Confine
Il concetto di confine
La Terra disabitata, priva di uomini e di storia, ci apparirebbe come una superficie indistinta. Certo, presenterebbe corsi di fiumi e crinali di montagne e rive di mari, ossia la molteplice e varia 'natura', ma non tracce lasciate dalla storia dell'uomo. Soltanto il passaggio dell'uomo rompe l'indistinta continuità della Terra, isola le cose l'una dall'altra e introduce il criterio dell'appartenenza. Non a caso il latino pertinere designa insieme l'estendersi e lo spettare: un fondo ha una data estensione poiché spetta a qualcuno. L'appartenenza o spettanza, connettendo la cosa a un soggetto, serve a distinguerla da altre, che fanno capo a soggetti diversi. Sorgono così le antitesi fra il mio e il tuo, fra il nostro e il loro. I soggetti, quasi proiettandosi nel mondo esterno, ne rompono la superficie e la convertono nella pluralità delle appartenenze. All'individualità dei soggetti corrisponde l'individualità delle cose, le quali perciò assumono la posizione di oggetti, entità esterne di cui i soggetti si appropriano. Così gli oggetti si distinguono e s'individuano; e talvolta - fondi rustici o edifici urbani - prendono nome dai soggetti appropriatori. Tutti i rapporti economici presuppongono che le cose spettino a qualcuno. E soltanto questo permette che esse circolino da un soggetto all'altro, o siano messe insieme per raggiungere uno scopo comune. Ogni rapporto di scambio o di associazione postula il 'mio' e il 'tuo', ossia che le cose appartengano a una pluralità di soggetti. La volontà di 'far proprio' si manifesta mediante l'individuazione degli oggetti, e dunque distinguendoli e separandoli. Qui entrano in gioco le misure dello spazio e del tempo, le quali concorrono nel definire le dimensioni dell'appartenenza. Ciascuna cosa non solo si trova accanto ad altre, ma, poiché di solito permane nel tempo, ha anche una durata: uno ieri, un oggi, un domani. L'interesse appropriativo si svolge nello spazio e nel tempo: cade su un oggetto e chiede una durata.
La linea serve all'individuazione spaziale delle cose. Mediante una o più linee, gli oggetti sono ritagliati, estratti dall'originaria indistinzione, resi unici nella loro individualità. Codeste linee, ancorché coincidano con cime di monti o sponde di fiumi, nulla hanno di naturale. Non sono natura; ma, tracciate dalla mano dell'uomo, appaiono arbitrarie e artificiali. La storia dell'uomo le ha disegnate sull'indistinta superficie della Terra. Nell'urto con la storicità dell'essere umano, lo spazio si divide e scompone nella pluralità dei luoghi, per ciascuno dei quali è ricostruibile una catena di eventi fondativi. Ne offrono esempio le mille e mille storie dei catasti fondiari, questi percorsi delle cose attraverso le generazioni degli uomini. L'individuazione di un oggetto è sempre un atto storico, uno svolgersi di volontà sul mondo esterno. Le linee, che individuano e separano i luoghi, segnano la fine di essi. Dentro le linee c'è un dato luogo, il quale si estende e allarga verso la fine. Donde quella varietà di parole, così ferme e taglienti - limiti, termini, c., frontiere - con cui indichiamo le linee costitutive dei luoghi. L'identità storica dei luoghi non è disgiungibile dalle linee che li circoscrivono e definiscono.
Tutte le parole che servono per esprimere una misura spaziale, ossia propriamente un luogo, implicano anche il luogo accanto. Frontiera, c., termine, limite, sottintendono un 'verso chi?', uno spazio considerato e avvertito come altro. L'individualità del luogo da cui muove il nostro sguardo si distingue da ogni luogo, che sia al di là del termine: qui incomincia il diverso. Questo 'oltre', pur disegnando lo spazio della diversità, è dialetticamente congiunto con il 'nostro' luogo (ossia il luogo da noi prescelto come punto d'osservazione), poiché esso ha il medesimo termine, ed è dunque confinante e vicino.
Fondamenti per una teoria generale del confine
Il diritto conosce da secoli i 'rapporti di vicinanza (o vicinato)': quei rapporti resi necessari, per così dire, dalla 'natura dei luoghi', dalla reciprocità del negarsi e del costituirsi. La negazione è giudizio sulla diversità di quell'oltre; l'affermazione è giudizio sulla necessità di quell'oltre, onde il nostro luogo si individua e determina. Insomma, una diversità che è indispensabile per la nostra stessa identità, e senza la quale non ci sentiremmo affermati dai confini. La rifiutiamo come ', e tuttavia ne abbiamo un esistenziale bisogno.
Il c. perciò adempie a una duplice funzione, che corrisponde alla dialettica tra diversità e identità. Da un lato, funzione escludente, poiché il c. divide e separa, nega e rifiuta. C'è ben una ragione dell'art. 832 del Codice civile italiano del 1942, secondo cui "il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo"; e degli artt. 950 e 951, che attribuiscono al proprietario le azioni di regolamento di c. e di apposizione di termini. Diritto di proprietà e sovranità statale si ritrovano nel medesimo carattere di esclusività: come una cosa non può essere oggetto simultaneamente di due proprietà, così non è concepibile la sovranità di due Stati sul medesimo territorio. L'esclusività bene si esprime nel perentorio aut-aut, o l'uno o l'altro, ma non ambedue insieme. La piena appartenenza della cosa al proprietario, e del territorio allo Stato, esclude qualsiasi altro, respinge ogni concorso o intrusione di estranei, vuole e reclama tutto per sé.
Possiamo sì disegnare la mappa delle proprietà e degli Stati, osservandone dall'alto e dall'esterno la varia molteplicità, ma, appena sia compiuta la scelta (come proprietari o come cittadini), allora questa proprietà e questo Stato sono il nostro mondo, che esclude ogni altra proprietà e ogni altro Stato. L'esclusività è appunto nell'unicità dell'angolo di osservazione, della prospettiva in cui ci collochiamo e da cui muoviamo il nostro sguardo. La descrizione della molteplicità gira intorno alle 'cose'; la scelta di una 'cosa' determina il punto di vista interno, e perciò l'emersione di diversità ed estraneità. Nessuno vorrà confondere la rappresentazione fotografica della città, eseguita dall'alto di un aereo, con il concreto abitare uno degli edifici, il quale diviene così la 'mia' casa e fornisce la 'mia' prospettiva.
Non meno forte e acuta è la funzione includente, onde il c., mentre separa dagli altri, stringe insieme, raccoglie, protegge. Coloro che sono al di qua si oppongono a quelli di là; coloro che vanno a coloro che vengono; insomma, il di dentro al di fuori. Il c. racchiude e unifica nell'appartenenza alla stessa terra, nell'uso di una lingua comune, nella fedeltà alla medesima tradizione. Esso è segno e misura d'identità storica. Spazio e tempo confluiscono nell'individuazione degli uomini: lo spazio, come luogo incluso tra i c.; il tempo, come memoria, passato condiviso e fraterno. Torna il raffronto tra proprietà e sovranità; e, a quel modo che la prima designa il diritto di 'pieno' godere e disporre, così la seconda manifesta l'assoluta e incondizionata potestà. I c. le isolano e circoscrivono; e, per angusto che sia lo spazio a ciascuna spettante, in esso si racchiudono come nell'unità di un tutto. Il simbolismo religioso accompagna la definizione dei luoghi: "Sempre l'irruzione del sacro" scrive T. Gregory "viene a determinare una scissione, una rottura, un orientamento, a dare ordine in uno spazio prima amorfo, quindi caotico e ostile" (2002, p. 204). I c., imprimendo forma allo spazio indistinto, generano i luoghi: è un separare e dividere, che stringe gli uomini insieme, e attribuisce loro un'appartenenza, e li difende in un 'dentro' serrato e concluso. Unità territoriale, identità storica, comunanza di lingua, passato e tradizioni, ritualità religiosa, simbolismo mitico: tutto questo prende senso, e pure dà senso, per la linea del confine. Il territorio degli Stati, come abitazione della sovranità, ossia di un dominio giuridico (esclusivo e inclusivo), è anche il luogo della politica. L'immagine geometrica della sfera, così consueta nella dottrina giuridica e politica, perfettamente descrive lo spazio del convivere, dove, appunto, i cives propongono regole dello stare insieme. C. Schmitt si spinge fino ad affermare che "non esistono né idee politiche senza uno spazio a cui siano riferibili, né spazi o principi spaziali a cui non corrisponda un'idea politica" (1941; trad. it. 1996, p. 19). Verità chiarissima, se appena si considera che l'unità territoriale degli Stati esprime un principio politico dell'età moderna; e che, dal suo canto, questo principio ha reclamato uno spazio di riferimento e di attuazione.
La distinzione tra politica interna e politica esterna non indica due generi di politica - l'una, ristretta al territorio dello Stato; volta, l'altra, ai rapporti con Stati diversi, - ma l'unica e sola politica, che, concepita al servizio del 'dentro', si protende e misura con le potenze del 'fuori'. Gli affari dell'economia - o meglio, la volontà di profitto del moderno capitalismo - non tollerano confini. I luoghi non sono più decisivi; ciò che conta è il 'dovunque' del produrre e dello scambiare. La produzione di merci, destinate a ignoti consumatori, non si lascia racchiudere nella sfera territoriale degli Stati: come anonimi e indistinti sono gli acquirenti, così destoricizzati diventano i luoghi dello scambio. E anzi 'luoghi' propriamente non sono più, ma semplici spazi funzionali, mercati di questa o quella categoria di beni. Una sorta di algida astrattezza domina il capitalismo: oltre le grandi figure di capitani d'industria, e di maghi della finanza, si allarga la massa di consumatori senza nome e senza volto. I rapporti perdono ogni nota di concreta e specifica individualità; si ripetono in ritmo ossessivo e frenetico; rispondono soltanto a criteri di calcolo e quantità. Alla medesima istanza del 'dovunque' obbedisce lo sviluppo della tecnica, che è insieme serva e padrona del moderno capitalismo. Ne appare come risultato o strumento; ma in verità lo incalza e sospinge come una potenza creativa. Anche essa non conosce c.: scoperte scientifiche e applicazioni pratiche passano di Paese in Paese, e in breve diventano comune patrimonio. Tutti vi attingono; tutti le utilizzano. Il sapere tecnico non si lascia racchiudere nell'unità territoriale dello Stato. Così, mentre politica e diritto hanno un 'luogo', la tecnoeconomia valica ogni c. e occupa gli spazi funzionali dei mercati. I due ambiti non coincidono più. L'immagine geometrica della sfera serve ormai a descrivere soltanto la sovranità territoriale dello Stato. Nasce perciò il problema di come ricongiungere le due potenze, di come la sovranità statale possa di nuovo sottomettere gli affari dell'economia.
Già nel 1800, J.G. Fichte, teorizzando lo 'Stato commerciale chiuso', aveva provato a ricondurre economia, politica e diritto nello stesso ambito spaziale. Il sistema razionale, scrive il filosofo, è in questo: "che lo Stato si chiuda completamente a ogni commercio coll'estero, e formi d'ora in poi un corpo commerciale così separato, come finora ha formato un separato corpo giuridico e politico" (Der geschlossene Handelsstaat; trad. it. 1909, p. 116). La chiusura dello Stato, separando interno da esterno, e distinguendo cittadini da stranieri, restringe entro i c. gli affari del commercio e fa coincidere la sfera dell'economia con la sfera politico-giuridica. Si restaura così l'unità territoriale, e i c. tornano a svolgere la funzione loro propria di escludere e includere. Al medesimo risultato si giunge, a ben vedere, per le strade del colonialismo o dell'imperialismo, i quali appunto allargano, con vari mezzi e forme, la potestà politico-giuridica fino all'estremo limite di una data economia (o, meglio, fino al punto cui si protende la volontà di profitto, che le norme scelgono di proteggere e garantire). L'imperium, come notò Schmitt, deve servirsi di 'argomenti universalistici', e "mettere l'interesse dell'integrità di un tale impero alla pari degli interessi dell'umanità" (p. 19): non più, perciò, l'appello ai luoghi, a identità linguistiche o storiche, a memorie comuni, ma al genere 'uomo', che è poi l'homo oeconomicus della produzione e degli scambi. Per poco che si rifletta, 'Stato commerciale chiuso' e imperialismo rispondono alla stessa logica, ossia all'esigenza di ricongiungere spazio economico e spazio politico-giuridico. Se l'economia, professando neutralità tecnica e oggettività funzionale, rifiuta la politica, quest'ultima, a sua volta, si sforza di raggiungerla e di sottometterla.
E appunto nei modi e con le forme appena indicati: o di ricondurre l'economia entro i c. territoriali dello Stato o di allargare la potenza militare di questo fino al punto in cui giungono gli affari della produzione e dello scambio. Si tratta, nell'uno e nell'altro caso, di costruire, o ricostruire, l'unità dei due ambiti, e di restaurare il primato delle decisioni politico-giuridiche sulla mera volontà di profitto. È la medesima sconfinatezza dell'economia, che valica tutte le frontiere e trascende le sfere dei territori statali. Essa, congiungendosi con lo sviluppo tecnico e con l'egemonia ideologica del mercato, si allarga sull'intero pianeta, e si fa, appunto, globale. Di fronte, o di contro, alla territorialità degli Stati, dove politica, diritto ed economia si muovono nel medesimo ambito (in quella 'sfera', che insieme li racchiude e determina); e dove l'identità degli uomini giunge dalla memoria del comune passato; di contro a questo, sta ormai la globalizzazione della tecnoeconomia. Non un altro luogo, circoscritto e individuato da c., ma l'astratta sconfinatezza del non-luogo, senza peso di passato e di memoria. Qui gli uomini prendono veste dal mercato, venditori e compratori, produttori e consumatori: funzioni anonime, ripetute innumerevoli volte, e soltanto suscettibili di calcolo quantitativo. La sconfinatezza li sradica dalla terra e li sospinge in uno spazio neutro e grigio, delocalizzato e destoricizzato. L'appartenenza, sciogliendosi dai c., si affida all'impiego della tecnologia: così l'utente della rete telematica corrisponde al consumatore del mercato globale.
L'immane latitudine della globalizzazione non riesce tuttavia a liberarsi di ogni vincolo terrestre: sopraggiunge, prima o poi, il bisogno di riferirsi a un luogo (e anche alla sfera territoriale di singoli Stati). L'atterraggio, se così vogliamo denominarlo, dipende, per es., dalla necessità di riferirsi a beni materiali, o entità fisiche, che si trovino in un dato luogo; o di disporre concretamente di somme di danaro; o di conseguire l'attuazione coercitiva di contratti o di lodi arbitrali. E allora si scopre che l'economia globale, pur professando estraneità agli ordinamenti statali, e lusingandosi di esprimere essa stessa un proprio diritto, presuppone quegli ordinamenti, ed è tutta popolata e attraversata da istituti giuridici ('mio', 'tuo', 'scambio' ecc.). E altresì si scopre che il problema non è (e non può essere) di un'economia senza diritto, ma piuttosto di un'economia che scelga entro la molteplicità dei diritti statali, ovvero dei diritti statali capaci di stringere gli affari a un dato luogo, e così di sottometterli e governarli. L'alternativa è, insomma, tra ordine giuridico del mercato e mercato degli ordini giuridici. Nell'un caso, gli Stati, mediante accordi internazionali, inseguono la tensione planetaria dell'economia, e si provano a stabilire rapporti tra affari e luoghi; nell'altro, gli Stati si offrono in concorrenza alla scelta delle imprese, proponendo privilegi, benefici, immunità. O gli Stati rivendicano il primato delle decisioni politico-giuridiche, e assumono, in una o altra misura, il governo dell'economia; ovvero, quasi competitori in una 'corsa al ribasso', s'industriano di attrarre gli affari entro le rispettive sfere con prezzi sempre più vili e vantaggiosi. E questa è, anch'essa, una decisione politico-giuridica, volta a secondare e agevolare il desiderio di profitto.
La volontà degli Stati di ripristinare la coestensione di ambito politico-giuridico e ambito economico, sicché i c. dell'uno racchiudano anche lo spazio dell'altro, implica una teoria o un uso artificiali del diritto. Non più il nomos della dottrina schmittiana, il rapporto genetico di un dato ordine giuridico con una certa terra, ma la pura validità spaziale, conseguita mercé di accordi fra gli Stati. Il luogo, non più costitutivo del diritto, ma costituito dal diritto: il quale, nel proposito di coestendersi alla misura dell'economia, abbandona anch'esso la terra originaria, valica le frontiere, e così assume una dimensione soltanto voluta. L'artificialità, ossia la volontà di dominio delocalizzata e destoricizzata, diviene il punto d'incontro fra diritto e tecnoeconomia: né altro sarebbe possibile, affinché la regola riesca a coprire l'estensione del regolato, e questo non le sfugga in cerca di diversa disciplina. L'ambito spaziale del diritto si riconduce così alla concezione kelseniana, ossia al nudo positivismo della volontà. E amiamo dirlo nudo, poiché si scioglie dalle antiche radici, e tutto si protende a inseguire e a raggiungere la planetaria vastità dell'economia. La sconfinatezza della tecnica, e dei rapporti di produzione e di scambio, può esser raggiunta soltanto con l'artificialità normativa, che le è intima e fraterna. La forma spaziale del diritto prende caratteristiche diverse dal passato: essa non s'incorpora più in un dato ed esclusivo territorio, ma si allarga fino al punto in cui giungono gli accordi interstatuali. Questo allontanamento o sradicamento è il costo necessario, pagato dal diritto e dalla sua volontà di dominare l'economia; e dunque, come produzione e scambio rompono la chiusura dei c., così le norme giuridiche, emanate per accordi internazionali e garantite dal potere coercitivo degli Stati, occupano e sottomettono gli spazi dei mercati.
Gli affari dell'economia, rifiutando la 'parzialità' delle decisioni politico-giuridiche, si atteggiano a mondo tecnico e neutrale. E perciò contrappongono alla lotta dei partiti la pace dei traffici, alla divisione dei politici il concorde giudizio dei tecnici, alla sovranità dello Stato il solipsismo dei singoli accordi; ossia, per poco che si rifletta, una politica a un'altra politica, poiché dalla politica, pur rifiutandola o sprezzandola, nessuno di noi è in grado di uscire. Orbene, gli accordi fra Stati, avvolgendo parti della superficie terrestre nelle maglie del geodiritto e dunque fissando gli affari dell'economia ai luoghi delle norme, ripristinano il dominio della decisione politico-giuridica e sconfiggono le pretese neutrali dei tecnocrati. La globalizzazione, o sconfinatezza, costringe il diritto a uscir fuori dalla sfera territoriale dei singoli Stati, a protendersi nello spazio dei mercati, a costruire un nuovo ordine del mondo. Ma l'artificialità, che manifesta il dominio dell'uomo nel diritto e nella tecnoeconomia, è in grado di esprimere un significato complessivo, di rispondere alla domanda circa la direzione delle cose? Lo sradicamento strappa l'uomo dalla terra d'origine e lo fa consumatore nella vastità della rete telematica e dei mercati planetari. Questi sono spazi 'privi di dei': la produzione e lo scambio di merci, le scoperte scientifiche e le applicazioni tecniche, i profitti d'impresa e i consumi di massa non possono indicarci il 'dove andiamo'. Essi si esauriscono nel loro semplice e nudo accadere. E così le norme giuridiche, costrette a uscire dai c. e ad abbandonare il nomos originario, si risolvono in mera tecnica di potenza, che persegue bensì singoli scopi, ma non obbedisce a un senso unitario e orientativo.
L'artificialità, proprio in quanto creazione tutta volontaria e mondana, rivela uno sfondo nichilistico, a cui soggiacciono insieme la tecnoeconomia e il diritto interstatuale. La confinatezza, racchiudendo politica, diritto ed economia nella sfera statale, e separando il dentro dal fuori, attribuiva unità di senso; la sconfinatezza getta l'uomo nel 'dovunque' della rete telematica e dei mercati, sradica le norme giuridiche dai singoli territori, e gli uni e le altre avvolge nel più lucido nichilismo (v. nichilismo giuridico). Le norme giuridiche possono stabilire un ordine, ossia rendere calcolabile il futuro e tutelare con la forza coercitiva le attese dei singoli, ma non dotare di senso il mondo. Questo compito non spetta al diritto: esso né sa, né può adempierlo.
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