constructio
. Alla costruzione (constructio), componente fondamentale delle strutture di una lingua e oggetto di analisi da parte dei gramatici (v. in particolare VE I VI 4, Cv II XI 9, XIII 10), D. dedica una parte importante (VE II VI) della teoria e precettistica dello stile supremo o tragico, una volta riconosciuto in II IV 7 che ad esso si addice, oltre che altezza di sententia e bellezza di versi e di vocaboli, anche la constructionis elatio. Richiamandosi alla lontana alla classica definizione di Prisciano (Institutiones II 15), continuamente ripetuta nel Medioevo, di " ordinatio dictionum congrua ", D. definisce dapprima la costruzione regulatam compaginem dictionum (II VI 2; per l'uso di compago o compages in accezione grammaticale, vedi ad es. Sulpicio Vittore Institutiones oratoriae, ed. Halm, Rhetores latini minores, p. 321), e dà quindi come esempio di dictiones compactae regulariter il seguente: Aristotiles phylosophatus est tempore Alexandri (II VI 2), elementare per significato, mancanza di ornamenti retorici e di artificialità nel costrutto, ma già abbellito dalla clausola finale di cursus velox: tèmpore Alexàndri. Segue la tradizionale distinzione di c. congrua, o corretta, e incongrua, o scorretta, dove importa tener presente che per incongrua i grammatici medievali intendono non solo la c. che pecca contro le regole grammaticali ma anche quella che va contro il buon senso logico (vedi ad es. passi di Pietro Elia e Michele di Marbais presso Ch. Thurot, Notices et extraits de divers manuscrits pour servir à l'histoire des doctrines grammaticales au moyen âge, Francoforte 19642, 218-219, 227-228); e quindi l'ovvia eliminazione dell'incongrua dall'ambito dello stile elevato.
A questo punto viene la parte più interessante e originale della teoria dantesca della c., cioè la distinzione di vari (quattro) gradus constructionum, dall'elementare, insipidus, all'eccelso, proprio dei dettatori, e dei poeti, illustri. Nella grammatica e retorica medievali era un luogo comune la distinzione tra un tipo di c. semplicemente corretta e un tipo di c. elaborata retoricamente (vedi ad es. Ugo di San Vittore, in Thurot, op. cit., p. 83; Rationes dictandi (attribuite a torto ad Alberico di Montecassino), ed. Rockinger, Briefsteller und Formelbücher des eilften bis vierzehnten Jahrunderts, Monaco 1863, 10): dove la seconda si caratterizzava per la presenza dell'ordo artificialis delle parole e del cursus e per l'uso dei tropi e in genere della transumptio o linguaggio metaforico (è indicativo, sempre in un passo riportato dal Thurot [p. 459], che al sermo simpliciter congruus, buono per la massa, venga contrapposto, come adatto ai sapientes, il sermo figurativus). L'originalità di D. rispetto alla tradizione sta soprattutto nell'articolazione gerarchica del modello di costruzione elaborata, alla ricerca di una fissazione prammatica delle caratteristiche dello stile supremo: d'altro canto se sono evidenti, particolarmente nel secondo esempio, le frecciate polemiche verso i modi stilistici di scuola del tempo, non è possibile accogliere l'ipotesi che D. suggerirebbe: un parallelismo stretto tra i tre gradi superiori di costruzione e i tre genera dicendi (umile, mediocre, sublime) o i tre stili fondamentali della prosa d'arte corrente, romano tulliano e isidoriano; neppure si può dire che rifluiscano chiaramente nell'esemplificazione dantesca elementi della tradizionale distinzione tra ornatus facilis e difficilis. Si pone il problema del perché D. abbia dato, per i vari gradi della costruzione, esempi in prosa e in latino. L'accostamento di esempi prosaici a esempi poetici (ma questi ultimi compaiono solo per il grado eccelso) non sorprende troppo, dato che in tutta l'opera, nel solco della retorica medievale (sia delle poetriae che delle artes dictaminis), sono evidenti le tracce della nozione di complementarità e in qualche modo osmosi tra poesia e prosa, da cui deriva un certo carattere ambivalente dei precetti retorici forniti: e alla fine di questo stesso capitolo il canone dei modelli latini che possono habituare la c. eccellente comprende insieme poeti e prosatori. Si tenga inoltre conto che l'elaborazione più raffinata dei precetti della c. d'arte era, come ben si comprende, appannaggio delle artes dictandi piuttosto che delle poetiche. L'influenza di tale tradizione potrà dunque spiegare, in parte, anche la scelta di esempi latini. Ma si affacciano altre possibili ragioni: come ha osservato il Di Capua, D. " più che da retore si comporta da filosofo. Quei quattro gradi di costruzione... sono delle categorie dell'espressione, valevoli per tutte le lingue "; più in concreto, è da pensare poi che il latino, come nel passo sui vocaboli comuni alle tre lingue dell'ydioma tripharium di I VIII 6, funga qui da minimo comun denominatore dei tre volgari ‛ romanzi ' (trilingui sono, come sempre, gli esempi poetici di costruzione eccellente), e in genere che l'adozione di specimini latini sottolinei la perfetta trasferibilità ai volgari dei precetti retorici elaborati per la gramatica; mentre è chiaro che D. sarebbe stato, di fatto, in imbarazzo dovendo offrire esempi di prosa nei tre volgari: e in particolare di prosa illustre italiana, data l'esiguità, da lui ben riconosciuta, di una tradizione valida in questo settore.
Le intenzioni concrete di D. emergono meglio a un esame dettagliato dei quattro esempi. I quali sono, intanto, esempi non solo di costruzione in senso stretto, ma del vario uso di procedimenti stilistici in senso lato, secondo un'accezione corrente più larga di c. (implicita anche alla fine dello stesso cap. II VI, quando Dante accusa Guittone di rozzezza plebea vocabulis atque constructione), e secondo la prassi comune nei trattatisti medievali: pertanto essi conglobano pure elementi di elaborazione retorica a livello non sintattico. La disposizione segue un ordine gerarchico ascendente per cui, come è stato osservato, " ogni grado superiore implica e risolve in sé le caratteristiche dell'inferiore ", arricchendole con nuovi e peculiari artifici. La gradazione si può riassumere con le parole del Di Capua: " Nel primo grado è l'espressione comune appena regolata dall'accordo grammaticale; nel secondo grado, sapidus, l'elemento ritmico e musicale compare nell'ordinare e regolare l'espressione; nel terzo grado, venustus, all'elemento fonico s'unisce quello cromatico, che dà colorito e vivezza al linguaggio; nel quarto, excelsus, all'elemento fonico e cromatico, si accoppia quello fantastico, congiunto a raffinatezze verbali e a simbolismo di concetti ". La distinzione, almeno tra la c. di grado insipido e quelle retoricamente elaborate, è inoltre di natura non solo formale, ma contenutistica, relativa alla sententia, se è vero che i tre esempi di gradi superiori si oppongono al primo non solo per una maggiore complessità dell'enunciato, ma perché quest'ultimo non è più scolastico e impersonale, bensì attinge a un'esperienza politico-psicologica personale fortemente sofferta (tema dell'esilio, satira politica, rovina di Firenze).
Passiamo a un'analisi particolareggiata. L'esempio di grado insipidus, buono per indotti e scolaretti (rudes), è infatti elementarmente scolastico: Petrus amat multum dominam Bertam (II VI 4): la frase è proprio del tipo semplice " x ama y " caratteristico delle illustrazioni didattiche dell'ordo naturalis (v. Thurot, p. 343; G. Fava Summa dictaminis, ed. Gaudenzi, in " Il Propugnatore ", n.s., III [1890] 338); i nomi dei personaggi sono quelli tipici della formulistica grammaticale e giuridica (li si confronti con Aristotile e Alessandro del modulo generale di costruzione); l'ordine delle parole è quello progressivo, ‛ naturale '; manca una clausola regolare di cursus.
L'esempio successivo, di costruzione semplicemente sapida (v. per l'uso traslato di questo termine Goffredo di Vinsauf Documentum de arte versificandi, ed. Faral, II 16), che esemplifica per D. i rigidi esercizi scolastici di studenti e maestri, esibisce un uso sistematico dell'ordo artificialis: Piget me cunctis pietate maiorem, quicunque in exilio tabescentes patriam tantum sompniando revisunt (II VI 5), che si può tradurre così: " Provo pena, io pietoso più di ogni altro, per quanti si consumano nell'esilio e non rivedono che in sogno la patria ", e dove pietas, forse volutamente ambiguo, potrà valere come in volgare sia " pietà che si prova " (cfr. Cv II X 5-6) sia " pietà che si suscita ". Non pare dubbia l'intenzionale sottolineatura di un'eccessiva ricercatezza sintattico-ritmica che produce effetti di dura ellitticità e di scarsa perspicuità concettuale, forse in riferimento concreto alla degenerazione scolastica dello stile romano: così già Boncompagno da Signa (presso P. Rajna, in " Studi di filol. ital. " III [1932] 81-82) si scagliava contro i nudi gramantes (deformazione satirica di gramatici) che " corrumpunt gramaticam ut cursum observent ", senza curarsi " de intellectu et pondere sententiarum ", e in un passo di una Summa anonima edito dal Thurot (op. cit., pp. 343-344), si condannava la " verborum... transpositio turpis et incongrua " effettuata " praetextu alicuius ornatus ". Sono tre membri di misura esattamente eguale (dodici sillabe), regolarmente clausolati con un velox (exìlio tabescèntes) incorniciato tra due plani (pietàte maiòrem, sompniàndo revìsunt); l'ordo artificialis promuove, sempre con effetto speculare, l'anticipo ad apertura di periodo del verbo della principale, piget, e la collocazione di quello della secondaria, revisunt, in fine, nonché l'inversione d'ordine tra cunctis pietate e maiorem e la separazione di quest'ultimo dal pronome me cui si riferisce; all'insistita ricerca di pregnanza si deve l'ellissi di un ‛ eorum ' o ‛ illorum ' implicito in quicunque e nello stesso cunctis, secondo modi a stento concessi, e in forme più attenuate, dai grammatici (v. Thurot, pp. 344, 357; Alessandro di Villedieu Doctrinale, ed. Reichling, vv. 1453 ss.).
L'esempio del terzo grado, sapidus et venustus, prodotto di una retorica solo superficiale, suona: Laudabilis discretio marchionis Estensis, et sua magnificentia praeparata, cunctis illum facit esse dilectum (II VI 5). Esso ripete la figura ritmica del modulo precedente, con uguale partizione in tre membri terminanti rispettivamente in planus (marchiònis Estènsis), velox (magnificèntia praeparàta), e ancora planus: (facit) èsse dilèctum; ma non c'è vera isocolìa e l'ordine artificiale è meno rigido, limitandosi al chiasmo (Laudabilis discretio - magnificentia praeparata) e alla collocazione delle parole nell'ultimo membro. Di nuovo e più elevato c'è l'uso dell'ironia antifrastica, indubitabile dato che il protagonista è l'odiato Azzo VIII d'Este, e della circuitio (il tipo " Scipionis prudentia Carthaginem delevit ": v. L. Arbusow, Colores rhetorici, Gottinga 19632, 29, 88-89), procedimenti entrambi dell'ornatus difficilis, mentre pare più dubbio che D. intendesse offrire anche un'applicazione della determinatio (colore attribuito all'ornatus facilis: v. Arbusow, op. cit., pp. 20-21).
A coronamento viene infine l'esempio di costrutto non solo sapido e aggraziato, ma anche excelsus: Eiecta maxima parte florum de sinu tuo, Florentia, nequicquam Trinacrian Totila secundus adivit (II VI 5). L'elemento nuovo e più alto è qui l'uso dei modi metaforico-simbolici continuati della transumptio, culmine, secondo la trattatistica, dell'ornato difficile: per cui Firenze è personificata tramite prosopopea (che in Cv III IX 2 è dichiarata caratteristica tipica del linguaggio poetico) in una donna dal cui seno vengono strappati i fiori che l'ornavano (cioè i cittadini più nobili), e il responsabile del sopruso (Carlo di Valois) è identificato antonomasticamente (pronominatio) con un novello Totila (distruttore di Firenze secondo la leggenda). Ora proprio la transumptio rappresenta il minimo comun denominatore più portante tra la prosa eccelsa e la canzone illustre, che difficilmente potrebbe condividere tutte le artificiosità ritmico-sintattiche della prosa dettatoria; e per la coscienza da parte di D. della transunzione come coefficiente principe dello stile poetico si veda, oltre alla più tarda Ep XIII 27, la coeva Ep III 4, dove si dice di aver parlato, nella poesia allegata, transumptive more poetico. Si aggiungano l'accurata scelta di vocaboli ‛ egregi ' (flores, sinus, Trinacria, ecc.) e gli ornamenti sintattico- ritmici: l'ablativo assoluto, ingrediente tipico della breviatio (v. Arbusow, op. cit., p. 28), l'uso, anche più complesso che negli esempi precedenti, del cursus (alle clausole di tardus e planus che chiudono i due cola: tùo Floréntia e secùndus adìvit, si subordinano un velox composto e un tardus interni: màxima parte-flòrum e nequìcquam Trinàcriam), l'allitterazione (Trinacriam Totila) e il gioco etimologico di stampo ‛ isidoriano ' florum/Florentia (di gusto, si noti, caratteristicamente guittoniano). Il tema riprende quello del secondo esempio (ed è stretta l'analogia con Cv I III 4 Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno...), ma con tono di più robusta obiettività, senza il soggettivismo patetico, l'elegiae umbraculum di quello; e condivide col terzo la materia storico-contemporanea, caratteristica di un impegno ‛ dottrinale ', ma ora scandita con amara serietà e impreziosita dalla dissolvenza erudita prodotta dalla transunzione.
Solo questo grado di costruzione è dichiarato proprio delle canzoni illustri, di cui segue un ampio elenco (è il canone poetico più articolato del trattato dantesco, poiché solo con questa ricca esemplificazione concreta, afferma D., si può indicare cosa sia la suprema costruzione: c'è certo la coscienza dell'impossibilità di legiferare astrattamente in simile materia, donde la necessità di lasciar libera la discretio di meditare sui vivi modelli degli auctores volgari; ma non sarebbe facile cogliere in quegli esempi poetici (dove pure sono presenti e la transumptio, e l'articolazione complessa dei periodi, e l'allitterazione, ecc.) un'illustrazione dell'ideale di costrutto eccelso altrettanto evidente che nell'esempio in prosa latina: è - ha osservato il Contini - " un'abbondanza che non fa centro ", per cui conviene forse interpretare il passo " come un'allusione in travaglio a qualcosa di non ancora attuato, ma che sta per realizzarsi nel magnum opus [la Commedia] ".
Bibl. - Marigo, De vulg. Eloq., CXXV-CXXVIII, 206-220; F. Di Capua, Scritti minori, Roma-Parigi 1959, II 326-339; E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, tr. ital. Milano 1960, 201-202; R. Dragonetti, Aux frontières du langage poétique (Études sur Dante, Mallarmé, Valéry), Gand 1961 (" Romanica Gandensia " IX) 66-70; C. Grayson, D. e la prosa volgare, in " Il Verri " VIII, n. 9 (agosto 1963) 9-10; A. Schiaffini, Interpretazione del " De vulg. Eloq. " di D., Roma 1963, 223-227; E. Paratore, Il latino di D., in " Cultura e scuola " 13-14 (1965) 111; G. Contini, Cavalcanti in D., in Le Rime di G. Cavalcanti, Verona 1966, 95; F. Forti, La " transumptio " nei dettatori bolognesi e in D., in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 134-137.