Consiglio del capitano del popolo
. L'istituzione dei C. del capitano è legata, com'è noto, al movimento di reazione al governo tirannico dei ghibellini condotto dagli ‛ uomini di mezzo ' e sfociato, nell'ottobre 1250, nella creazione dei Trentasei capitani del popolo, sei per ogni sesto, i quali posero le basi della terza costituzione di Firenze che si chiamò ‛ del Primo popolo ' perché intesa principalmente a costituire il popolo e renderlo forte contro i nobili di ogni partito (cfr. Villari). Di fronte al podestà, rimasto, per molti aspetti, capo della nobiltà cittadina, si creò il capitano del popolo, considerato come il naturale rappresentante delle forze popolari: e come il podestà, ebbe il capitano due C., il generale e il ristretto, o di credenza, come si diceva di preferenza, di 150 persone il primo e di 36 il secondo.
I C. del capitano per tanti aspetti sono il riflesso di una situazione politica, di un governo, in cui il popolo (a questo termine naturalmente va attribuito il significato del tempo, non quello moderno, e cioè i suoi componenti vanno intesi nel senso di membri delle arti, delle maggiori specialmente) ha una parte non trascurabile, starei anzi per dire di rilievo prima e preponderante dopo: e che si sia nel vero lo dimostra perfettamente quanto avvenne dopo.
La vittoria di Montaperti porta a un nuovo predominio ghibellino nel quale il capitano e i suoi C. non trovano posto e vengono soppressi, mentre il capovolgimento politico del 1266-1267 porta a un nuovo trionfo guelfo e al ripristino del capitano che, però, in conseguenza di una nuova situazione politica, assume il nome di " capitano della Massa di Parte guelfa ", dizione che passa di pari passo anche nei C. omonimi (" C. della Massa di Parte guelfa "). La Parte vincitrice informa di sé tutto lo stato e quindi è da supporre che i C. della massa siano stati per lo più appannaggio dei gruppi nobiliari guelfi, preponderanti in tutta la vita del comune: è certo, comunque, che le forze popolari non vi ebbero, come attestano i cronisti, quel ruolo già svolto nel governo del Primo popolo (1250-1260).
Un nuovo cambiamento, ma effimero, ebbe luogo nel 1280 con la pace del cardinal Latino, quando il capitano, a simbolo del nuovo stato di cose (coabitazione forzata fra guelfi e ghibellini e quindi governo innaturale e non rispondente alla realtà sociale di Firenze) assume il nome di capitano conservatore della pace e governatore del popolo. Ma la politica, dice giustamente l'Ottokar, mal sopporta i miscugli che sanno di pasticcio e son contro natura: la società organizzata nelle arti, in quelle maggiori specialmente, oltre che avere in mano tutta l'economia rappresentava l'unica e vera forza reale e organizzata della città e quindi era matura per prendere interamente in mano il potere, senza dividerlo con altri; si arriva così, traguardo del tutto logico e naturale, alla costituzione del Priorato delle arti (1282), vale a dire al governo che conclude il travaglio costituzionale fiorentino del secolo XIII e che, poggiando sulle arti, sarà congeniale allo spirito cittadino, tanto da restare in vita fino alla caduta della repubblica. E il capitano riflette con immediatezza il nuovo stato di cose assumendo la denominazione di difensore delle arti e degli artefici, dizione che passa anche ai suoi C., che però sono meglio conosciuti coi termini di C. del capitano o C. del popolo.
I frequenti cambiamenti della denominazione erano un indice di una situazione politica instabile e in evoluzione, ma bisogna anche aggiungere che, almeno formalmente, sia pure senza poter entrare in merito alla composizione sociale dei medesimi fino al 1282, i C. rimasero quelli in essere nel governo del Primo popolo, vale a dire un C. ristretto, o speciale o di credenza, come si amava dire spesso, di 36 membri, e uno generale di 150.
La procedura messa in atto nella nomina dei consiglieri mette a nudo un sistema attraverso il quale un gruppo ristretto di famiglie, se non addirittura di persone, esercita un vero e proprio monopolio della vita dello stato scambiandosi i posti e avvicendandosi scambievolmente nella posizione di eletti e elettori: è un circolo chiuso, starei per dire vizioso, nel quale gira e rigira si fa sempre capo a quell'ambiente ristretto del Popolo grasso, il quale, oltre al potere politico, aveva nelle mani anche tutta l'economia della città. L'esame, sia pure superficiale, dell'elezione dei consiglieri dimostra chiaramente la fondatezza di queste affermazioni.
Nei mesi di aprile e di ottobre di ogni anno, sempre verso la fine, i priori in ufficio, con l'aggiunta di 18 cittadini scelti da loro stessi in ragione di tre per ogni sesto, procedevano alla nomina dei consiglieri: la scelta era diretta, ad personam, ed è ragionevole supporre che alla base di essa fossero concordanza di vedute e d'interessi, amicizie e parentele. Ogni sesto (la città era divisa in sei parti e ognuna di esse prendeva il nome di sesto o sestiere) aveva la sua rappresentanza: sei per il C. speciale o di credenza (totale dei consiglieri 36) e venticinque per il generale, formato di 150 consiglieri.
Tale il sistema vigente al tempo di D.: solo nel 1329, in seguito a una riforma di carattere generale, i due C. furono riuniti in uno di 300 cittadini, mentre la nomina diretta fu sostituita con l'estrazione a sorte (" tratta "), previa l'operazione dello " squittinio " e la formazione delle borse da cui la tratta medesima era fatta. La riforma del 1329 volle porre fine a un sistema evidentemente troppo parziale e introdurre il principio della ‛ sorte ', ma bisogna pur dire che le cose migliorarono solo in teoria perché in pratica la formazione delle borse, su cui s'imperniava il godimento o meno dei diritti politici, rimase sempre in mano al gruppo ristretto di governo, mentre la massa dei cittadini fu ancora esclusa dalla partecipazione effettiva del potere.
Per essere eletti ai C. i cittadini dovevano essere, oltre che " amanti del pacifico e tranquillo Stato di Firenze ", " popolani di città " e avere l'età minima di anni 25. Ai magnati era rigorosamente vietata la partecipazione ai C. del capitano, mentre le capitudini delle arti vi avevano un posto ragguardevole, e massiccia e determinante ai fini dell'esito delle votazioni era la loro rappresentanza.
La durata dei C. era di sei mesi e ciò perché essi coincidevano con l'ufficio dei capitani, essi pure eletti nell'aprile e nell'ottobre di ogni anno: le due assemblee non ebbero un luogo fisso di residenza e si riunivano nei luoghi più disparati; nella chiesa di Santa Reparata, nel Battistero, in case private e più spesso nella chiesa di S. Pier Scheraggio, divenuta poi il luogo in cui si riunivano di preferenza. La convocazione era di spettanza del capitano e veniva fatta o al suono della campana o per mezzo di un nunzio speciale (" voce praeconia campanaeque sonitu "): le sedute erano presiedute dal capitano medesimo o da un suo rappresentante, mentre pene pecuniarie di varia entità erano inflitte ai suoi consiglieri assenti per motivi ingiustificati.
Le adunanze erano valide solo nel caso che fossero presenti non meno di due terzi dei consiglieri: partecipavano alle riunioni le Capitudini delle arti e la massa compatta dei loro voti aveva spesso una funzione determinante nell'andamento delle votazioni; queste erano palesi (per alzata e seduta: " ad sedendum et levandum ") o segrete (" ad pissides et palloctas ", o a fave bianche e nere) e le proposte potevano passare talvolta con la semplice maggioranza, o con la metà dei presenti più uno o più spesso coi voti dei due terzi. Norme precise regolavano l'andamento della discussione e pene particolarmente gravose erano inflitte a quei consiglieri che avessero parlato fuori dell'argomento oggetto della discussione medesima.
Nei C., globalmente considerati, risiedeva, almeno in teoria, la somma del potere, e vaste e complesse erano le competenze che loro spettavano, passando da un provvedimento di ordinaria amministrazione ad affari di alta politica: ma mancando loro il diritto d'iniziativa, nella pratica quei poteri erano fortemente temperati, per cui il governo effettivo restava sempre nelle mani del Popolo grasso, che spadroneggiava nella vita politica, nella finanza e nell'economia.
Bibl. - D. Compagni, Cronica, a c. di I. Del Lungo, Firenze 1899, 33; Le Consulte della Repubblica fiorentina dall'anno MCCLXXX al MCCXCVIII, a c. di A. Gherardi, I, ibid. 1896, VII, VIII-X; XII-XV, XVII; II, ibid. 1898, 3, 7, 10-11 e passim; G. Salvemini, Le Consulte della Repubblica fiorentina del secolo XIII, in " Arch. Stor. Ital. " s. 5, XXIII (1899) 70, 80, 82-83; Statuti della Repubblica fiorentina. Statuto del Capitano del Popolo, a c. di R. Caggese, Firenze 1910, I, rubr, V; P. Villari, I primi due secoli di storia di Firenze, 3a ediz. s.d., 184 ss., 219; G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Torino 19602, 89-90, 129, 130; Davidsohn, Storia IV I 111-116, 125-127.