confine
– La Terra disabitata, priva di uomini e di storia, ci apparirebbe come una superficie indistinta. Certo, presenterebbe corsi di fiumi e crinali di montagne e rive di mari, ossia la molteplice e varia 'natura', ma non tracce lasciate dalla storia dell'uomo. Soltanto il passaggio dell'uomo rompe l'indistinta continuità della Terra, isola le cose l'una dall'altra e introduce il criterio dell'appartenenza. L'appartenenza o spettanza, connettendo la cosa a un soggetto, serve a distinguerla da altre, che fanno capo a soggetti diversi. Sorgono così le antitesi fra il mio e il tuo, fra il nostro e il loro. I soggetti, quasi proiettandosi nel mondo esterno, ne rompono la superficie e la convertono nella pluralità delle appartenenze. All'individualità dei soggetti corrisponde l'individualità delle cose, le quali perciò assumono la posizione di oggetti, entità esterne di cui i soggetti si appropriano. Così gli oggetti si distinguono e si individuano; e talvolta – fondi rustici o edifici urbani – prendono nome dai soggetti appropriatori. Tutti i rapporti economici presuppongono che le cose spettino a qualcuno. E soltanto questo permette che esse circolino da un soggetto all'altro, o siano messe insieme per raggiungere uno scopo comune. La volontà di 'far proprio' si manifesta mediante l'individuazione degli oggetti, e dunque distinguendoli e separandoli. Qui entrano in gioco le misure dello spazio e del tempo, le quali concorrono nel definire le dimensioni dell'appartenenza. Ciascuna cosa non soltanto si trova accanto ad altre, ma, poiché di solito permane nel tempo, ha anche una durata: uno ieri, un oggi, un domani. La linea serve all'individuazione spaziale delle cose. Mediante una o più linee, gli oggetti sono ritagliati, estratti dall'originaria indistinzione, resi unici nella loro individualità. Codeste linee, ancorché coincidano con cime di monti o sponde di fiumi, nulla hanno di naturale. Non sono natura; ma, tracciate dalla mano dell'uomo, appaiono arbitrarie e artificiali. La storia dell'uomo le ha disegnate sull'indistinta superficie della Terra. Nell'urto con la storicità dell'essere umano, lo spazio si divide e scompone nella pluralità dei luoghi, per ciascuno dei quali è ricostruibile una catena di eventi fondativi. L'individuazione di un oggetto è sempre un atto storico, uno svolgersi di volontà sul mondo esterno. Donde quella varietà di parole, così ferme e taglienti – limiti, termini, c., frontiere – con cui indichiamo le linee costitutive dei luoghi. Tutte le parole che servono per esprimere una misura spaziale, ossia propriamente un luogo, implicano anche il luogo accanto. Frontiera, c., termine, limite, sottintendono un 'verso chi?', uno spazio considerato e avvertito come altro. L'individualità del luogo da cui muove il nostro sguardo si distingue da ogni luogo, che sia al di là del termine: qui incomincia il diverso. Questo 'oltre', pur disegnando lo spazio della diversità, è dialetticamente congiunto con il 'nostro' luogo (ossia il luogo da noi prescelto come punto d'osservazione), confinante e vicino.
Fondamenti per una teoria generale del confine. Il diritto conosce da secoli i 'rapporti di vicinanza (o vicinato)': quei rapporti resi necessari, per così dire, dalla 'natura dei luoghi', dalla reciprocità del negarsi e del costituirsi. La negazione è giudizio sulla diversità di quell'oltre; l'affermazione è giudizio sulla necessità di quell'oltre, onde il nostro luogo si individua e determina. Insomma, una diversità che è indispensabile per la nostra stessa identità, e senza la quale non ci sentiremmo affermati dai confini. Il c. perciò adempie a una duplice funzione, che corrisponde alla dialettica tra diversità e identità. Da un lato, funzione escludente, poiché il c. divide e separa, nega e rifiuta. C'è ben una ragione dell'art. 832 del Codice civile italiano del 1942, secondo cui «il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo»; e degli artt. 950 e 951, che attribuiscono al proprietario le azioni di regolamento di c. e di apposizione di termini. Diritto di proprietà e sovranità statale si ritrovano nel medesimo carattere di esclusività: come una cosa non può essere oggetto simultaneamente di due proprietà, così non è concepibile la sovranità di due stati sul medesimo territorio. Possiamo sì disegnare la mappa delle proprietà e degli stati, osservandone dall'alto e dall'esterno la varia molteplicità, ma, appena sia compiuta la scelta (come proprietari o come cittadini), allora questa proprietà e questo Stato sono il nostro mondo, che esclude ogni altra proprietà e ogni altro Stato. Non meno forte e acuta è la funzione includente, onde il c., mentre separa dagli altri, stringe insieme, raccoglie, protegge. Coloro che sono al di qua si oppongono a quelli di là; coloro che vanno a coloro che vengono; insomma, il di dentro al di fuori. Il c. racchiude e unifica nell'appartenenza alla stessa terra, nell'uso di una lingua comune, nella fedeltà alla medesima tradizione. Esso è segno e misura d'identità storica. Spazio e tempo confluiscono nell'individuazione degli uomini: lo spazio, come luogo incluso tra i c.; il tempo, come memoria, passato condiviso e fraterno. Torna il raffronto tra proprietà e sovranità; e, a quel modo che la prima designa il diritto di 'pieno' godere e disporre, così la seconda manifesta l'assoluta e incondizionata potestà. I c. le isolano e circoscrivono; e, per angusto che sia lo spazio a ciascuna spettante, in esso si racchiudono come nell'unità di un tutto. Unità territoriale, identità storica, comunanza di lingua, passato e tradizioni, ritualità religiosa, simbolismo mitico: tutto questo prende senso, e pure dà senso, per la linea del confine. Il territorio degli stati, come abitazione della sovranità, ossia di un dominio giuridico (esclusivo e inclusivo), è anche il luogo della politica. L'immagine geometrica della sfera, così consueta nella dottrina giuridica e politica, descrive perfettamente lo spazio del convivere, dove, appunto, i cives propongono regole dello stare insieme. La distinzione tra politica interna e politica esterna non indica due generi di politica – l'una, ristretta al territorio dello Stato; volta, l'altra, ai rapporti con stati diversi, – ma l'unica e sola politica, che, concepita al servizio del 'dentro', si protende e misura con le potenze del 'fuori'. Gli affari dell'economia – o meglio, la volontà di profitto del moderno capitalismo – non tollerano invece confini. I luoghi non sono più decisivi; ciò che conta è il 'dovunque' del produrre e dello scambiare. La produzione di merci, destinate a ignoti consumatori, non si lascia racchiudere nella sfera territoriale degli stati: come anonimi e indistinti sono gli acquirenti, così destoricizzati diventano i luoghi dello scambio. E anzi 'luoghi' propriamente non sono più, ma semplici spazi funzionali, mercati di questa o quella categoria di beni. Una sorta di algida astrattezza domina il capitalismo: i rapporti perdono ogni nota di concreta e specifica individualità; si ripetono in ritmo ossessivo e frenetico; rispondono soltanto a criteri di calcolo e quantità. Alla medesima istanza del 'dovunque' obbedisce lo sviluppo della tecnica, che è insieme serva e padrona del moderno capitalismo. Ne appare come risultato o strumento; ma in verità lo incalza e sospinge come una potenza creativa. Anche essa non conosce c.: scoperte scientifiche e applicazioni pratiche passano di Paese in Paese, e in breve diventano comune patrimonio. Tutti vi attingono; tutti le utilizzano. Il sapere tecnico non si lascia racchiudere nell'unità territoriale dello Stato. Così, mentre politica e diritto hanno un 'luogo', la tecnoeconomia valica ogni c. e occupa gli spazi funzionali dei mercati. I due ambiti non coincidono più. L'immagine geometrica della sfera serve ormai a descrivere soltanto la sovranità territoriale dello Stato. Nasce perciò il problema di come ricongiungere le due potenze, di come la sovranità statale possa di nuovo sottomettere gli affari dell'economia. Se l'economia, professando neutralità tecnica e oggettività funzionale, rifiuta la politica, quest'ultima, a sua volta, si sforza di raggiungerla e di sottometterla, o riconducendo l'economia entro i c. territoriali dello Stato o allargando la potenza militare di questo fino al punto in cui giungono gli affari della produzione e dello scambio. Si tratta, nell'uno e nell'altro caso, di costruire, o ricostruire, l'unità dei due ambiti, e di restaurare il primato delle decisioni politico-giuridiche sulla mera volontà di profitto. È la medesima sconfinatezza dell'economia, che valica tutte le frontiere e trascende le sfere dei territori statali. Essa, congiungendosi con lo sviluppo tecnico e con l'egemonia ideologica del mercato, si allarga sull'intero pianeta, e si fa, appunto, globale. Di fronte, o di contro, alla territorialità degli stati, dove politica, diritto ed economia si muovono nel medesimo ambito (in quella 'sfera', che insieme li racchiude e determina); e dove l'identità degli uomini giunge dalla memoria del comune passato; di contro a questo, sta ormai la globalizzazione della tecnoeconomia. Non un altro luogo, circoscritto e individuato da c., ma l'astratta sconfinatezza del non-luogo, senza peso di passato e di memoria. Qui gli uomini prendono veste dal mercato, venditori e compratori, produttori e consumatori: funzioni anonime, ripetute innumerevoli volte, e soltanto suscettibili di calcolo quantitativo. La sconfinatezza li sradica dalla terra e li sospinge in uno spazio neutro e grigio, delocalizzato e destoricizzato. L'appartenenza, sciogliendosi dai c., si affida all'impiego della tecnologia: così l'utente della rete telematica corrisponde al consumatore del mercato globale. L'immane latitudine della globalizzazione non riesce tuttavia a liberarsi di ogni vincolo terrestre: sopraggiunge, prima o poi, il bisogno di riferirsi a un luogo (e anche alla sfera territoriale di singoli stati). L'atterraggio, se così vogliamo denominarlo, dipende, per es., dalla necessità di riferirsi a beni materiali, o entità fisiche, che si trovino in un dato luogo; o di disporre concretamente di somme di danaro; o di conseguire l'attuazione coercitiva di contratti o di lodi arbitrali. E allora si scopre che l'economia globale, pur professando estraneità agli ordinamenti statali, e lusingandosi di esprimere essa stessa un proprio diritto, presuppone quegli ordinamenti, ed è tutta popolata e attraversata da istituti giuridici ('mio', 'tuo', 'scambio' ecc.). E altresì si scopre che il problema non è (e non può essere) di un'economia senza diritto, ma piuttosto di un'economia che scelga entro la molteplicità dei diritti statali, ovvero dei diritti statali capaci di stringere gli affari a un dato luogo, e così di sottometterli e governarli. L'alternativa è, insomma, tra ordine giuridico del mercato e mercato degli ordini giuridici. Nell'un caso, gli stati, mediante accordi internazionali, inseguono la tensione planetaria dell'economia, e si provano a stabilire rapporti tra affari e luoghi; nell'altro, gli stati si offrono in concorrenza alla scelta delle imprese, proponendo privilegi, benefici, immunità. O gli stati rivendicano il primato delle decisioni politico-giuridiche, e assumono, in una o altra misura, il governo dell'economia; ovvero, quasi competitori in una 'corsa al ribasso', s'industriano di attrarre gli affari entro le rispettive sfere con prezzi sempre più vili e vantaggiosi. E questa è, anch'essa, una decisione politico-giuridica, volta ad assecondare e agevolare il desiderio di profitto. La volontà degli stati di ripristinare la coestensione di ambito politico-giuridico e ambito economico, sicché i c. dell'uno racchiudano anche lo spazio dell'altro, implica una teoria o un uso artificiali del diritto. Non più il rapporto genetico di un dato ordine giuridico con una certa terra, ma la pura validità spaziale, conseguita mercé di accordi fra gli stati. Il luogo, non più costitutivo del diritto, ma costituito dal diritto: il quale, nel proposito di coestendersi alla misura dell'economia, abbandona anch'esso la terra originaria, valica le frontiere, e così assume una dimensione soltanto voluta. L'artificialità, ossia la volontà di dominio delocalizzata e destoricizzata, diviene il punto d'incontro fra diritto e tecnoeconomia: né altro sarebbe possibile, affinché la regola riesca a coprire l'estensione del regolato, e questo non le sfugga in cerca di diversa disciplina. L'ambito spaziale del diritto si riconduce così al nudo positivismo della volontà. E amiamo dirlo nudo, poiché si scioglie dalle antiche radici, e tutto si protende a inseguire e a raggiungere la planetaria vastità dell'economia. La sconfinatezza della tecnica, e dei rapporti di produzione e di scambio, può esser raggiunta soltanto con l'artificialità normativa, che le è intima e fraterna. La forma spaziale del diritto prende caratteristiche diverse dal passato: essa non s'incorpora più in un dato ed esclusivo territorio, ma si allarga fino al punto in cui giungono gli accordi interstatuali. Questo allontanamento o sradicamento è il costo necessario, pagato dal diritto e dalla sua volontà di dominare l'economia; e dunque, come produzione e scambio rompono la chiusura dei c., così le norme giuridiche, emanate per accordi internazionali e garantite dal potere coercitivo degli Stati, occupano e sottomettono gli spazi dei mercati. Gli affari dell'economia, rifiutando la 'parzialità' delle decisioni politico-giuridiche, si atteggiano a un mondo tecnico e neutrale. E perciò contrappongono alla lotta dei partiti la pace dei traffici, alla divisione dei politici il concorde giudizio dei tecnici, alla sovranità dello Stato il solipsismo dei singoli accordi; ossia, per poco che si rifletta, una politica a un'altra politica, poiché dalla politica, pur rifiutandola o sprezzandola, nessuno di noi è in grado di uscire. Orbene, gli accordi fra stati, avvolgendo parti della superficie terrestre nelle maglie del geodiritto e dunque fissando gli affari dell'economia ai luoghi delle norme, ripristinano il dominio della decisione politico-giuridica e sconfiggono le pretese neutrali dei tecnocrati. La globalizzazione, o sconfinatezza, costringe il diritto a uscir fuori dalla sfera territoriale dei singoli stati, a protendersi nello spazio dei mercati, a costruire un nuovo ordine del mondo. Ma l'artificialità, che manifesta il dominio dell'uomo nel diritto e nella tecnoeconomia, è in grado di esprimere un significato complessivo, di rispondere alla domanda circa la direzione delle cose? Lo sradicamento strappa l'uomo dalla terra d'origine e lo fa consumatore nella vastità della rete telematica e dei mercati planetari. Questi sono spazi 'privi di dei': la produzione e lo scambio di merci, le scoperte scientifiche e le applicazioni tecniche, i profitti d'impresa e i consumi di massa non possono indicarci il 'dove andiamo'. Essi si esauriscono nel loro semplice e nudo accadere. E così le norme giuridiche si risolvono in mera tecnica di potenza, che persegue bensì singoli scopi, ma non obbedisce a un senso unitario e orientativo. L'artificialità, proprio in quanto creazione tutta volontaria e mondana, rivela uno sfondo nichilistico, a cui soggiacciono insieme la tecnoeconomia e il diritto interstatuale. La confinatezza, racchiudendo politica, diritto ed economia nella sfera statale, e separando il dentro dal fuori, attribuiva unità di senso; la sconfinatezza getta l'uomo nel 'dovunque' della rete telematica e dei mercati, sradica le norme giuridiche dai singoli territori, e gli uni e le altre avvolge nel più lucido nichilismo. Le norme giuridiche possono stabilire un ordine, ossia rendere calcolabile il futuro e tutelare con la forza coercitiva le attese dei singoli, ma non dotare di senso il mondo. Questo compito non spetta al diritto: esso né sa, né può adempierlo.