Abstract
Vengono esaminate la genesi e l’evoluzione della disciplina per l’acquisizione al processo civile delle c.d. conoscenze esperte per le quali è necessario ricorrere ad altri che non il giudice e le parti. L’attività del consulente tecnico, che è deputato alla loro acquisizione, rimane al servizio di «decisioni conformi alla verità storica dei fatti oggetto della controversia»: la sua necessarietà e l’interpretazione utile talora a superare la insufficiente «scelta del legislatore – di recente confermata nel contesto delle riforme del 2009 – di non qualificare la consulenza tecnica d’ufficio quale mezzo di prova tipico» costituiscono il fuoco della successiva analisi.
Per il codice di procedura civile, «quando è necessario, il giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica» (art. 61). L’«attività» del consulente tecnico consiste nel «compie[re] indagini», «domandare chiarimenti alle parti», «assumere informazioni da terzi» ed «eseguire piante, calchi e rilievi» (art. 194; art. 62). «Delle indagini del consulente si forma processo verbale, quando sono compiute con l'intervento del giudice istruttore, ma questi può anche disporre che il consulente rediga relazione scritta» (art. 195).
A dispetto della recente introduzione legislativa del sintagma (art. 696 bis c.p.c.), l’espressione consulenza tecnica è assai risalente almeno nell’uso. Dietro il protrarsi della sua assenza, però, dal lessico normativo sta l’opzione sistematica di Carnelutti, il quale si era speso «per una recisa separazione dell’istituto della perizia da quello della prova» (Carnelutti, F., La prova civile, ristampa della I ed. 1915, Milano, 1992, 84), in modo da riconfigurare in senso soggettivo l’istituto – l’esito del cui esperimento già veniva considerato prova documentale senz’altro – attorno all’ausiliario del giudice, poi chiamato «consulente tecnico» come l’assistente di parte era detto dal codice di procedura penale (artt. 323 s. c.p.p. 1930).
Così, anche togliendo dal c.p.c. le parole «perizia» e «perito» e sostituendole, rispettivamente, con «attività» e «consulente tecnico», si voleva promuovere il cambiamento. Sennonché, questo è stato ritenuto più «di parole che … di sostanza» (Grandi, D., Direttive alla magistratura per l’applicazione del nuovo Codice di procedura civile, circolare 14 aprile 1942 n. 2690, in Satta, S., Le circolari ministeriali per l’applicazione del nuovo c.p.c., Padova, 1942, 53 s.). Perciò, non è bastato aver affermato che soltanto il giudice avrebbe dovuto stabilire quando l’apporto dell’ausiliario può essergli «necessario» per farne scaturire che le parti, in realtà, non possano vantare «mai un diritto processuale alla sua chiamata». Presto, infatti, la ridefinizione in senso oggettivo della consulenza tecnica d’ufficio, appunto, avrebbe reso l’istituto di nuovo conio un procedimento di prova, restituendolo anche alla disponibilità delle parti da cui l’espianto dai mezzi di prova aveva essenzialmente inteso rimuoverlo.
Già la dottrina che ne spiegava la disponibilità d’ufficio distingueva tra accertamento di situazioni presenti e prova dei fatti passati, e assumeva che soltanto il primo fosse l’oggetto tipico dell’attività del c.t. (cfr. Satta, S., Diritto processuale civile, V ed., Padova, 1957, 154). Tuttavia, preso atto che il risultato delle indagini del c.t. è «sempre un accertamento di fatto» e che la regola di esperienza è data dal c.t. «sempre in funzione dell’onere della parte», ne veniva concludendo che «la necessarietà non è in funzione del bisogno che il giudice abbia in relazione alla sua competenza, ma è in funzione della esigenza probatoria» (Satta, S., Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 220 s.).
Nel tempo, allora, la disciplina della c.t.u. si è venuta addensando attorno ai distinti nuclei dell’accertamento tecnico e della consulenza in senso proprio: «se la regola dell’onere della prova si giustifica per evitare il non liquet, non si giustifica quando gli elementi per la decisione nel merito potrebbero essere raccolti», come sempre accade se essi sono costituiti da fatti secondari attuali per i quali il c.t. può compiere esattamente «quello che lo stesso giudice ha il potere di compiere» (Franchi, G., La perizia civile, Padova, 1959, 447 e 178). Mentre l’accertamento, però, si risolve in una testimonianza senz’altro, un mezzo di prova in senso stretto, viceversa la consulenza implica un (più) rilevante tasso di deduzione. Ciononostante, è apparsa praticabile una soluzione aggregante tanto l’accertamento quanto la consulenza, delineando per entrambi gli istituti lo statuto di procedimento probatorio, ancor più considerando come finanche la consulenza propriamente detta si risolva nella somministrazione della testimonianza di (almeno) un fatto nuovo secondario, ancorché di tipo soltanto regolare o normativo. Al punto che la dottrina più recente invita a «considerare le conoscenze esperte in maniera unitaria, ossia superando tradizionali differenziazioni fra attività valutativa, assertiva o propriamente percettiva di volta in volta affidata all’esperto in ragione delle specifiche esigenze della singola controversia. Ciò con il fondamentale corollario che, qualsiasi sia l’attività specificamente richiesta nel caso concreto all’esperto …, tale attività dovrà essere considerata (e disciplinata) quale assunzione di un mezzo di prova» (Ansanelli, V., La consulenza tecnica nel processo civile. Problemi e funzionalità, Milano, 2011, 9).
Pur all’interno della medesima struttura normativa la giurisprudenza ha tendenzialmente mantenuto separate le figure del c.t. percipiente in funzione di accertamento dei fatti allegati dalla parte che per il tramite dell’esperto fa domanda di prova degli stessi, in quanto controversi, e quella del c.t. deducente in funzione di valutazione dei fatti di cui non sia (più) controversa l’esistenza, ma rimanga incerto il modo di essere. La nomina del c.t. può risultare comunque necessaria, ma nel primo caso risponde a un bisogno probatorio delle parti e ha per oggetto anche fatti principali, nel secondo a un bisogno probatorio anche del giudice e ha per oggetto soltanto fatti secondari, sicché mentre nella disposizione della c.t.u. in funzione di accertamento emerge un sensibile e controllabile tasso di doverosità, nell’altra permane un tratto facoltativo.
«Si distingue, in giurisprudenza (Cass., S.U., 4.11.1996, n. 9522), la figura del consulente deducente e del consulente percipiente nel senso che, nella prima ipotesi, la consulenza presuppone l’avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto fatti già completamente provati dalle parti, mentre nella seconda, essa stessa potrà sì costituire fonte oggettiva di prova, ma anche qui è sempre necessario che la parte abbia dedotto quanto meno il fatto che pone a fondamento della propria domanda di cui il giudice affida l’accertamento ad un ausiliario in possesso di cognizioni tecniche che egli non possiede. In altri termini è in ogni caso ineludibile l'individuazione del fatto costitutivo della domanda devoluto alla cognizione del giudice e che si riflette, per derivazione, sia sui limiti intrinseci del mandato conferito al c.t. (oltrepassando i quali si incorrerà nel vizio di extrapetizione per interpolazione della causa petendi) e, parallelamente, sull’estensione dell’indagine del c.t. che non può da essi decampare» (Cass., sez. III, 5.2.2013, n. 2663).
Nelle ipotesi di accertamento dei fatti mediante c.t. si registra un’accentuata omologazione alla disciplina della prova in senso stretto: la parte è onerata dell’istanza e il giudice, ricorrendone le condizioni, deve disporla, altrimenti la motivazione di rigetto, che è necessariamente espressa, si fa possibile oggetto di controllo anche di legittimità (il giudice non può disattendere, per es., l’istanza di nomina del c.t. e poi dichiarare tout court la soccombenza dell’istante a norma dell’art. 2697 c.c.); la disciplina del procedimento è presidiata dalla nullità relativa, riconoscendosi anche in tal modo che l’interesse protetto è esclusivamente della parte; e diviene concepibile che la c.t.u. esaurisca in sé tutta l’istruzione probatoria perdendo le caratteristiche di rimedio integrativo.
Invece, nelle ipotesi di valutazione mediante c.t., la sua nomina diviene doverosa ogni volta che le conoscenze richieste siano specialistiche, non rilevando più che il giudice abbia accidentalmente un’esperienza sufficiente se quella indispensabile al caso supera il livello della scienza comune. Si oggettivizza anche qui, insomma, la «necessari[età]» della c.t.u. «Ciò che non è consentito al giudice è di rinunciare all'apporto del perito per avvalersi direttamente di proprie personali, specifiche competenze scientifiche, tecniche ed artistiche, poiché in tal modo non sarebbe permesso alla parte di intervenire a mezzo dei suoi consulenti tecnici e quindi, da un lato, di incidere sull'iter di acquisizione della prova, dall'altro, di esaminare e contrastare, prima della decisione, la prova eventualmente ad essa sfavorevole» (Cass. pen., sez. IV, 28 giugno - 14 novembre 2007, n. 41835).
Quando la giurisprudenza giunge, infine, ad ammettere la c.t.u. sol perché «più funzionale ed efficiente» (Cass., sez. I, 23.11.2000, n. 15136), lasciandola eseguire anche quando ricorre la semplice difficoltà pratica di raggiungere il risultato probatorio nei modi alternativi dei singoli mezzi di prova, e finanche prescindendo dalla stessa natura tecnica del dato apprendibile, la c.t.u. si atteggia allora a procedimento probatorio sussidiario, generale e residuale, di chiusura del sistema fondato sulla tipicità dei mezzi di prova (e dei rispettivi procedimenti), e la relativa condizione di ammissibilità («quando è necessario») va definita sopra una situazione di contenuto intimamente processuale.
La «necessari[età]» della c.t.u. consiste in ciò: quale ne sia l’esito, essa consente di addivenire a una decisione effettivamente di merito, evitandosi la regola formale di giudizio (art. 2697 c.c.). Si tratta, insomma, di mezzo “concludente”, cioè non semplicemente rilevante in ipotesi di successo del suo esperimento, ma rilevante comunque. L’esito della c.t.u. chiude normalmente l’istruzione sopra i fatti che ne hanno formato oggetto facendo scaturire, di regola, la superfluità, a norma dell’art. 209 c.p.c., di ogni altro mezzo.
Il codice prescrive che il provvedimento di ammissione della c.t.u. possa emettersi non prima che le parti abbiano potuto proporre i rispettivi mezzi di prova (in tal senso assolvendo il giudice che intenda disporla dal provocare uno specifico contraddittorio preventivo sulla formulazione dei «quesiti»). L’art. 191, co. 1, infatti, vuole che la nomina avvenga nell’ambito della pronuncia su ammissibilità e rilevanza delle prove dedotte dalle parti. Più esattamente, si postula che l’ammissione della c.t.u. avvenga «con l’ordinanza prevista nell’articolo 183, settimo comma o con altra successiva», e dunque non prima che si determini quel contesto in cui «il giudice provvede sulle richieste istruttorie», ciò che nella specie potrà avvenire direttamente «nomina[ndo] un consulente, formula[ndo] i quesiti e fissa[ndo] l’udienza nella quale il consulente deve comparire». Non è esigibile, al contrario, che il giudice adotti per la disposizione della c.t.u. il modello proprio dei mezzi di prova d’ufficio (art. 183, co. 8, c.p.c.), e quindi che anteponga all’ingresso del procedimento consultivo l’assegnazione di alcun termine perentorio in favore delle parti ed entro cui queste possano dedurre mezzi di prova consequenziali o altrimenti replicare, giacché è lo stesso procedimento mediante c.t. capace di interiorizzare ogni manifestazioni reattiva delle parti che, per la doverosità stessa del contraddittorio, vi si esprimerà in modi corrispondenti a quelli che altrimenti promuove il giudice quando dispone mezzi di prova officiosi in senso stretto.
La nomina del c.t. è atto scindibile dal contesto del provvedimento dispositivo della c.t.u. oggettivamente intesa. Né la dottrina ha mancato di rilevare l’alterità tra la scelta e la nomina del c.t., invocando quale riferimento anche il diritto straniero. La ZPO tedesca, per es., nel rimettere la nomina al giudice, vuole che questo sia tenuto però a designare le persone sulle quali sia caduto l’accordo delle parti (§ 404). E la LEC spagnola fa più o meno altrettanto (art. 339). Nell’indagine sulla peculiare natura del provvedimento di nomina si è fatto ricorso agli schemi di classificazione del diritto amministrativo, pervenendo la dottrina a ipotizzare l’applicazione di alcune norme generali sull’«attività amministrativa» contenute nella l. 7.8.1990, n. 241, la quale si riferisce anche ai procedimenti di amministrazione della giurisdizione. In particolare, in base ai principi relativi alle fattispecie convenzionali del provvedimento amministrativo, si può riportare il procedimento di nomina del c.t. a una disciplina assimilabile a quella dei vigenti codici tedesco e spagnolo: l’Autorità giudiziaria deve mettere in condizione le parti interessate di formulare osservazioni e proposte sulla scelta, osservando lo specifico dovere di «favorire la conclusione degli accordi». Naturalmente, regna un principio di utilizzabilità di tutte le forme concretamente idonee al raggiungimento dello scopo; del resto, il «giudice istruttore esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento» (art. 175). Nelle circostanze che occupano, ciò vuol dire che egli deve astenersi almeno da un esercizio immediatamente imperativo del potere di nomina del c.t. pur dopo essersi positivamente determinato circa l’ammissione della c.t.u. Sicché, almeno in materia disponibile, vi è nel magistrato il dovere additivo di provocare le condizioni essenziali per raggiungere una scelta consensuale. Né un asserito carattere fiduciario della scelta potrebbe oltremodo riuscire confortato dalla legislazione sulla equa e trasparente distribuzione degli incarichi (art. 23 disp. att. c.p.c.), che si colloca all’opposto del principio altrove vigente, secondo cui «Le juge peut commettre personne de son choix». Del resto, il primato nella scelta spettava alle parti già per il diritto comune, quando «regula generalis est quod partes peritos eligant, et eis discordantibus, iudex, nisi sit materia quae dependeat mere a potestate iudicis, tunc enim consensus partium non attenditur». Il punto è decisivo perché la giustizia del risultato processuale può essere radicalmente minata dall’inaffidabilità delle conoscenze mutuate dal terzo mentre può dirsi «un accertamento veritiero solo in quanto formalmente scientifico dei fatti storici» (Ansanelli, V., op. cit., 28).
Nella c.t.u., ciascuna parte va soggetta a un dovuto sub-procedimento legale: una parte non ha il diritto di provare col proprio expert witness, come nel modello anglosassone (sul quale v. Taruffo, M., La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009, 215 ss.), il fatto che altrimenti non è in grado di dimostrare, ma ha soltanto diritto ad acquisire tal genere di prova per il tramite dell’ufficio giudiziario. Dunque, una volta che la c.t.u. sia stata ammessa, ogni parte è ammessa a far valere nell’ambito del relativo procedimento una serie di poteri e facoltà (artt. 194, 195, co. 3, 197, 198, co. 2, 201, c.p.c., 92 disp. att. c.p.c.), innanzitutto attraverso un consulente di parte (c.t.p.), che può designare (anche dove non sia espressamente consentito: art. 696 bis c.p.c.).
I c.t.p. (uno per parte: cfr. Trib. Verbania, 17.12.2010, in Giusto proc. civ., 2011, 845) sono abilitati a interloquire esclusivamente coll’esperto dell’ufficio, non essendo previsto che «presentino al giudice ciascuno una propria relazione»; ma se il c.t.p. offre «dati essenziali», ovvero formuli «rilievi precisi e circostanziati», sta in ultimo al giudice – che «fissa il termine entro il quale le parti devono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione e il termine, anteriore alla successiva udienza, entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse» (art. 195, co. 3, c.p.c.) – il dovere di fornirne confutazione, pena – all’estremo – il vizio di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio».
Sotto quest’ultimo profilo, è stato sostenuto che la novella dell’art. 195 c.p.c. «abbia voluto introdurre una vera e propria “ripartizione di oneri” tra il consulente tecnico di parte, cui è demandato il compito dell’allegazione, nel contraddittorio con il consulente tecnico d’ufficio, dei fatti normativi (non giuridici) secondari inerenti allo specifico campo d'indagine dell'accertamento demandato al perito, e l’avvocato, che invece avrà il compito di agire sulle inferenze logiche che possono discendere dagli esiti peritali, nel momento in cui il contraddittorio ritorna a esplicarsi sul piano della logica, comune e giuridica, che il difensore condivide con il giudicante. Spirato, quindi, il termine utile per proporre al consulente d'ufficio le proprie osservazioni, la parte dovrebbe perdere questa possibilità e le difese contenute nei successivi scritti dovrebbero ritenersi limitate alle osservazioni in diritto sugli esiti degli accertamenti compiuti e in ogni caso non più idonee a incidere concretamente sulla relazione finale» (Teresi, M., I poteri delle parti nel procedimento davanti al consulente tecnico, in Giust. civ., 2011, I, 2030).
Laddove elementi di puro fatto siano stati, invece, raccolti dal c.t.p. prima e fuori del processo, del medesimo c.t.p. il giudice dovrebbe ammettere la testimonianza, se richiesta, qualora intendesse valorizzare come prove le risultanze della c.d. perizia stragiudiziale, altrimenti valutabile come qualsiasi scritto proveniente da un terzo. Infatti, secondo la giurisprudenza, in tanto un elaborato tecnico può qualificarsi “consulenza tecnica di parte”, in quanto esso venga redatto in occasione dell’espletamento di una c.t.u.
Si ritiene rientrante nel potere del c.t. di attingere aliunde dati non rilevabili dagli atti processuali, concernenti fatti o situazioni che formano oggetto del suo accertamento, quando ciò sia necessario per espletare il compito affidatogli; tali indagini, sotto condizione che ne risulti l’indicazione delle fonti, possono legittimamente concorrere a formare il convincimento del giudice. In realtà, la generalizzazione del potere dato al c.t.u. di attingere aliunde difficilmente spiega la coesistenza di alcune previsioni speciali, quali: a) l’art. 198, co. 2, c.p.c., per cui soltanto in materia contabile «il consulente ... può esaminare anche documenti e registri non prodotti in causa. Di essi tuttavia, senza il consenso di tutte le parti, non può fare menzione nei processi verbali o nella relazione»; b) l’art. 121, co. 5, d.lgs. 10.2.2005, n. 30, per cui soltanto in materia di proprietà industriale «il consulente tecnico d’ufficio può ricevere documenti inerenti ai quesiti posti dal giudice anche se non ancora prodotti in causa».
La condizione necessaria per l’acquisizione legittima di quod non est in actis è data, come detto, dalla indicazione delle fonti consultate, le quali devono registrare un’indiscriminata accessibilità ovvero, quando selettiva, tale per cui la posizione delle parti rispetto al criterio di accesso non determini una diversa qualificazione di una o una diversa prossimità dell’altra. Si tratta, quanto all’indicazione della fonte, di condizione necessaria per l’utilizzabilità delle acquisizioni del c.t. che, in quanto ausiliario del giudice, esercita attribuzioni che spettano già all’ausiliato, né il giudice, avendolo designato, si può ritenere espropriato del potere di superare successivamente la mediazione rappresentata dalla relazione del c.t., per procedere egli stesso all’esame diretto delle fonti. Il giudice, se non si vuole far scadere il giudizio di fatto a una verifica di pura legittimità dell’operato del c.t., erigendo come impenetrabile scudo verso la realtà delle fonti di cognizione la sua relazione e demolendo il valore dell’immediatezza (mentre il processo e le sue entità costitutive devono farsi «davanti a giudice»: art. 111, co. 2, Cost.), deve mantenere stabilmente la possibilità di accesso diretto a tutti gli elementi di fatto da cui muove l’elaborazione del c.t., sempre che ammissibili. Altrimenti, sarà da mutuare il principio che esprime l’art. 228, co. 3, c.p.p.: «Qualora, ai fini dello svolgimento dell'incarico, il perito richieda notizie all'imputato, alla persona offesa o ad altre persone, gli elementi in tal modo acquisiti possono essere utilizzati solo ai fini dell'accertamento peritale».
Le valutazioni in senso stretto del c.t. devono essere, poi, necessariamente surrogate dal giudice, poiché esse integrano in ultimo quelle «presunzioni semplici» che sono lasciate dall’art. 2729 c.c. proprio e soltanto alla «prudenza del giudice». Dunque, le attestazioni del c.t. su fatti particolari o su fatti generali costituiscono gli elementi dai quali risalire al fatto ignoto e – perciò – investigato. Sennonché in quest’ultimo segmento dell’attività del c.t., di stampo logico, la perizia tecnica deve essere sostituita dall’impiego, per opera del giudice, della logica comune.
Il sistema di controllo costituito dai gradi di impugnazione della sentenza è, poi, organizzato in modo che anche in sede di legittimità si possa verificare l’utilizzazione di «conoscenze riconosciute con certezza dalla comunità generale degli uomini»; e una conoscenza si può definire così senza che «abbia importanza il fatto che essa sia il frutto dell’esperienza di alcuni, di molti o di tutti gli appartenenti alla comunità, ma ciò che conta è che questa nel suo complesso la riconosca» (Bove, M., Il sindacato della Corte di cassazione. Contenuto e limiti, Milano, 1993, 215 s., che individua nell’art. 116, co. 1, c.p.c., dove si parla di «prudente apprezzamento», la norma di diritto violata in caso di applicazione di conoscenze non accettate come valide dalla collettività).
Artt. 61-64, 191-201, 424, 441, 445, 696 bis c.p.c.; 13-23, 89-92, 145-146 disp. att. c.p.c.
Ansanelli, V., La consulenza tecnica nel processo civile. Problemi e funzionalità, Milano, 2011; Auletta, F., Il procedimento di istruzione probatoria mediante consulente tecnico, Padova, 2002; Barone, C.M., Consulente tecnico: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988; Bove, M., Il sapere tecnico nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2011, 1431 ss.; Comoglio, L.P., L’utilizzazione processuale del sapere extragiuridico nella prospettiva comparatistica, in Riv. dir. proc., 2005, 1145 ss.; Dones, C., Struttura e funzione della consulenza tecnica, Milano, 1962; Franchi, G., La perizia civile, Padova, 1959; Russo, M., Appunti sulla nuova dialettica formalizzata tra C.T.U. e parti, in Giur. it., 2013, 219 ss.; Scarpa, A.-Auletta, F., La scelta del Ctu è veramente “cosa del giudice”?, in Giust. insieme, 2009, 2/3, 93 ss.; Teresi, M., I poteri delle parti nel procedimento davanti al consulente tecnico, in Giust. civ., 2011, I, 2027 ss.; Teresi, M., Il rinnovato profilo del procedimento di istruzione probatoria mediane consulente tecnico, in Giusto proc. civ., 2011, 845 ss.