CONTARINI, Federico, detto dalle do' Torre
Figlio di Bertucci di Nadalin e di una nobildonna della quale nulla ci riferiscono le fonti, nacque a Venezia nella contrada di S. Luca, probabilmente nel 1382, come si può desumere dal suo epitaffio.
Tanto suo padre quanto il suo avo paterno si erano distinti nella vita pubblica veneziana. Nadalin, discendente per via diretta dal doge Jacopo Contarini, era stato tra l'altro avogadore di Comun e consigliere; Bertucci si era segnalato soprattutto come diplomatico. Poco sappiamo dei fratelli dei C., a proposito dei quali le fonti cifomiscono solamente notizie relative alla loro vita privata.
I documenti noti nulla ci dicono circa la giovinezza del C.; è forse lecito supporre che egli, al pari di altri patrizi, abbia dedicato i suoi anni giovanili al commercio ed agli affari (ciò che troverebbe conferma nella notizia - riportata dal Priuli, ma non altrimenti testimoniata - secondo la quale nel 1430 sarebbe stato nominato capitano delle galere di Fiandra), e che solo in età matura si sia volto alla vita politica. Le prime notizie, di cui disponiamo sulla sua attività pubblica, risalgono infatti ai primi mesi del 1426, quando venne nominato ambasciatore a Firenze; dovette però rinunziare al mandato per ragioni di salute, e il 23 maggio al suo posto subentrò Nicolò Contarini. Il 28 luglio di quello stesso anno ebbe lo incarico di recarsi presso il duca Amedeo VIII di Savoia.
Secondo il manoscritto della Marciana, che contiene la cronaca dei Samito e che è una copia dell'originale custodito presso la Biblioteca Estense di Ferrara, l'ambasciatore mandato allora presso la corte sabauda sarebbe stato un Federico di ser Giusto Contarini, mentre nell'edizione muratoriana della stessa cronaca si parla invece di un Federico di Giusto Corner. Si tratta, in ambedue i casi, di un errore: i registri dei Senato permettono infatti di spazzare ogni dubbio sull'identità delllinviato veneziano, che fu - come vi appare indicato a chiare lettere - appunto il Contarini. Per poter comprendere l'importanza e il significato della missione affidata al C., bisogna vederla inserita nel quadro della vita politica veneziana e, in particolare, nell'ambito della recente affermazione del partito favorevole ad una espansione territoriale nella pianura padana, partito che era, di conseguenza, orientato verso una scelta di campo in funzione decisamente antiviscontea. In questa fase delle complesse vicende del primo Quattrocento al Senato veneziano premeva soprattutto consolidare il successo conseguito nel corso delle recenti trattative col principe sabaudo. L'alleanza tra il duca di Savoia e la Repubblica dì S. Marco, così come l'assicurazione della neutralità da parte di Sigismondo di Lussemburgo, re dei Romani e di Boemia, era pregiudizialmente necessaria alle potenze aderenti alla lega antiviscontea - i cui capitoli erano stati resi di pubblica ragione l'11 luglio - per indebolire sul piano politico internazionale la posizione della potenza milanese.
Con la comunicazione del 6 agosto, il Senato dette al C. precise istruzioni: doveva passare innanzi tutto per Ferrara, onde informare l'alleato Niccolò III d'Este sul significato dell'ambasceria; doveva quindi recarsi a Firenze. Lì si sarebbe unito a lui un oratore di quella Repubblica, insieme col quale si sarebbe diretto verso la Savoia. I due inviati dovevano cercare di rendere operante la recente adesione di Amedeo VIII alla lega, sollecitandone l'intervento militare - del resto già preannunziato - contro i territori occupati dal ducidi Milano. Dovevano inoltre informarlo dell'andamento delle operazioni di assedio contro Brescia, avvisandolo che la città lombarda sembrava ormai prossima a cadere. La missione dei C. aveva tuttavia anche un altro obiettivo, che sembra stesse molto a cuore al Senato: ottenere da Amedeo VIII l'impegno ad ostacolare in ogni modo la collusione tra Sigismondo di Lussemburgo e Filippo Maria Visconti, nel caso in cui fosse stata dimostrata la fondatezza delle voci, che circolavano con sempre maggior insistenza, circa un accordo tra il duca di Milano e il re dei Romani. Il timore di un intervento imperiale nelle vicende italiane ricompare in un successivo dispaccio del Senato al C., col quale l'inviato veneziano veniva informato dei risultati positivi raggiunti da un'ambasceria sabauda presso Sigismondo. Poiché questi si era mostrato disposto a trattare la pace con la lega, si incaricava il C. di negoziare in tal senso, sostenendo le condizioni poste dal Senato circa la durata della tregua - che sarebbe dovuta essere inferiore ai cinque anni - e il carattere separato dell'accordo, che avrebbe dovuto riguardare solo le potenze della lega e dal quale sarebbe dovuto essere in ogni caso escluso il duca di Milano.
Secondo il Priuli, il C. riuscì a superare egregiamente, nel corso di questa missione, "tutte le difficoltà et la stessa aspettazione che grandissima s'haveva della sua virtù". Ritornato a Venezia, venne eletto nel 1427 consigliere per il sestiere di S. Croce (tale carica gli venne poi rinnovata per gli anni 1431, 1436, 1438, 1443). Il 3 luglio 1431 fu inviato ambasciatore a Firenze, con l'incarico di sollecitare il rispetto degli impegni di ordine militare assunti da quella Repubblica. La corrispondenza fra il C. e il Senato fu in questa occasione abbastanza fitta. Nella città toscana l'oratore veneto si incontrò con gli inviati di Amedeo VIII, ai quali fece sapere che la Serenissima desiderava deporre le armi, impugnate solo per legittima difesa; e da lì comunicò alla Signoria la notizia della vittoria sui Genovesi, colta da, Pietro Loredan nelle acque di Rapallo. Sempre durante il suo soggiorno fiorentino il C. cercò di far giungere dalla Corsica rifornimenti alla flotta.
Rientrato a Venezia e nominato capitano di Padova, agli inizi di aprile del 1432 venne investito di un delicato incarico: per ordine del Consiglio dei dieci ospitò nella sua residenza, con tutti gli onori e con tutti gli accorgimenti necessari a togliergli ogni sospetto, Francesco Carmagnola, che era stato convocato a Venezia per un consiglio di guerra - ma in realtà per essere sottoposto a processo per alto tradimento. Nello stesso anno fu inviato a Brescia come provveditore in campo insieme con Giorgio Comer. Il Senato lodò i provvedimenti difensivi da lui adottati dopo un insuccesso patito in Valtellina dall'esercito veneziano. Poco dopo il C. fornì un'altra prova della sua perizia militare assoggettando la Val Camonica, di cui venne nominato provveditore. Nel 1433 svolse incarichi prevalentemente diplomatici: nel maggio fu inviato a Ferrara per rendere operante il recente trattato di pace, che riconosceva il dominio veneziano sulle città di Bergamo e di Brescia; nell'agosto fu scelto a far parte della delegazione che si doveva recare a Bologna per rendere omaggio a Sigismondo di Lussemburgo, ma declinò l'incarico; nel novembre venne inviato presso il concilio di Basilea e, nel dicembre, presso la corte imperiale.
Nel 1437, insieme con Pietro Loredan, venne posto a capo dell'esercito della lega antiviscontea, dopo la rinunzia del marchese di Mantova, Gian Francesco Gonzaga. Approfittando di una ritirata strategica del Piccinino - il comandante delle forze avversarie -, il C. compì una fortunata scorreria nel Bergamasco e, dopo aver sottomesso in tempi brevissimi la Val Treschero e la Val Cavallina, rientrò a Brescia, dove trascorse l'inverno, preparandosi a sostenere l'offensiva che, come era prevedibile, il Piccinino avrebbe scatenato in primavera. Nell'agosto del 1438, tuttavia, cadde prigioniero degli avversari.
Le circostanze ìn cui il C. perdette la libertà non sono chiare. Secondo la cronaca di Cristoforo da Soldo, il C. sarebbe stato catturato nel corso della battaglia di RovatoBornato, che si concluse con una pesante sconfitta veneziana. Secondo il Sanuto, invece, il C. sarebbe stato consegnato come ostaggio ai Viscontei, insieme con altri, in cambio della liberazione dei cittadini di Legnago e dì Castelbaldo, che si erano arresi ai Milanesi; in un secondo tempo il Piccinino, contravvenendo ai patti, avrebbe fatto imprigionare il C. ed i suoi compagni, "sicché - commenta causticamente il cronista veneziano - son capitati come meritano", perché "furono que' che diedero Legnago".
Quando, nel 1441, cessate le ostilità, si stavano discutendo le clausole della pace, il C. rifiutò di recarsi a Mantova per trattare col duca di Milano: non è possibile per noi conoscere le ragioni di questa presa di posizione, dato il silenzio mantenuto in proposito dalle fonti a noi note. Nel successivo periodo di non belligeranza., il C. svolse incarichi di rilievo, che lo portarono a intervenire più direttamente nelle vicende interne della Repubblica. Membro del Consiglio dei dieci nel 1440, nel 1442, nel - 1444, fu in questo tempo anche savio del Consiglio e avogadore di Comun; nel novembre del 1443 fu tra i quindici savi, che vennero nominati a titolo straordinario, dopo l'eccezionale marea del 10 di quello stesso mese, per fronteggiare con misure urgenti il fenomeno dell'acqua alta.
Il Priuli fornisce la notizia che il C. fu per due volte avogadore di Comun e per nove volte savio del Consiglio. ma non indica gli anni e non cita le sue fonti. Il fondo Segretario alle voci dell'Archivio di Stato di Venezia consente di stabilire soltanto che il C. fu avogadore di Comun nel 1443 (Misti, reg. 4, c. 169r), in quanto le elezioni dei savi sono ivi riportate a partire dal 1448, anno in cui il C. morì, mentre il citato reg. 4 riguarda, per gli avogadori, gli anni dal 1438 al 1455: il registro che lo precede, d'altro canto, copre gli anni dal 1383 al 1387. C'è dunque un vuoto, nella documentazione a noi nota, che concerne proprio il periodo relativo all'attività pubblica del C. e ci impedisce di precisare meglio la biografia di quest'ultimo.
Luogotenente in Friuli nel 1444, svolse anche incarichi diplomatici, che sembrano aver richiesto particolari capacità di mediazione: in quello stesso anno venne infatti inviato a Roma, su richiesta del pontefice Eugenio IV, per partecipare alle trattative, allora in corso, in vista di un accordo tra la Sede apostolica e il duca di Milano; quindi, nel 1445, fu a Milano, dove funse da paciere tra il duca Filippo Maria Visconti e il di lui genero Francesco Sforza. I meriti da lui acquisiti nel corso della sua intensa attività politica, militare e diplomatica gli valsero, nel 1444, anche la prestigiosa carica di procuratore di S. Marco de ultra.
Al 1447 risalgono quattro lettere - tutte edite - a lui indirizzate dall'insigne umanista Francesco Barbaro, lettere che illuminano un aspetto altrimenti sconosciuto della personalità del Contarini. Oltre che uomo di azione, egli si rivela anche uomo di cultura, educato, probabilmente, alla lettura dei classici e dotato di un profondo e interiorizzato interesse per le vicende di politica estera, colte con un senso della realtà non scevro di pessimismo.
Nel 1448 il C. tornò, per l'ultima volta, a dirigere l'esercito, insieme con Almora Donà, contro i Milanesi. La lotta divampò soprattutto intorno a Caravaggio, dove le truppe veneziane si mantenevano sulla difensiva. Appunto a Caravaggio il C. trovo la morte - per ironia della sorte e in contrasto con lo sfondo quasi epico della guerra- per un banale incidente, il morso di un cane rabbioso. Trasportato a Brescia, vi moriva poco dopo, il 18 sett. 1448.
Il suo corpo venne inumato a Brescia, nella chiesa di S. Alessandro. Sulla tomba venne apposto il seguente epitaffio: "Fridericus Contarenus Venetiarum patritius, Divi Marci procurator, maximis domi forisque ob singularum eius virtutum functus honoribus, .LXVI. annorum agens, in exercitu pro patria occubuit .XVI. Calend. Octobris 1448".
Nel 1405 aveva sposato Elisabetta di Daniel Contarini. Da questa unione sarebbero nati, secondo il Barbaro, tre figli: Fantino, Giovanni Alvise - che fu poi provveditore sopra Camere - e Ambrogio, in seguito più volte savio di Terraferma. Secondo altri studiosi, invece, oltre a quelli già ricordati, il C. avrebbe avuto da Elisabetta altri due maschi, Michele e Carlo.
Il Priuli, a proposito del C., commenta, parafrasando Platone: "poco visse a se stesso, molto agli amici et molto più alla patria, havendo nel servitio di quella spese e la vita e le facoltà". Nella sala dei Maggior Consiglio, nel palazzo ducale a Venezia, esisteva un ritratto del C. in toga, che andò perduto in seguito a un incendio.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Miscell. codd., I, Storia venera, cod. 18: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' Patritii veneri, pp. 426, 439, 440; Ibid., ibidem, III, Codd. Soranzo, 31: G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio venero, pp. 795 s.; Ibid., Segretario alle voci, Misti, reg. 4, cc. 1r, 65v, 103r, 113rv, 119r, 124v; Ibid., Senato, Misti, reg. 58, cc. 62v, 162v; reg. 59, c. 19r; Ibid., Senato, Deliberazioni Secreta, reg. 9, cc. 119r, 151v, 154v, 155v, 176v-177v, 197r; reg. 11, cc. 208r-209v, 211v-212r, 213v; reg. 12, cc. 2rv, 12r, 15rv, 17rv, 20r, 28r, 139v, 152r, 175rv, 180v, 184r, 189r, 192r; Venezia, Bibl. d. Civ. Museo Correr. Mss. Cicogna, 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, I, c. 164rv; Venezia, Bibliot. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 169 (= 8186), cc. 15r, 260r, 275v, 276r; Ibid., Mss. It., cl. VII, 125 (= 7460): Cronica Sanuda, c. 405v; M. C. Sabellico, Istorie venez., II, Venezia 1718, pp. 557, 595; A. Naugerius, Historia venera, in Rer. Ital. Script., XXIII, Mediolani 1733, coll. 1090; M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum, ibid., XXII, coll. 987 s., 1018, 1025, 1028, 1032, 1034, 1044.1048, 1075, 1080, 1103, 1106, 1128; Cristoforo da Soldo, La cronaca, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXI, 3, a cura di E. Bissolara, pp. 6, 14, 81; A. M. Querini, Fr. Barbari et aliorum ad ipsum epist., Brescia 1743, pp. 133-136 e, in App., pp. 5 s., 22; R. Sabbadini, Centrotrenta lettere inedite di Francesco Barbaro, Salerno 1884, pp. 130 ss.; I libri commem. della Repubb!ica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, IV, Venezia 1896, pp. 169, 178, 195, 232, 241, 275 s.; F. G. Degli Agostini, Istoria degli scrittori viniziani, I, Venezia 1752, pp. 261 s.; II, ibid. 1754, p. 99; E. A. Cicogna. Delle Inscrizioni Veneziane, Venezia 1827, II, pp. 27 s.; S. Romanin, Storia docum. di Venezia, IV, Venezia 1855, p. 157; A. Gloria, Dei podestà e capitani di Padova dal 1405 al 1509, Padova 1860, p. 17; G. Cappellini, Loscontro di Rapallo, in Nuovo Arch. veneto, n. s., VI (1903), 1, pp. 83, 95, 101; Storia di Brescia, II, Brescia 1963, pp. 36 s., 42 s., 52, 91.