chi ritiene che l’art. 2 non sia norma aperta lo esclude, sostenendo che la tutela costituzionale della libertà negoziale sia solo indiretta.
Inoltre, ci si domanda se lo Stato e gli enti pubblici possano intervenire direttamente in concorrenza con i privati, ovvero solo in via sussidiaria qualora manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata. Questa deduzione però non è suffragata dal testo costituzionale.
La Corte costituzionale, con diverse sentenze, ha avallato la tesi secondo cui l’autonomia contrattuale non riceve tutela diretta dalla Costituzione, ma è strumentale all’esercizio della libertà economica (C. cost., sent. 27.2.1962, n. 7); si può, dunque, parlare di libertà di mercato solo nei limiti stabiliti dall’art. 41, co. 2, Cost., e tale disposizione è rivolta non solo al legislatore, ma a tutti, compresi gli operatori. In altre parole, la libertà economica non si deve confondere né con le libertà individuali, né con la garanzia della proprietà.
Inoltre, l’affermazione di limiti alla libertà economica è legittima e utile. Non si vede perché la discussione attuale si affanni a sostenere la libertà di mercato; ogni diritto, e quindi anche i diritti di libertà, è limitato in quanto nasce limitato: in primo luogo, dai diritti individuali altrui; in secondo luogo, dall’interesse pubblico.
Si consideri infine che la libertà economica non è considerata dalla Costituzione tra i diritti fondamentali, bensì tra i rapporti economico-sociali. Essa quindi è assai meno garantita delle libertà personali. Nel conflitto tra interesse privato e interesse pubblico, tale libertà è assoggettata al limite della utilità sociale, nonché della libertà, della dignità e della salute della persona.
La giurisprudenza della Corte costituzionale si è occupata di disciplina del contratto, ma i suoi interventi, raramente rivolti ad accogliere le domande di illegittimità, si sono dispiegati soprattutto nella materia dei contratti speciali (diversi dal contratto di lavoro), là dove il rapporto contrattuale, per ragioni di natura economica e sociale, era stato oggetto di provvedimenti legislativi miranti a realizzare finalità dirette a bilanciare il rapporto tra le parti o ad offrire una particolare tutela alla parte considerata più debole.
Gli interventi della Corte sono uniformi nel tempo: non comprendono il contratto nell’ambito della sfera di protezione della persona, non ne assicurano una “copertura” costituzionale; quindi, tendenzialmente, legittimano ogni intervento legislativo che ritagli, delimiti, conformi la volontà espressa dalle parti per finalità di tutela di altri valori costituzionali rispetto a quello della libertà contrattuale. I diritti della persona sono tutelati nel senso che la volontà delle parti non si può spingere fino a violarli: non è quindi la libertà contrattuale in sé a ricever protezione, ma i singoli diritti personali che sono oggetto del contratto e che non possono essere prevaricati dalla parte più forte. La connessione con la libertà d’impresa non si spinge fino a ritenere intangibile la libertà contrattuale in sè e per sè considerata (C. cost., sent. 8.7.1957, n. 118).
Il potere di incisione della libertà contrattuale non è tuttavia illimitato: ciò perché solo una legge dello Stato può circoscrivere la volontà dei privati; tale potere non può essere esercitato con atto amministrativo dalla p.a. in difetto di una specifica disposizione (C. cost., sent. 19.4.1962, n. 35). Insomma, l’intervento legislativo è ammesso, ma si presuppone pur sempre che il principio di autonomia (o di libertà) contrattuale sia onnipervasivo: l’intervento deve essere giustificato da una legge.
Vi sono però confini all’esercizio del potere legislativo? Sono i limiti stabiliti dall’art. 3, e dagli artt. 41 e 42 Cost.: occorre cioè che l’intervento legislativo esprima esigenze di perequazione, oppure di finalità economico-sociali apprezzabili (C. cost., sent. 11.5.1977, n. 109).
Le limitazioni alla libertà contrattuale possono provenire solo dalla legge statale, perché la disciplina del contratto è riservata dall’art. 117 Cost. allo Stato, sotto la formula di ordinamento civile. La Corte Costituzionale ha, in diverse occasioni, ribadito che «L’ordinamento del diritto privato si pone quale limite alla legislazione regionale in quanto fondato sull’esigenza, sottesa al principio costituzionale di eguaglianza di garantire nel territorio nazionale l’uniformità della disciplina dettata per i rapporti privati. Il limite dell’ordinamento privato, quindi, identifica un’area riservata alla competenza esclusiva della legislazione statale e comprende i rapporti tradizionalmente oggetto di codificazione».
Dal 1942 ad oggi si sono moltiplicati gli interventi legislativi in materia di contratti, originariamente riservati ad occasioni di eccezione. Gli interventi hanno riguardato sia intere categorie di contratti, che tipologie speciali.
Molte disposizioni contenute nelle leggi speciali sono di derivazione comunitaria; l’intervento è di volta in volta diretto a tutelare il mercato, a rendere trasparenti le operazioni economiche, a rendere “tracciabili” i pagamenti, e a renderli più solleciti, oppure a tutelare la parte considerata più debole, come il consumatore o il lavoratore o il conduttore. Queste finalità vengono raggiunte mediante l’adozione di tecniche diverse, come l’imposizione di forma e di particolari tipi di pubblicità, l’imposizione di obblighi di comunicazione di informazioni, oppure con la prescrizione di divieti inerenti la inclusione di clausole di limitazione o di esclusione della responsabilità, di clausole vessatorie, e così via.
Tra tutti i codici di settore emanati nel corso dell’ultimo decennio (il codice delle assicurazioni, d.lgs. 7.8.2005, n. 209; il codice dei beni culturali, d.lgs. 22.1.2004, n. 42; il codice del turismo, d.lgs. 23.05.2011, n. 79), il testo che incide maggiormente sulla libertà contrattuale e reca obblighi connessi con la fase precontrattuale, con la fase della conclusione e con la fase della esecuzione del contratto è il “codice del consumo” (d.lgs. 6.9.2005, n. 206).
A mero scopo ricognitivo, si consideri che il codice prevede obblighi “generali” di informazione, contemplandone contenuto e modalità di comunicazione (artt. 5-11), nonché regole particolari sull’indicazione dei prezzi (artt. 3-17). Prevede altresì modalità di comportamento connesse alle tecniche di pubblicità, presentazione dei prodotti, e loro commercio (artt. 20-32); prevede regole riguardanti le modalità di conclusione del contratto fuori dei locali commerciali (artt. 45-49), prescrivendo anche in questo caso l’obbligo di informazione del consumatore su aspetti fondamentali della identità del professionista, e l’esercizio del diritto di recesso. Il codice contiene anche regole sui contratti conclusi a distanza, tecnica che implica una dettagliata osservanza di obblighi di informazione e il diritto di recesso, ed in più regole concernenti le modalità di pagamento del prezzo; si prescrivono regole speciali per i contratti finanziari conclusi a distanza (artt. 67 bis-67 decies bis). E così pure per i contratti relativi alla multiproprietà (artt. 69-81 bis) e di garanzie nella vendita (artt. 128-135). Una articolata disciplina riguarda le clausole vessatorie (artt. 33-38). Questi interventi prevedono regole sulla validità del contratto e sanzioni, anche non civilistiche.
I rapporti tra codice civile e diritto regionale non sono stati oggetto di ampio dibattito. L’attenzione si è concentrata sulla giurisprudenza costituzionale, ma non si ha notizia di ricerche specifiche in materia. Eppure l’intervento delle Regioni, sia sulla organizzazione degli enti privati e pubblici, sia sulle modalità di erogazione dei servizi, è stato intenso e pervasivo. Questa è una lacuna che deve essere colmata, perché, nonostante il significato del sintagma “ordinamento civile” (art. 117 Cost., co. 2, lett. l) che riserva allo Stato ogni intervento normativo nel settore (non più materia ma ambito) la legislazione regionale continua ad essere tumultuosa.
Il contenzioso tra Stato e Regioni è, infatti, uno dei comparti più estesi del controllo di costituzionalità e le politiche invasive delle regioni lasciano intendere che la disciplina del contratto continuerà ad essere incisa anche a questo livello. La tesi dominante ritiene che l’ordinamento civile inteso come complesso delle regole del diritto civile debba essere materia riservata allo Stato: quindi ogni legge regionale che pretenda di disciplinare materie rientranti in questo settore si pone in contrasto con l’art. 117 Cost.
In questo senso si è espressa la Corte Costituzionale con una serie di recentissime pronunce, con le quali ha delimitato l’ambito della legislazione regionale in tutta una serie di materie che ha ritenuto afferenti alla competenza esclusiva dello Stato (v. C. cost., sent. 5.7.2005, n. 405; sent. 12.10.2004, n. 50; sent. 28.4.2006, n. 173; sent. 27.7.2005, n. 271). Una vasta legislazione regionale ha assunto ad oggetto gli appalti pubblici; di qui le numerose questioni sottoposte alla Corte (v. C. cost. sent. 18.12.2006, n. 447; sent. 23.11.2007, n. 401; sent. 21.6.2006, 253).
È in corso una interessante e complessa discussione sulle cd. autorità amministrative indipendenti: gli oggetti della diatriba concernono il ruolo istituzionale delle Autorità, la loro collocazione nel sistema (bilanciato) di poteri previsti dalla Costituzione, il loro potere regolamentare e la qualificazione dei loro provvedimenti nell’ambito delle fonti dell’ordinamento. Si discutono anche i connotati di queste autorità, e cioè quali organismi pubblici possano essere qualificati come “indipendenti”, e con quali criteri si debba procedere alla loro classificazione, stante la eterogeneità dei poteri, dei fini, delle formule organizzative interne, dei moduli di svolgimento dell’attività e dei provvedimenti assunti, da cui sono caratterizzate. Secondo parte della dottrina le Autorità si ripartiscono in regolatori e in garanti; secondo altra parte in amministrative, indipendenti neutrali portatrici di interessi primari costituzionali, indipendenti dedite alla politica dell’economia; secondo altra parte ancora in Autorità con compiti di aggiudicazione, con compiti puramente amministrativi e indipendenti con competenze tipicamente amministrative. Quanto alla qualificazione dei loro atti, si parla di atti a contenuto normativo, di atti amministrativi, di norme secondarie speciali, di norme sub-primarie e così via. Anche l’uso del termine regolamento con cui si connotano comunemente gli atti assunti da queste Autorità è considerato ormai neutro, in quanto non sempre si è in presenza di regolamenti amministrativi provvisti dei caratteri tipici secondo i canoni tradizionali, e spesso il termine è impiegato in modo anomalo. In ogni caso, il potere normativo – per le autorità che ne sono provviste – deve essere loro conferito mediante legge.
Le disposizioni previste dalle leggi istitutive di alcune Autorità amministrative indipendenti prevedono l’esercizio di poteri di regolamentazione degli atti compiuti dai soggetti vigilati con terzi. E i terzi di volta in volta sono ascritti alle categorie dei professionisti/concorrenti, dei consumatori e dei risparmiatori, o più semplicemente dei beneficiari della loro attività.
La semplice identificazione e la raccolta di queste disposizioni non è agevole. Ad es. l’Autorità antitrust ha poteri autorizzatori, poteri ispettivi, poteri sanzionatori (l. 10.10.1990, n. 287). Al di là del potere regolamentare utilizzato per la definizione delle procedure inerenti le violazioni della disciplina della concorrenza (interna) e della pubblicitàcommerciale, ingannevole o comparativa, l’Autoritàantitrust non ha poteri regolamentari diretti inerenti la materia della disciplina contrattuale. Tuttavia, dalla sua “giurisprudenza”, si possono derivare “regole” inerenti l’abuso di posizione dominante, le intese, le concentrazioni dirette ad alterare o aventi l’effetto di alterare le condizioni di concorrenza del mercato.
Autonomia privata, codici deontologici, accesso alla giustizia presentano un minimo comune denominatore: la formazione negoziale del diritto. Si ritrovano infatti elementi negoziali sia alla base dei codici deontologici, in quanto tali codici possono essere predisposti e approvati da gruppi, associazioni, categorie professionali, oppure predisposti da terzi e adottati dagli interessati; sia alla base delle formule di risoluzione stragiudiziale delle controversie, quali la clausola compromissoria o il compromesso arbitrale, l’assoggettamento ad una procedura di conciliazione o di arbitrato, e così via.
Individuato il common core dei fenomeni in esame, si è posto il problema dei limiti dell’autonormazione e delle garanzie che debbono essere mantenute in capo ai privati: non solo ai privati che dettano regole, ma a quelli che vi si assoggettano. In altre parole, la creazione negoziale non può farsi strumento di prevaricazione del più forte sul più debole, né strumento di contrasto con l’ordinamento, né strumento di elusione delle regole dello stesso.
Ogni settore dell’economia ha alimentato la polemica tra sostenitori del mercato libero da limitazioni, prescrizioni, controlli e sostenitori del mercato libero nel rispetto delle regole di correttezza, buona fede, tutela degli interessi deboli e degli interessi socialmente rilevanti. Sciolta l’antinomia, o quanto meno, individuata la scelta di campo da parte del legislatore e dell’interprete, si possono individuare diversi modelli di rapporto tra autonomia e controlli: i) autonomia e autocontrollo; ii) autonomia ed eterocontrollo; iii) eteronormazione ed autocontrollo; iv) eteronormazione ed eterocontrollo.
Un’analisi anche sommaria di questo mondo rivela che la categoria degli status non è stata superata né soppressa dalla codificazione del 1942, dalla legislazione speciale e dagli orientamenti giurisprudenziali. Qui convivono status di privilegio e status di protezione.
Oltre ai singoli operatori economici individuali o collettivi, entrano in gioco, in questo quadro, le aggregazioni di individui: aggregazioni di professionisti e di imprenditori, aggregazioni di consumatori, risparmiatori, utenti.
Ma, mentre nella nostra esperienza si distinguono ancora i professionisti dagli imprenditori, non si sono definite, se non in modo residuale e frammentario, le figure di consumatore, risparmiatore, utente.
Gli interessi sono dunque: individuali, diffusi, collettivi; ma nei diversi settori indagati ha rilievo l’interesse pubblico, che non si può considerare spontaneamente soddisfatto dal reciproco o concorrente soddisfacimento degli interessi privati in gioco.
Il quadro normativo in esame presenta lacune e difetti di coordinamento. Ciò per la diversa origine, il diverso grado e il diverso operare delle fonti normative di cui si è detto.
Spesso gli organismi che regolano il comportamento degli aderenti mediante codici di condotta si propongono anche di regolare i loro rapporti negoziali interni e i rapporti negoziali con i terzi.
Emblematica è la riforma delle Camere di commercio, alle quali la l. 29.12.1993, n. 580 ha affidato il compito di agevolare la redazione di moduli o formulari per la disciplina convenzionale dei rapporti tra imprese e dei rapporti tra imprese e consumatori. Ma vi sono fenomeni assai diversi da questo, e assai più complessi: le associazioni di categoria, gli organismi di controllo della deontologia, spesso si propongono di uniformare e di sistemare le regole negoziali che i singoli aderenti istituiscono con i terzi; si pone allora un problema delicato e grave: se queste regole possano ostacolare la libera concorrenza.
I contratti standard, siano essi predisposti dall’impresa per regolare i rapporti negoziali con i consumatori o per regolare i rapporti negoziali con altre imprese, contengono «condizioni economiche» concernenti prezzi, tariffe, corrispettivi, e clausole che incidono sugli aspetti economici, quali quelle relative a limitazioni o esclusioni della responsabilità, decadenze, recessi ecc.
Sia gli aspetti economici, sia le altre clausole di incidenza economica costituiscono un fattore di concorrenza: l’aderente deve essere in grado di capire e scegliere l’impresa con cui vuole intrattenere il rapporto in funzione di tutti questi dati; la predisposizione uniforme dei modelli da parte di imprese del medesimo settore agevola questa scelta. Nel contempo, però, una eccessiva uniformità può falsare la concorrenza, e quindi ridurre notevolmente i vantaggi dell’aderente.
La predisposizione di moduli uniformi alle imprese di un settore spesso è incoraggiata dalle associazioni di categoria. Ma le direttive delle associazioni di categoria rivolte ad impegnare le imprese iscritte ad attenersi ai modelli o alle regole uniformi elaborate dalle medesime associazioni contrastano con l’art. 2, co. 2, l. n. 287/1990, perché le direttive delle associazioni si possono considerare o come cartelli veri e propri oppure come intese che falsano la concorrenza; sia nel settore assicurativo che in quello bancario, infatti, si registrano casi in cui l’Autorità antitrust ha provveduto ad irrogare sanzioni riscontrando ipotesi di abuso.
In ogni caso, i codici deontologici devono essere esaminati nella loro conformità ai valori che sorreggono la comunità, piuttosto che non nella difesa di interessi di categoria o corporativi.
Nell’ambito dell’autonomia privata si sono affermate le prassi negoziali: esse fanno parte del “diritto non scritto”, ma non per questo meno rilevante ai fini della individuazione delle regole che i privati si dànno per compiere operazioni economiche.
Solo di recente i manuali, in particolare i manuali di diritto privato, hanno cominciato a descrivere e a discutere gli orientamenti giurisprudenziali. Da qualche decennio, la cultura giuridica è mutata: oggi manuali, trattati, saggi riproducono con attenzione i modelli interpretativi giurisprudenziali, si esalta la creatività giurisprudenziale, e la giurisprudenza ha ricevuto il più alto riconoscimento, essendo elevata a dignità di fonte del diritto. Sono inoltre diffusi casebooks e raccolte di sentenze a complemento dei programmi d'esame. Tuttavia, persistono nella cultura giuridica vere e proprie prevenzioni nei confronti della prassi.
Nel linguaggio comune l'espressione “prassi” è sinonimo di “pratica” e significa, riassuntivamente, complesso di pratiche osservate da operatori; è contrapposta a “teoria”, che invece significa complesso di elaborazioni concettuali e astratte; sicché, oltre che comportamento osservato, significa anche tecnica impiegata da operatori, cioè da chi applica le teorie nella vita concreta. Il termine «prassi» è talvolta definito in modo residuale, indicando tutto ciò che non è teoria; spesso, acquista connotati negativi, riguardando comportamenti, modi di dire, formule, che servono per risolvere problemi contingenti ma non assurgono a dignità scientifica.
Una risalente tradizione contrappone il diritto teorizzato al diritto praticato: non solo si distingue la law in books dalla law in action, ma i teorici, quando vogliono separare le loro elucubrazioni dalla considerazione dei modi in cui il diritto è praticato (cioè osservato, interpretato, applicato) aggiungono alla qualificazione “teorico” quella di “pratico”, oppure, più semplicemente, si riferiscono all'attività degli uffici amministrativi in termini di “prassi amministrativa” e all'attività degli uffici giudiziari in termini di «indirizzo giurisprudenziale, in giurisprudenza, orientamento dei giudici, ecc.
È appena il caso di sottolineare che la distinzione è fallace, perché, anche assunto come punto di partenza o di osservazione che teoria e prassi hanno un proprium singolare e non confondibile, tra teoria e prassi non vi è contrapposizione bensì osmosi e forse sostanziale unità: osmosi perché dalla pratica emergono esigenze e proposte che la teoria codifica in assiomi, in schemi logici, in sistemi e dalla teoria emergono suggerimenti che nella pratica possono trovare felice applicazione; unità, perché spesso il teorico è anche pratico e viceversa. Diritto accademico e diritto vivente finiscono quindi per essere categorie mentali, che, al lato “pratico”, rifuggono da fratture vere e proprie.
I filosofi e i sociologi del diritto che nutrono sentimenti di simpatia per l'approccio giusrealistico, sanno che una disposizione richiede le addizioni dell'interprete per poter avere un qualche significato pratico, che il diritto è il «vero» diritto così come applicato dai tribunali, dagli uffici, dagli operatori economici, che una regola di diritto in tanto sta e assume di volta in volta significato in quanto sia descrittiva di comportamenti praticati. Per parte loro i comparatisti da molto tempo avvertono che ogni tentativo di comparazione sarebbe dimidiato, quando non fallace, se fosse privo di un riscontro nella prassi (quanto meno nella prassi giurisprudenziale).
In ogni caso, nell'economia di questo discorso, assumiamo teoria e prassi quali convenzioni linguistiche in cui esse alludono rispettivamente al significato comunemente loro attribuito.
Lo studio della prassi, nella letteratura civilistica, si confonde con l'orientamento dei tribunali e con l'operato dei giuristi che svolgono attività professionale. Diversa è la situazione per il diritto amministrativo, ove la prassi amministrativa assurge non solo ad oggetto di studi, monografia e catalogazioni, ma anche a dignità scientifica.
Dal lavoro di Franco Piga relativo alla prassi amministrativa è utile trarre alcune considerazioni di carattere generale, che valgono per ogni tipo di prassi: questa, pur essendo legata all'osservanza ripetuta di comportamenti, non è comportamento tale da esprimere una volontà come accade per gli atti e i negozi giuridici; si fonda sull'autorità di chi esprime il comportamento (basti pensare all'uso del precedente giurisprudenziale); è divenuta espressione di un processo di formazione e di sviluppo delle istituzioni e dei procedimenti, ha impedito abusi e disfunzioni gravi; deve essere controllata perché non degeneri in comportamenti illegittimi, non ostacoli l'organizzazione sociale né l'esercizio dei diritti dei cittadini; gli interessi di cui si fa espressione debbono essere contemperati con gli altri interessi radicati nella vita reale.
La dottrina classifica le prassi tra gli usi, distinguendo questi in usi normativi, usi commerciali, usi contrattuali. Si è sottolineato come spesso gli usi anticipino l'intervento legislativo; l'osservanza ripetuta con la convenzione della sua vincolatività riconduce gli usi alla consuetudine e quindi li trasforma in fonte di diritto (Carnevali, U. – Grassetti, C., a cura di, La giurisprudenza forense e dottrinale come fonte del diritto, Milano, 1985, 254).
Le classificazioni possono essere più analitiche, ricorrendo a diversi criteri.
A seconda degli effetti prodotti, le prassi si possono classificare in:
i) prassi semplificatorie: si tratta delle prassi che eleggono una teoria e la applicano pedissequamente (la teoria della causa come funzione economico-sociale del contratto); ii) prassi innovative: sono le prassi che, di fronte agli strumenti applicati, registrano l'esigenza di crearne di nuovi per meglio soddisfare la realizzazione degli interessi economici (contratti socialmente tipici); iii) prassi di importazione: sono le prassi create attraverso l'influsso di altre prassi provenienti dall’estero (i contratti che terminano in -ing);iv) prassi derogatorie: sono le prassi che si allontanano dalla disciplina vigente, troppo astrusa o complessa, per concentrare o unificare comportamenti e interpretazioni.
Ogni classificazione, quanto agli effetti, è arbitraria, e la enumerazione può continuare.
Sono esempi di prassi negoziali introdotte per colmare le lacune del diritto interno le operazioni economiche tratte da esperienze straniere: sono i cosiddetti «nuovi contratti», che si individuano, spesso, con espressioni in lingua straniera; invalsi nell'uso, i nuovi tipi contrattuali ricevono poi correzioni, adattamenti, variazioni che ne sottolineano o conformano il contenuto assecondando le esigenze del mercato nazionale. Tanto per esemplificare, hanno questa origine il contratto di leasing, il contratto di factoring, il contratto di engineering, il contratto di franchising, il contratto di merchanding, il contratto di trading, il contratto di know-how, ecc.
Rispondono alla medesima esigenza i nuovi “prodotti finanziari”, come futures, collars, swaps, ecc. E così pure le formule di “multiproprietà” (time-sharing, proprieté spatio-temporelle).
Oltre al nomen, queste operazioni economiche conservano, almeno per una prima fase, il contenuto e il testo importati, salvi poi i rimaneggiamenti e le innovazioni testuali e contenutistiche richieste dalle esigenze economiche.
Ancora. Molte sono le varianti ai tipi legali invalse nella prassi: ad es., la polizza assicurativa è stata piegata ad esigenze di garanzia (e perciò ha preso il nome di “polizza fideiussoria”).
Le nuove prassi possono riguardare la stessa formazione del contratto: nei rapporti tra imprese, la formazione è attuata spesso con l'invio di un “ordine”; l'acquisizione di pacchetti azionari o di complessi aziendali prevede la ripartizione dell'operazione in più fasi, che comprendono lettere d'intenti, lettere di patronage, la trattativa vera e propria, la minuta contrattuale, il preliminare, il definitivo e il “closing”.
Alcune prassi sono espressione dell'esigenza di ridurre l'incidenza fiscale, ad es. la prassi di dichiarare il prezzo reale del bene solo nel contratto preliminare; la prassi della conclusione del contratto mediante scambio di lettere, al fine di evitare la registrazione; il ricorso al leasing per poter profittare dei benefici fiscali ad esso accordati; la prassi dell'arbitrato irrituale.
La generalizzazione del regime vincolistico delle locazioni abitative ha provocato il ricorso a strumenti negoziali elusivi dei divieti, che si traducono in anticipazioni e capitalizzazioni dei canoni, in locazioni transitorie, in locazioni di abitazioni arredate; il principio di tipicità delle promesse unilaterali è stato superato dalla creazione dei cd. “titoli atipici”; il divieto del patto commissorio è stato aggirato con la creazione di complesse operazioni negoziali (come il lease back); il divieto di alienazione o la prelazione ereditaria sono aggirati tramite l'usucapione da parte del terzo destinatario del bene; altri divieti sono aggirati mediante le cosiddette “triangolazioni”; anche talune categorie di patti parasociali sono impiegate per il perseguimento di interessi che divergono dall'interesse sociale.
Tutti i contratti ad oggetto informatico sono derivati da esperienze straniere; è invalso nell'uso il telex e il fax: mentre tuttavia il telex è assimilato al telegramma, per il fax sussistono ancora dubbi sulla sua funzione probatoria.
Il controllo delle prassi può essere organizzato in diversi modi: i) attraverso la registrazione e la catalogazione affidata ai consigli professionali; ii) attraverso la valutazione critica della dottrina, che legittima (scientificamente) la prassi, ne enuncia l'utilità, la coerenza interna, la coerenza con l'ordinamento; iii) attraverso le corti: la prassi può essere approvata o riprovata, non in quanto tale, ma attraverso il controllo giurisdizionale del singolo atto creato in funzione di o in aderenza a una prassi; iv) attraverso il legislatore, che approva o vieta comportamenti afferenti a prassi.
La disciplina del contratto è incisa notevolmente dalle fonti del diritto dell’Unione europea. Nel Tfue si contengono disposizioni che, riguardando l’integrazione del mercato europeo, e il suo funzionamento efficiente, promuovono la concorrenza, e quindi il diritto comunitario disciplina gli accordi e le intese dirette a falsarla; tra gli scopi dell’ Unione si prevede la tutela delle libertà di circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali, che avviene anche mediante l’utilizzazione di strumenti contrattuali; tra gli scopi dell’ Unione sono ricomprese la tutela del consumatore e la tutela dell’ambiente, settori nei quali l’impiego del contratto è vitale; nel mercato dei capitali, nella vita delle società, nella circolazione di prodotti finanziari, tutte materie di competenza concorrente dell’Unione e dei legislatori nazionali, si utilizzano contratti, e quindi ne emergono regole dirette a modellare questo istituto.
Si consideri ancora che la Carta dei diritti fondamentali delinea il quadro dei valori sui quali poggia l’Unione, e le disposizioni da essa previste si riflettono anche sui rapporti contrattuali conclusi dai cittadini europei, se si ritiene che tali regole – pur entro i confini delle competenze dell’Unione – siano direttamente applicabili ai rapporti tra privati.
L’area dei diritti fondamentali, dei diritti dei consumatori e dei diritti correlati all’ambiente, la concorrenza e le quattro libertà costituiscono un corpus di norme che fondano il diritto contrattuale europeo già vigente. L’appartenenza all’Unione ha integralmente modificato la fisionomia di quel settore del diritto un tempo denominato diritto contrattuale “interno” ed ora – con l’affermarsi del principio di unitarietà dell’ordinamento comunitario e dell’ordinamento interno – denominato semplicemente “diritto contrattuale”.
Interi settori degli ordinamenti nazionali trovano la loro ragion d’essere nell’appartenenza all’Unione europea dei Paesi di cui costituiscono una componente essenziale: l’esempio più eclatante – nel nostro ambito circoscritto al contratto – è dato proprio dal comparto dei diritti del consumatore. Inoltre, è in corso di avvio l’edificazione di un vero e proprio diritto privato europeo, nel quale convergono i principi comuni ai singoli ordinamenti o estensibili ai singoli ordinamenti.
Tra le fonti del diritto dell’Unione europea che incidono sul diritto contrattuale italiano si devono annoverare, oltre alle regole scritte, derivanti dai Trattati, dai regolamenti, dalle direttive, anche le regole giurisprudenziali, essendo la giurisprudenza della Corte di Giustizia ormai considerata vera e propria fonte del diritto, e, accanto ad esse, i principi generali del diritto.
Sulla giurisprudenza fonte del diritto ormai vi è una unanime convergenza di posizioni da parte dei giuristi; più complesso è il discorso sui principi generali: a questo proposito si distinguono i principi che appartengono ai testi fondativi dell’Unione e i principi generali del diritto civile. I primi – ad es., il principio di proporzionalità, il principio di precauzione, il principio di sussidiarietà, il principio di sviluppo sostenibile – possono aver un effetto orizzontale diretto e un effetto orizzontale indiretto; i secondi sono stati utilizzati solo da qualche tempo, “scoperti” per così dire dalla Corte di Giustizia, e sono ancora in cerca di una sistemazione scientifica consolidata.
Nel caso della Société thermale d’Eugénie-Les-Bains la Corte di giustizia ha fatto riferimento ad un principio desunto da un ordinamento statuale per risolvere un caso che riguardava l’applicazione del diritto comunitario. La Corte ha invocato i principi generali del diritto civile per sostenere che le obbligazioni discendenti dal contratto impongono di adempierlo correttamente; quindi, nel merito, il deposito effettuato dal cliente a titolo di prenotazione e il contratto d’albergo, non potendo essere considerate operazioni separate, devono essere assoggettati al medesimo trattamento fiscale (C. giust., 18.7.2005, C-277/05, Société thermale d’Eugénie-Les-Bains).
Nel caso Hamilton (C. giust., 10.4.2008, C-412/06, Hamilton), che riguardava l’esercizio del diritto di recesso da parte di un consumatore tedesco che aveva concluso un contratto al di fuori dei locali commerciali, la Corte ha utilizzato i principi generali del diritto civile (senza riferirsi all’ordinamento comunitario, ma) avendo riguardo ad una regola di logica, non ad una regola di diritto scritto; il semplice richiamo a principi di diritto civile sembra evocare le regulae iuris di tradizione romanistica, piuttosto che non principi comuni di diritto civile condivisi dagli ordinamenti statuali degli Stati membri.
L’impiego della locuzione è stato effettuato anche in un altro caso di recesso (C. giust., 3.9.2009, C-489/07, Messner), in cui il consumatore aveva fatto impiego del prodotto ed, esercitato il recesso, aveva dovuto rispondere del danno risentito dal venditore per l’uso della cosa effettuato tra l’acquisto e l’esercizio del recesso.
La Corte procede riferendosi ai principi generali del diritto civile – qui formulati in termini di buona fede e arricchimento ingiustificato – e rinvia la questione al giudice nazionale a cui spetta il compito di determinare l’ammontare del danno subìto dal professionista per l’uso del prodotto.
Sempre in un caso sollevato dal giudice tedesco, che riguardava il recesso da un contratto di partnership concluso mediante la tecnica di vendita “porta a porta”, la Corte ha fatto riferimento ai principi generali di diritto civile per stabilire che l’attore non poteva pretendere la restituzione della somma originariamente corrisposta, ma semplicemente il valore della sua quota al momento del recesso. E’ il principio di equa ripartizione dei rischi che viene in soccorso, ancorché la Corte non faccia alcun riferimento, al diritto tedesco.
In altro caso (C. giust., 7.3.1996, C-192/94, El Corte Inglès) si discuteva se il consumatore dovesse egualmente corrispondere le rate di un mutuo contratto (con la tipologia del credito al consumo) per sostenere le spese di un viaggio organizzato dall’agenzia, viaggio che poi era stato solo in parte conforme alle prestazioni promesse. Pur essendo i contratti collegati, e pur avendo l’agenzia come unico referente l’istituto finanziatore a cui aveva indirizzato il cliente, il diritto spagnolo non prevedeva la sospensione delle rate del mutuo perché il legislatore nazionale non aveva ancora attuato la direttiva in materia. In base ai principi generali del diritto civile spagnolo, infatti, un contratto tra due soggetti giuridici non può incidere in linea di principio sul rapporto giuridico con un terzo (risultato in conflitto con gli scopi della direttiva).
La Corte ha deciso che «in mancanza di misure di attuazione, nei termini prescritti, della direttiva in materia di credito al consumo il consumatore non può fondare sulla direttiva stessa un diritto di procedere contro un prestatore di fondi, persona privata, per inadempimenti in sede di fornitura di beni o di servizi da parte del fornitore con cui detto prestatore di fondi abbia concluso un accordo di esclusiva in materia di credito al consumo, né può esercitare tale diritto innanzi a un giudice nazionale».
L’occasione di utilizzare i principi generali del diritto civile si è riproposta nella decisione del caso Hirmann (C. giust., 4.7.2012, C-74/12, Hirmann). Qui si discuteva se il sottoscrittore di azioni acquistate al secondo mercato che avesse subito un danno a causa di inesatte informazioni contenute nel prospetto, avesse diritto all’annullamento del contratto di acquisto e al risarcimento pieno del danno, oppure soltanto al rimborso della somma versata inizialmente, o, come chiedeva l’emittente, alla restituzione della somma calcolata sulla base del valore attuale delle azioni.
La Corte ha precisato che «per quanto riguarda il riconoscimento del risarcimento del danno e un’eventuale possibilità di liquidare danni a titolo sanzionatorio, in mancanza di disposizioni del diritto dell’Unione in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire i criteri che consentano di determinare l’entità del risarcimento, purché i principi di equivalenza e di effettività siano rispettati».
In altri termini, la Corte ha ritenuto che l’investitore avesse diritto a chiedere l’annullamento del contratto, la restituzione delle azioni acquistate e il risarcimento del danno, rimettendo al giudice nazionale la decisione sulla questione degli effetti dell’annullamento e sulla restituzione delle azioni.
Qui i principi invocati sono diversi: alcuni sono intesi dalla Corte come incorporati nel diritto dell’ Unione – il principio di equivalenza e il principio di effettività – mentre altri, come quelli applicati nel caso E.Fritz (C. giust., 15.4.2010, C-215/08, E.Fritz), richiamato in motivazione, sono disattesi in quanto non si ritiene che siano in gioco l’equilibrio degli interessi delle parti né il problema di un’ equa ripartizione dei rischi (la sentenza Hamilton sopra richiamata, punti 39 e 40), che invece nel caso E. Fritz avevano avuto un ruolo dirimente.
Nel caso E.Fritz – attesa la sua peculiarità, riguardante la vendita porta a porta di una partecipazione ad una società di persone – la Corte ha interpretato la norma comunitaria per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dai locali commerciali (direttiva del Consiglio 20 dicembre 1985, 85/577/CEE) conformemente ai principi generali del diritto civile: tale norma è volta a garantire un equilibrio che soddisfi proprio un’equa ripartizione dei rischi tra le differenti parti interessate.
In questo senso, la Corte ha applicato la direttiva sulle vendite fuori dai locali commerciali anche alla fattispecie di acquisto di una quota di un fondo immobiliare chiuso costituito in forma di società di persone, e ha ritenuto che il consumatore può invocare nei confronti di tale società, sul saldo di liquidazione, un diritto calcolato in funzione del valore della sua partecipazione al momento del suo recesso da tale fondo e, pertanto, può ottenere eventualmente la restituzione di un importo inferiore al suo conferimento ovvero può essere tenuto a partecipare alle perdite del detto fondo.
Ma i progressi a cui è pervenuta la dottrina con i progetti di armonizzazione del diritto privato europeo e gli stessi testi oggi discussi sotto forma di strumenti del diritto comunitario ci inducono a credere che non sia più il caso di tracciare distinzioni sottili tra principi generali di livello costituzionale e principi generali di diritto civile: è evidente che il bilanciamento dei principi tra loro confliggenti si dovrà operare non tanto ricorrendo alla ascrizione dei principi ad una o all’altra categoria, e quindi dando rilevanza al loro rango, ma al tipo di interesse che essi tutelano.
Il diritto comunitario dei contratti vigente non è un corpus normativo coerente e sistematico, ma deriva dalle diverse fonti del diritto dell’Unione europea. Un programma di riformulazione delle regole in materia di contratti è perseguito in parte con la direttiva sui diritti dei consumatori (dir. 83/2011/UE) in parte con la proposta di Regolamento opzionale sulla vendita (reg. 284/2011), approvato in prima lettura il 26.2.2014.
Il quadro complessivo delle regole vigenti è frammentario, sia perché deriva da diversi tipi di fonti normative; sia perché gli interventi sono di carattere settoriale. Il contratto non è definito in generale, ma di volta in volta si definisce l’operazione economica a cui lo strumento dà forma giuridica.
Mentre le regole generali sul contratto previste dagli artt. 1321 ss. del cod. civ. considerano le parti in modo astratto, in questo corpus di regole di derivazione comunitaria le parti sono definite per categorie, anch’esse astratte, ma connotate da particolari requisiti, che delimitano l’ambito di applicazione delle diverse normative.
Si consolida il principio di eguaglianza inteso in senso formale, e cioè inglobando il divieto di discriminazione. Si contrasta l’abuso di potere contrattuale con la inclusione di regole attinenti al comportamento precontrattuale delle parti.
Anche la formazione dell’accordo è toccata dalle regole del diritto comunitario europeo vigente. L’accordo è considerato definitivo, una volta concluso, ma potenzialmente “caduco”: in certi tipi di contratto e per certi tipi di parti l’accordo può cadere se vi è recesso della controparte del professionista.
L’abuso di potere contrattuale riguarda sia le tecniche di pubblicità commerciale sia l’effetto sorpresa, proprio delle vendite fatte al di fuori dei locali commerciali.
Altrettanto rilevante è il controllo della vessatorietà delle clausole: qui il principio di equivalenza è inteso innanzitutto circoscritto ai contratti del consumatore, poi a categorie di clausole predefinite come vessatorie o potenzialmente vessatorie, poi a un duplice controllo, di buona fede e di “significativo squilibrio” tra le posizioni giuridiche delle parti.
Il controllo sul contenuto riguarda anche la chiarezza e intelligibilità delle clausole: le espressioni rendono più dettagliate le regole sulla interpretazione del contratto del nostro codice (artt. 1362 ss.). Si introduce il principio di trasparenza, che il nostro ordinamento prevede solo per determinate tipologie di contratti.
L’inadempimento del contratto è articolato nelle sue regole a seconda delle tipologie di operazioni economiche considerate. Ma tutta l’area dei rimedi costituiscono un complesso di nuove tecniche di tutela dei diritti della parte più svantaggiata, considerata in astratto.
Fonti normative
Artt. 1329, 1362 c.c.; Artt. 2, 3, 41-47, 117 Cost.; l. 10.10.1990, n. 287; l. 29.12.1993, n.580; d.lgs. 7.8.2005, n. 209; d.lgs. 22.1.2004, n. 42; d.lgs. 23.05.2011, n. 79; d.lgs. 6.9.2005, n. 206.
Bibliografia essenziale
Carnevali, U. – Grassetti, C., a cura di, La giurisprudenza forense e dottrinale come fonte del diritto, Milano, 1985, 254; Rescigno, P., L’autonomia dei privati, in Iustitia, 1967.
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