Concilio Vaticano II
Concìlio Vaticano II. – L'ultimo concilio ecumenico è diventato, nel periodo di tempo che ha visto Benedetto XVI succedere sulla sede di Pietro a Giovanni Paolo II, un tema di straordinaria attualità. Wojtyła – ultimo papa a essere stato padre del concilio e unico membro di una commissione – ha manifestato una sua forma di fedeltà al concilio: dichiarata all’inizio del pontificato, essa ha avuto un momento critico nel 1985 quando sul sinodo straordinario sulla ricezione del concilio pesava l’ombra della intervista di Joseph Ratzinger che indicava come necessaria una 'restaurazione' che Giovanni Paolo II non fece sua, confortato da un sostegno corale delle conferenze episcopali. Pur nell’insieme di atti – documenti dottrinali, azioni di governo, nomine episcopali – che non davano certo corso all’impulso rinnovatore del Vaticano II, Wojtila non aveva esitato a usare la scomunica contro le ordinazioni illecite di vescovi lefebvriani nel 1988 e a proclamare beato Roncalli nell’anno 2000, quasi a segnare con una generazione di ritardo il gesto ermeneutico che il concilio stesso aveva inutilmente chiesto di poter compiere nel 1964-1965. L’indicazione del concilio come bussola nella chiesa era tornata nel periodo giubilare e postgiubilare, aumentando un antagonismo con il mondo tradizionalista che in alcuni suoi gesti – specie nella preghiera di Assisi e in generale nell’impulso dato al dialogo interreligioso e alla fraternità con l’ebraismo – individuava la peggiore espressione del Vaticano II sempre osteggiato. L’elezione di Joseph Rtazinger nel 2005, nonostante le apparenze, marcava uno stacco rispetto a questa contorta fedeltà wojtyliana: il nuovo pontefice, teologo della maggioranza conciliare e protagnista in prima persona della resistenza più accessa alla Nota explicativa prævia che tentatava di introdurre una lettura minimale della collegialità episcopale, aveva subito nel corso del 1968 un vero e proprio shock nella sua docenza a Tubinga. L’immagine di una platea studentesca di giovani teologi incantati dal marxismo e del tutto inconsapevoli della portata di azioni di riforma selvaggia lo avevano convinto che, come già aveva scritto nel 1965, era necessario un discernimento diventato nel corso del tempo e nel concreto delle circostanze una forma di resistenza nei confronti della qualificazione del concilio. Per Ratzinger sia l’epocalità del concilio, sia il significato telogico della riforma liturgica (che insieme alle lingue parlate riportava nel messale la tradizione antica), sia le sfide ecclesiolgiche ed ecumeniche non erano una forma di adesione alla tradizione a cui restare fedeli: piuttosto esse andavano considerate come una opzione da bilanciare e contemperare ad altre. Gli atti conseguenti a questa linea di condotta hanno condotto per un verso a una serie di concessioni ai lefebvriani: col motu proprio Summorum Pontificum del 2007 veniva così reintrodotto il messale di san Pio V come libro liturgico adottabile dal clero senza il filtro dei vescovi, poi veniva riformulata la preghiera del venerdì santo per gli ebrei che ritornava a fare spazio alla parola conversione, e venivano riammessi alla comunione i quattro vescovi consacrati da Lefebvre, fra quali uno, mons. Williamson, di formazione anglicana, noto per le sue posizioni antisemite e nagazioniste. Più di recente col motu proprio Anglicanorum coetibus veniva riaperta una porta all’unionismo cattolico, creando le condizioni per fedeli e anche vescovi anglicani per ritornare alla Chiesa cattolica e conservare la giurisdizione, anche nel caso di clero uxorato, in una forma non facile da applicare ma significativa, se non esemplare, sul piano dell’intero spettro delle relazioni ecumeniche. In linea di principio il papa prendeva posizione in una querelle di cui era protagonista il 22 dicembre 2005 davanti alla curia: inseriva il tema nel suo quadro ecclesiologico che vede necessario affermare l’antecedenza ontologica e cronologica della chiesa universale sulle chiese particolari. In quel quadro contrapponeva dunque due ermeneutiche del Vaticano II che avevano dominato il quarantennio postconciliare: una della discontinuità e della rottura, l’altra della continuità e della riforma; la stessa categoria di 'spirito del concilioì, usata a piene mani da Paolo VI per indicare l'adesione al Vaticano II come corpus, veniva messa in dubbio. L’abuso di questa distinzione riguardante l’ontologia della Chiesa in ambito pubblicistico è stata massiccia: quasi che Benedetto XVI avesse abolito ciò che di discontinuo il Vaticano II ha rappresentato o avesse di mira la storiografia del Vaticano II. Il desiderio del mondo tradizionalista e semitradizionalista, infatti, era quello che si arrivasse a un documento con una interpretazione autentica del Vaticano II: cosa che il papato non ha mai osato fare. Oltre a questa aspirazione, ben rappresentata da una Supplica di un anziano teologo romano come mons. Brunero Gherardini, vi era quella che il papa interpretasse l’autodefinizione del Vaticano II come concilio 'pastorale', non una compresione nuova del nucleo della verità ma un'autolimitazione delle proprie decisioni. Nell’approssimarsi del 50° di questi atti non è apparso nulla e il periodo dell’anniversario è stato dedicato come anno della della fede. Nel corso del 2011 invece, una serie di sottrazioni di documenti riservati dell’aministrazione centrale della Chiesa è stata al centro di un grande fragore mediatico e forse anche di qualche intrigo (probabilmente teso, con l’avanzare dell’età del pontefice, a far apparire il suo governo debole e fragile). Secondo alcuni osservatori dietro una complessa e frammentata manovra denigratoria ci sarebbe il desiderio di poter condizionare il prossimo conclave verso la proclamazione di un papa che finalmente non si limiti a non cogliere i nodi dinamici del Vaticano II, ma lo liquidi (impresa oggettivamente ardua per la profondità e la vastità della ricezione globale dello stesso).