CONSACRAZIONE
Comune, perché fondamentale, a tutte le religioni, cominciando dalle più basse, è la credenza di una doppia sfera in cui l'essere si divide: la sfera del sacro e quella del profano. Con questa distinzione s'interseca l'altra: del puro e dell'impuro (cfr. Levitico, X, 10; Ezechiele, XXII, 26). L'impuro, da una parte, conviene col sacro nella qualità di tabù, per cui il profano deve tenersi a rispettosa distanza tanto dall'uno quanto dall'altro; ma, d'altra parte, positivamente si oppone al sacro, per ragione della forza o dello spirito demoniaco da cui è investito, contraria alla forza o spirito divino che investe il sacro. Quindi dalla sfera del profano puro si può passare direttamente tanto a quella del sacro quanto a quella dell'impuro; ma dalla sfera dell'impuro non è lecito passare direttamente che a quella del puro, e, solo attraverso il puro, a quella del sacro, il quale non potrebbe venire a contatto immediato con l'impuro senza sottoporsi a gravi rischi e inconvenienti.
La consacrazione è precisamente il passaggio stabile, o per un tempo determinato, di una persona o di una cosa, dalla sfera del profano a quella del sacro. Tre sono i momenti della consacrazione: la purificazione, necessaria nel caso che il profano sia anche impuro, e quindi, per precauzione contro ogni eventuale impurità, sempre richiesta; il distacco dal mondo profano, per lo più per mezzo della separazione locale, e talvolta, più radicalmente, per mezzo della distruzione, che è senz'altro consacrazione ma puramente negativa, detta dai Latini devotio (v. devozione), dai Greci anathema e dagli Ebrei ḥerem; l'ammissione nel mondo sacro, con l'appropriazione della forza o spirito divino, per cui il consacrato diviene esso stesso sacro. Nelle religioni superiori, senza che questo significato fisico-mistico venga in alcun modo diminuito, la consacrazione acquista anche un altro senso più elevato e spirituale, di destinazione al servizio di Dio, per es. in qualità di sacerdote, cioè intermediario tra la comunità religiosa e Dio, ovvero di profeta o apostolo, cioè interprete dei voleri di Dio verso l'umanità.
La via diretta per passare dall'ordine profano a quello sacro è la comunicazione che di sé stesso fa il divino, sia pure per un casuale contatto, quando non ne segua, come nel caso di Oza (II Re [Samuele], VI, 7; Esodo, XIX, 24), la morte. Così un luogo è sacro per ciò stesso che viene toccato da un betilo (pietra caduta dal cielo) o dal fulmine; ovvero in qualsiasi altro modo apparisca investito dalla presenza di un nume. Ma quando il divino non si comunica spontaneamente al profano, questo per divenir sacro deve artificialmente esser messo in comunione col divino, per mezzo di un rito di consacrazione. Lo scopo negativo si ottiene, quanto alla purificazione, con i soliti mezzi dell'abluzione, del digiuno, ecc.; e, quanto alla separazione dal mondo profano, con il ritiro nel deserto, una dimora in un luogo sacro quale il tempio, con l'astinenza da certi usi della vita comune, come le bevande inebrianti, la partecipazione ai funerali, le pratiche sessuali, ecc. Per ciò che riguarda lo scopo positivo, la comunicazione della forza soprannaturale divina, essa si opera per mezzo della parola o dell'azione, o di entrambe congiunte insieme. Alle parole cioè si attribuisce o una virtù magica di vario genere (presso i primitivi), o una potenza di attuare il loro significato; con l'azione si può in molte maniere mettere a contatto la cosa o persona da consacrare con una persona o una cosa sacra, affinché la virtù divina residente in questa si riversi su quella. Tali azioni sono: l'introduzione nella parte più intima del santuario e la collocazione sopra l'altare o vicino ad esso, la tradizione degli strumenti del proprio ufficio e il rivestimento dei sacri paramenti (per i misteri di Iside, cfr. Apul., Metam., XI, 25), il tocco della statua del nume o di alcuno dei suoi membri specie dei genitali (come probabilmente nei misteri eleusini e in quelli di Cibele), il partecipare alla mensa degli dei col gustare speciali cibi e bevande a bella posta preparati (ugualmente in uso nei suddetti misteri) o col prender parte ai banchetti sacrificali (cfr. I Corinzî, X, 18-21), l'aspersione dell'acqua sacra o del sangue della vittima, il bagno dell'intera persona nel sangue di un animale sacro (come nel taurobolio o criobolio dei misteri di Attis), l'unzione d'olio e di altri unguenti preziosi, l'assistenza alla rappresentazione delle gesta degli dei e soprattutto la visione improvvisa della luce sgorgante dal luogo sacro (come nei misteri eleusini e in altri), ecc.
Nel cristianesimo le consacrazioni vengono fatte in generale con la parola e con l'azione. La parola agisce per sé medesima ex opere operato, quantunque il più delle volte abbia aspetto di preghiera, che comincia col ringraziare Dio, onde prende forma di praefatio, anche al difuori dell'eucarestia. Le azioni sono varie secondo le circostanze: l'unzione, l'aspersione dell'acqua benedetta, l'incensazione, il rivestimento dei sacri indumenti, la tradizione degli strumenti, ecc., ma soprattutto, se si tratta di consacrazione delle persone, l'imposizione delle mani del consacrante sul consacrato. Questo è un rito che proviene dall'Antico Testamento, dove s'incontra come mezzo di trasmettere ad altri la propria virtù e il proprio ufficio (cfr. Genesi, XLVIII, 14 segg.; Numeri, XXVII, 18 e 23; Deuteronomio, XXXIV, 9; Marco, V, 25; VI, 5; VII, 32; VIII, 23-25 X, 13 segg.; Luca, IV, 40; XIII, 3,1, ecc.; Atti, VI, 6; VIII, 14 segg.; IX, 12-17; XIII, 3; XIX, 2-6; XXVIII, 8; I Timoteo, IV, 14; II Timoteo,1,6).
Bibl.: P. D. Chantepie de la Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte, 4ª ed., a cura di A. Bertholet e E. Lehmann, Tubinga 1925; N. Söderblom, Das Werden des Gottesglaubens, 2ª ed., Lipsia 1926.
Liturgia cristiana. - Il termine consacrazione, senz'alcuna specificazione, indica ordinariamente l'atto del sacerdote nella Messa, per cui la sostanza del pane e del vino è cambiata nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo; il termine teologico di questo cambiamento è transustanziazione, mentre il termine consacrazione si riferisce alle specie visibili, o accidenti, del pane e del vino, che rimangono anche dopo il cambiamento della sostanza (specie consacrate), e contengono la reale persona di Cristo.
Il Pontificale romano enumera cinque consacrazioni propriamente dette, distinte cioè dalla benedizione: quella del vescovo, dell'altare fisso, della pietra sacra per l'altare, del calice e della patena, e quella della chiesa. Quest'ultima, che avviene con una solenne cerimonia, è detta ordinariamente dedicazione.
Islām. - Nella religione musulmana lo stato di consacrazione (iḥrām) è prescritto per il credente che compie il pellegrinaggio (v.) e la preghiera canonica. Nel primo caso, l'iḥrām, teoricamente raccomandato sin dall'inizio del viaggio, comincia in pratica allorché il pellegrino giunge al confine del sacro territorio della Mecca (ḥaram); esso consiste nell'astensione da ogni pratica sessuale, e dal radersi o tagliarsi i capelli e le unghie, e nell'indossare al posto delle vesti ordinarie due panni nuovi, o almeno puliti, senza cuciture, l'uno sulle spalle, l'altro intorno ai lombi; questo stato di consacrazione deve esser mantenuto sino alla fine del pellegrinaggio.
La consacrazione durante la preghiera consiste in uno stato di purità rituale introdotta da particolari abluzioni. La conservazione di questo stato di purità è condizione necessaria per la validità della preghiera stessa.
In ogni caso l'iḥrām è e deve essere direttamente e liberamente assunto da ogni credente che eseguisca gli atti richiesti, accompagnandoli dall'intenzione (niyyah) di adempiere ai doveri del pellegrinaggio e della preghiera. L'Islām ortodosso, mancando totalmente di gerarchia ecclesiastica, ignora la figura del depositario e trasmettitore della consacrazione.
La consecratio romana. - È l'atto solenne col quale il proprietario di una cosa, quasi sempre immobile (bosco, tempio, ecc.), la destina a) culto degli dei facendone una res divini iuris (res sacra). A rigore l'atto può essere indifferentemente compiuto così dallo stato, o dalle minori unità politiche, come dai privati, ma l'effetto di conferire alla cosa la qualità di sacra si verifica solamente se l'atto è compiuto da magistrati o da altri ex auctoritate populi Romani, mentre la consacrazione eseguita da privati non toglie che la cosa sia profana (cfr. Gaio, II, 5; Marciano, in Dig, I, 8, de div. rer., 6, 3; Festo, pp. 318-321).
La consacrazione è normalmente preceduta da una solenne promessa agli dei (votum) fatta in occasione di pericolo o di giubilo pubblico. Dal voto nasce un'obbligazione, ma, come nel diritto privato, anche qui il dovere di dedicare la cosa promessa non può commutarsi nell'attuale sacertà della cosa senza la volontaria consacrazione (Ulpiano, in Dig., L, 12, de pollicit., 2 pr.). A essa procede il magistrato fornito d'imperium, o la persona particolarmente designata da una legge comiziale: a quest'ultima misura si ricorreva soprattutto quando si voleva che il voto fosse adempiuto dallo stesso cittadino che lo aveva fatto, benché uscito di carica, o dal figlio di lui. Nell'epoca imperiale la competenza è del principe o della persona da lui designata; una delegazione permanente ha luogo a favore dei curatores aedium sacrarum et operum locorumque publicorum.
La cerimonia, più volte descritta dagli antichi (per es., Tacito, Hist., VI, 53; Cic., De domo, e le innumerevoli epigrafi: cfr. specialmente Corp. Inscr. Lat., IX, 3513; Bruns, Fontes, 8ª ed., n. 105), poteva avvenire, trattandosi di dedicare un edificio, in qualunque stadio della costruzione: bastava che il tempio da erigersi fosse rappresentato da una prima pietra, o meglio ancora da uno stipite (postis). Prima della cerimonia si soleva circondare di funi tutto lo spazio da dedicare (il che esprimeva, secondo Beseler, il vincolo nascente dal votum); a cerimonia finita, tutti gli astanti si adoperavano a tagliarle. A parte altre formalità accessorie, e non costanti, alla fase essenziale partecipava insieme con il magistrato un membro del collegio pontificale: questi, tenendosi allo stipite come per impedire l'ingresso del tempio, suggeriva ad una ad una le parole di una formula che il magistrato ripeteva.
Questa collaborazione fra le due autorità, e più ancora il fatto che l'attività del magistrato è più frequentemente indicata col nome di dedicatio, parlandosi a preferenza di consecratio nei riguardi dei pontefici, ha originato l'opinione diffusa secondo la quale dedicatio e consecratio sarebbero le due dichiarazioni di un negozio giuridico bilaterale, ove il magistrato rappresenterebbe il popolo alienante e il pontefice la divinità acquirente (Marquardt, Meurer). La tesi, che a primo aspetto sembra confortata dal raffronto con quei negozî bilaterali di diritto privato che si compiono appunto utroque loquente (stipulazione, prediatura, ecc.), non resiste all'esame del vario contenuto delle dichiarazioni; mentre in quei negozî privati la collaborazione si svolge in forma di domanda del creditore e risposta del debitore, qui il pontefice si limita a suggerire; e già alla fine della repubblica tale funzione veniva intesa come assistenza tecnica del magistrato, tenuto a pronunziare la sola dichiarazione giuridicamente essenziale (cfr. Varrone, De lingua lat., II, 54: aedis sacra a magistratu pontifice praeeunte dicmdo dedicatur). Neanche l'uso delle parole dedicatio e consecratio può invocarsi in contrario: a parte che nel materiale epigrafico i due termini sono sinonimi, va osservato che in essi si rispecchiano soltanto i varî punti di vista dai quali l'atto può essere considerato: il negativo, che la cosa sia posta fuori commercio; il positivo, che si trasformi in res sacra (Pernice, Scialoia).
Quanto abbiamo detto non è senza importanza per la risoluzione dell'ulteriore questione circa la condizione giuridica delle cose sacre. Che esse siano fuori di commercio, cioè non suscettibili di alienazione e usucapione, è pacifico; in commercio possono rientrare soltanto attraverso la exconsecratio (o exauguratio), cerimonia solenne anch'essa e senza dubbio analoga alla consacrazione, secondo il parallelismo vigente nel diritto antico fra gli atti che creano e quelli che estinguono un rapporto giuridico. Ciò non toglie che fortemente si disputi fra gli studiosi circa l'appartenenza delle cose sacre.
In proposito è da premettere che gli antichi non potevano porsi il problema negli stessi termini in cui ce lo poniamo noi. I Romani non conoscono altra proprietà (dominium ex iure Quiritium) che l'individuale, difesa davanti al pretore urbano mediante la rei vindicatio: dove la cosa non è assegnata a un individuo, le forme della tutela giuridica prescindono da un preciso giudizio di appartenenza: e tale è il caso nostro, dove la conservazione delle cose alla loro destinazione sacra è garantita dall'interdetto popolare ne quid in loco sacro fiat.
È naturale che la concezione antropomorfica della divinità portasse a considerare le cose sacre come appartenenti a essa; e questo modo d'intendere si rispecchia nel linguaggio delle dedicationes, che presentano gli dei dedicatarî come padroni. Tuttavia nelle fonti giuridiche (o ispirate alla giurisprudenza) più testi si contrappongono alla concezione popolare. Gaio (II, 9) esclude qualunque diritto di proprietà, osservando che quod... divini iuris est, id nullius in bonis est: ma con ciò non esclude, in sostanza, l'appartenenza a un ente pubblico, tant'è che nel § 11 egli dice res nullius anche le cose pubbliche, con l'aggiunta (contraddittoria per il pensiero moderno): ipsius enim universitatis esse creduntur.
Piuttosto è da rilevare che l'agrimensore Frontino (De controv. agr., II, p. 56 Lachm.), discorrendo dei boschi sacri siti in Italia e della frequenza delle occupazioni abusive, dice esplicitamente che quel suolo indubitate populi Romani est; e accenni analoghi si trovano anche in alcuni passi di giuristi (p. es. in Paolo, Sent., 5, 26, 3).
Sembra pertanto ben fondata l'opinione del Mommsen che ritiene le cose sacre appartenenti allo stato. I sostenitori della tesi opposta, che elevano a dottrina giuridica la concezione popolare ricordata, cercano di togliere valore al passo di Frontino, ritenendo che il suo discorso non si riferisce ai boschi sacri, bensì ad altri boschi destinati al mantenimento del culto (Scialoia, Bonfante); ma la distinzione è arbitraria. Un argomento positivo a favore della proprietà degli dei si vorrebbe trovare in Macrobio, Saturn., II, 3, e nella definizione ivi citata del giurista Trebazio: sacrum est... quidquid est, quod deorum habetur. Ma si guardi bene: non è sacro quidquid deorum est, ma quidquid deorum habetur, vale a dire, tutto ciò che il volgo considera proprio degli dei. All'affermazione scientifica della proprietà divina si ribella il sano realismo della giurisprudenza romana, che non saprebbe impersonare un diritto soggettivo in creature più o meno fittizie, e collocate comunque fuori dell'ambiente in cui si creano e si modificano i rapporti giuridici.
Un'altra applicazione della consacrazione si ha sotto il principato, quando si riprende le consuetudine, iniziata con Cesare, di collocare tra le divinità gl'imperatori o i membri della loro famiglia. La consecratio imperatoris è quindi da considerare come l'atto col quale si fonda il culto di quel determinato principe. Talora la consacrazione si compie subito dopo la morte dell'imperatore al momento stesso della sepoltura; ma più spesso avviene dopo i funerali e allora prende data, normalmente, dal senatoconsulto che la dispone.
Possono essere consacrate alla divinità anche persone o cose, senza che si abbia propriamente una dedicatio: tal è il caso della consecratio capitis et bonorum. Tale consacrazione di un individuo e dei suoi beni alla divinità non è altro che una sanzione penale inflitta in conformità alle norme del diritto arcaico, nel quale religione e diritto non erano ancora ben differenziati. Secondo le regole, che vengono attribuite a tale antichissimo diritto, il marito che vende la moglie è consacrato agli dei inferi, il figlio che percuote il padre alla divinità della casa, il patrono o il cliente che violano i reciproci doveri a Giove, il vicino che sposti le pietre di confine al dio Termine. Colui che cade sotto questa sanzione non gode più nessuna tutela né divina né umana, e chi uccide un homo sacer non commette omicidio. Ma perché l'individuo potesse essere ridotto in tale condizione, se non era necessario un regolare procedimento, era però mestieri far constatare il fatto da testimonî, e quindi far pronunciare dal pontifex, il solo competente, la formula della consacrazione.
In epoca storica tale sanzione s'incontra per le violazioni delle leges sacratae che tutelano i magistrati plebei e in genere la plebe contro i patrizî. Ma in questo caso la violazione provoca un giudizio che è pronunciato dall'assemblea plebea, dopo di che, se l'individuo è dichiarato sacer, i tribuni procedono all'esecuzione facendolo precipitare dalla rupe Tarpea, a meno che vogliano limitarsi alla consacrazione del patrimonio. Se però tale è il procedimento normale, non va dimenticato che i tribuni non vollero mai abbandonare il principio teorico che l'offensore della tribunicia potestas è sacer ipso iure; e infatti in qualche caso la pena della rupe sarebbe stata inflitta prescindendo dal giudizio popolare. La differenza fra questa pratica e quella antichissima precedentemente ricordata è che nel caso delle leges sacratae non si richiede l'intervento del pontefice.
Concetti simili a quelli della consecratio ispirano l'istituto religioso della devotio, cioè l'atto col quale, per allontanare dalla propria città un pericolo, si pongono a disposizione degli dei inferi uno o più uomini, ovvero l'esercito nemico, oppure la città e la terra nemica.
Ad analoghe concezioni s'inspirava pure la primavera sacra, ver sacrum (v. primavera sacra). Tale rito, nel quale intervengono i pontefici, durò sino alla seconda guerra punica; la consecratio capitis et bonorum resistette più a lungo e cioè finché furono in vigore le leggi tribunizie.
Bibl.: J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, 2ª ediz., Lipsia 1885, p. 268 segg.; C. Meurer, Der Begriff und Eigenthümer der heiligen Sachen, Düsseldorf 1885; T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, 3ª ediz., Lipsia 1887, p. 734 segg.; A. Pernice, Zum römischen Sacralrechte, I, in sitzungsberichte der kgl. preuss. Akad. der Wiss., 1885, p. 1143 segg.; V. Scialoia, Teoria della proprietà nel dir. rom., I, Roma 1928, p. 141 segg.; P. Bonfante, Corso di dir. rom., II: La proprietà, sez. 1ª, Roma 1926, p. 15 segg.; G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, IV, Tubinga 1920, p. 38 segg.; Wissowa, s. v. Consecratio, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., IV, col. 896 segg.; R. Brassloff, Studien zur röm. Rechtsgeschichte, I, Vienna 1925. PIù specialmente sulla consecratio capitis et bonorum: W. Rein, Das Criminalrecht der Römer, Lipsia 1844, p. 30 segg.; E. Platner, Quaestiones historicae de criminum iure antiquo Romanorum, Marburgo 1836, p. 28 segg.; H. A. A. Danz, Der sacrale Schutz im römischen Rechtsverkehr, Jena 1857; R. von Jhering, Der Geist des römischen Rechts, I, 7ª-8ª ed., Lipsia 1924; L. Lange, De consecratione capitis et bonorum, Giessen 1867; T. Mommsen, Römisches Strafrecht, Lipsia 1899, pp. 49, n. 4, 259, n. 1; 901, n. 2; 902.