CONTINENTE DI PLASTICA
Espressione con cui ci si riferisce ad accumuli di rifiuti di dimensioni estremamente notevoli, prevalentemente composti da materiale plastico, concentrati in diverse aree oceaniche. A partire dalla scoperta del c. di p. nel Nord del Pacifico a opera del velista Charles Moore nel 1997 (uno dei più estesi, che si pensa abbia raggiunto dimensioni doppie rispetto a quella degli Stati Uniti), studi più approfonditi negli ultimi anni, tra cui la spedizione Malaspina compiuta tra il 2010 e il 2011 (che ha raccolto campioni di detriti plastici in 141 siti oceanici), hanno permesso di comprendere meglio l’entità, la distribuzione e i danni ambientali ed economici provocati dalla concentrazione in mare di tali detriti. I rifiuti plastici, il cui ammontare è stimato intorno a 269.000 t (ma la cui estensione totale risulta incerta, data l’impossibilità di individuare i detriti dal satellite o di calcolare la densità di agglomerazione), una volta in mare sono soggetti all’azione delle correnti oceaniche e tendono nel tempo ad accumularsi nelle aree di convergenza dei vortici subtropicali (dell’Oceano Indiano, del Nord e Sud del Pacifico, del Nord e Sud dell’Atlantico). Il materiale plastico, non essendo soggetto a processi di biodegradazione, permane nelle acque riducendosi progressivamente in frammenti attraverso un processo di fotodegradazione, cioè mediante l’effetto della luce solare, coadiuvato dall’azione corrosiva delle onde, del vento e degli organismi viventi. Tali frammenti, di dimensione minore di 5 mm di diametro, vengono definiti microplastica e dominano l’inquinamento della superficie oceanica, risultando particolarmente stabili.
Studi recenti (per i quali si veda The UNEP yearbook 2011 e 2014, a cura dell’United Nations environment programme) ne hanno valutato l’impatto per l’ecosistema marino: se a rifiuti di maggiori dimensioni è legato un fattore di rischio fisico per gli animali, cioè l’ostruzione mortale dell’apparato digerente o respiratorio, ai frammenti di microplastica è legato il rischio di inquinamento chimico, derivante da due fattori: la tossicità del materiale plastico ingerito, che ad alte concentrazioni può avere effetti dannosi per la salute, e la tossicità derivante dalla predisposizione dei detriti plastici ad accumulare PBT (Persistent, Bioaccumulative and Toxic), sostanze persistenti, bioaccumulative e tossiche rilasciate da altri fattori di inquinamento, come residui industriali o domestici, già presenti nell’ambiente marino. Tali sostanze provocano effetti cronici sul sistema endocrino e quindi riproduttivo, aumentano la frequenza delle mutazioni genetiche e la comparsa di fenomeni tumorali: attraverso l’ingestione accidentale di microplastica, esse entrano nella catena alimentare, arrivando a costituire un fattore di rischio per l’uomo stesso.
Numerose sono le iniziative non governative a sostegno dello studio e della prevenzione di tale forma di inquinamento; particolarmente attiva dal 1994 è l’Algalita marine research foundation, una delle ONG (Organizzazione Non Governativa) a sostenere il progetto denominato 5 Gyres, che attualmente studia la distribuzione dei rifiuti plastici di concerto con la spedizione Pangea e la campagna Safe planet delle Nazioni Unite. Nella stessa direzione si muove il Marine strategy framework directive, attivato nel 2008 dalla Commissione europea.