congedo
. D. non dice nulla del c. della canzone nel De vulg. Eloq., ma l'interruzione dell'opera spiega probabilmente il silenzio. In Cv II XI 2-3, a commento del congedo di Voi che 'ntendendo, afferma: E acciò che questa parte più pienamente sia intesa, dico che generalmente si chiama in ciascuna canzone ‛ tornata ', però che li dicitori che prima usaro di farla, fenno quella perché, cantata la canzone, con certa parte del canto ad essa si ritornasse. Ma io rade volte a quella intenzione la feci, e, acciò che altri se n'accorgesse, rade volte la puosi con l'ordine de la canzone, quanto è a lo numero che a la nota è necessario; ma fecila quando alcuna cosa in adornamento de la canzone era mestiero a dire, fuori de la sua sentenza, sì come in questa e ne l'altre veder si potrà.
Le osservazioni vanno interpretate innanzi tutto come conferma dell'idea che la canzone è essenzialmente composizione di parole armonizzate con arte: chi infatti compone le parole, chiama la sua opera poetica canzone, chi compone la musica, definisce la modulazione sonus, vel tonus, vel nota, vel melos (VE II VIII 5). Per cui D. afferma di avere per lo più scritto il c. (da lui chiamato, secondo i provenzali, tornata) non per un fine musicale, ma spinto dalla necessità di aggiungere qualcosa fuori della sentenza della canzone; ed è per questo che rade volte la pose con l'ordine della canzone.
In realtà, come vedremo, più di una metà dei c. di D. ripete, in tutto o in parte, l'ordine della canzone: il fatto è che qui D. vuol mettere l'accento sulla novità, almeno relativa, rispetto agli antecedenti, del c. divergente dall'ordine de la canzone, quanto è a lo numero che a la nota è necessario, e sulla sua opportunità non meramente melodica: fecila quando alcuna cosa in adornamento de la canzone era mestiero a dire.
I siciliani si sono serviti del c. di rado (comunque, un esempio se ne ha già in Iacopo da Lentini, in Maravigliosamente), sempre nella forma di una stanza (per giustificare l'unico caso di c. uguale alla sirma in Pir meu cori alligrari, il Debenedetti pensa a una derivazione da Guittone). Guittone e i guittoniani adottarono vastamente il c. con struttura corrispondente alla sirma; e fra i fiorentini, numerosi esempi di un tal c. offrono Chiaro Davanzati (cinque) e Monte Andrea; non è, anche ai nostri fini, trascurabile che il c. coincidente con l'ultima stanza (sentito evidentemente da Guittone come da superarsi attraverso il congedo-sirma derivato direttamente dai provenzali) sia continuato in Toscana proprio da alcuni fiorentini che anche in questo particolare appaiono fra i più sicilianizzanti poeti di tutta la regione: Carnino Ghiberti in Disïoso cantare, e in Poi ch'è sì vergognoso; Bondie Dietaiuti in Amor, quando mi membra, in Madonna, me è avenuto sinvigliante, e in Greve cosa m'avene oltre misura, e Chiaro Davanzati in una decina di casi (vedili citati nel Biadene).
D. quindi si serve del c. di una stanza rifacendosi direttamente ai siciliani e ai toscani (e del resto anche Cavalcanti in Io non pensava ha il c. di una stanza) in Donne ch'avete, e in Amor che ne la mente; più di frequente usa il c. metricamente coincidente con la sirma (E' m'incresce di me, Io sento sì d'amor, Io son venuto, Così nel mio parlar, Tre donne intorno al cor [i c.], Doglia mi reca, Amor da che convien): era, come si è detto, il c. tipico di Guittone, usato anche da Chiaro e da Monte (oltreché da Inghilfredi, Panuccio del Bagno, e altri). Le canzoni Poscia ch'amor, Donna pietosa, Quantunque volte, Amor che movi, sono senza congedo. In La dispietata mente, Lo doloroso amor, Li occhi dolenti, Voi che 'ntendendo, Le dolci rime, Tre donne intorno al cor, D. usa un c. divergente in misura maggiore o minore, dall'ordine de la canzone.
Nella sestina anche il c. imita da vicino la tornata della sestina di Arnaut Daniel: tre versi con tre delle parole-rima in chiusura dei versi, e tre all'interno, in modo che ogni verso contenga due parole-rima. In Amor tu vedi ben, di 12 endecasillabi con cinque parole-rima, il c. è uguale a metà della stanza, " e quanto alle rime, la prima parola-rima, è quella del primo verso della prima stanza, la seconda quella del primo verso della seconda e così di seguito. La terza parola-rima è ripetuta perché il commiato sia uguale a metà della stanza " (Biadene).
Il c. ‛ siciliano ' (stanza), il c. ‛ toscano ' (sirma) e quello divergente dall'ordine delle canzoni non pare procedano secondo uno svolgimento cronologico: delle due canzoni della Vita Nuova fornite di c., una ha il c. di una stanza, l'altra divergente dall'ordine della canzone; la canzone più tarda scritta da D., Amor da che convien, ha il congedo-sirma; Lo doloroso amor, scritta prima della morte di Beatrice, lo ha divergente dall'ordine della canzone.
Naturalmente la divergenza del c. dall'ordine della canzone può essere di diversa misura. In La dispietata mente il c. si riattacca alla sirma, essendo in realtà uguale agli ultimi tre versi di questa. Ma è abbastanza significativo che D. indichi il c. di Voi che 'ntendendo come esempio di distacco dall'ordine della canzone, un c. in cui i piedi sono uguali a quelli della stanza della canzone e la sirma corrisponde agli ultimi tre versi della sirma della canzone stessa (stanza della canzone ABC, BAC, CDEEDFF, congedo ABC, BAC, CDD): in altri termini, la differenza della sirma costituisce per D. rottura decisiva dell'ordine della canzone. E a maggior ragione è da considerarsi divergente il c. di Lo doloroso amor (XAyABBCC), che tuttavia ha due rime irrelate come la sirma della stanza della canzone e si chiude con tre versi sullo stesso schema.
Senza nessun rapporto con lo schema della canzone sono i c. di Li occhi dolenti (XBbCCB, con la prima rima irrelata), di Le dolci rime (AaBCcB), di Tre donne (secondo congedo: AXaBBCC, con la seconda rima irrelata). In Io sento sì d'Amor si hanno due c., il primo con lo schema della stanza con l'invito a non stare con rei, il secondo con lo schema della sirma, con l'invito ad andare a' tre men rei; e così anche in Tre donne, con il primo c. coincidente con lo schema della sirma e il secondo divergente dall'ordine della canzone (vedilo citato sopra).
L'uso di due e di tre (in un caso fin di cinque) c. deve essere stato in Italia un'innovazione di Guittone, e fra i fiorentini Monte Andrea fornisce due terzi delle sue canzoni di due e anche di tre c., dando, anche in questo particolare, la misura del suo guittonismo. Se si tiene anche conto che il secondo c. di Tre donne, assente in alcuni manoscritti, pare aggiunto più tardi (col suo riferirsi a un momento in cui il poeta spera nel ritorno a Firenze, in contrasto col cenno, che precede, all'esilio come cosa recente), si trae che D. non gradisse il c. multiplo, come appunto evidente guittonismo (il Contini [Rime] dubita che il primo c. di Io sento si d'amor possa essere definito come tale).
I pochi c. dei siciliani sono sempre invii a Madonna (unica eccezione il c. di Pir meu cori di Stefano Protonotaro, che dunque anche per questo deriverà da Guittone); nei toscani i c. sono frequentemente invii, ma anche (specie in Monte) c. puri e semplici, conclusioni o appendici.
La più gran parte dei c. danteschi sono invii alla donna, alle donne e donzelle (le due canzoni della Vita Nuova fornite di c., ed E' m'incresce di me, con quelle della Vita Nuova fortemente connessa, Così nel mio parlar, Amor che ne la mente, Doglia mi reca), a lettori più o meno ideali (Io sento sì d'Amor, Voi che 'ntendendo, Tre donne, Amor da che convien). Un paio di c. sono nient'altro che rapide conclusioni: in Al poco giorno e in La dispietata mente (invito alla canzone ad andare speditamente).
In Lo doloroso amor, s'invia non la Canzone, ma la Morte; ed è forse di rilievo il fatto che, come in questa rima dolorosa, anche in Io son venuto, il c. tenda appunto a variare dai suoi consueti fini. Nel c. di Io son venuto, D. si rivolge e colloquia con la canzone, giungendo a un massimo di costruzione e di altezza poetica: la novità della situazione si risolve in un'ardua tensione stilistica e lirica: Canzone, or che sarà di me ne l'altro / dolce tempo novello quando piove / amore in terra da tutti li cieli, / quando per questi geli / amore è solo in me, e non altrove? / Saranne quello ch'è d'un uom di marmo, / se in pargoletta fia per core un marmo (vv. 66 ss.). Il Contini nota la replicazione, con frattura, di altro dolce dal verso finale della stanza precedente; quando ripetuto equivocamente, e amore due volte in posizione iniziale; si aggiungano di me / in me, il probabile legame allitterante fra tempo, terra, tutti: ove si voglia vedere un rapporto fra altro, tutti, questi, solo, e si tenga ovviamente conto che le parole in fine di verso sono legate dalla rima, risulta che quasi tutte le parole dei primi cinque versi del c. si rapportano per similitudine o per opposizione. Come altre volte, D. raggiunge qui un'assoluta rispondenza ritmica e lirica fra c. e stanze precedenti (si ricordi almeno Donne ch'avete, Tre donne, Doglia mi roca, Amor da che convien): si ha cioè la perfetta equivalenza del c. con le stanze fra le più potentemente costruite di D. (V. CANZONE, § 5).
Bibl. - L. Biadene, La forma metrica del commiato nella canzone, in Miscellanea Caix-Canello, Firenze 1886.