Concili e sinodi
Scrivere la storia dei concili in epoca precostantiniana e costantiniana significa ripercorrere un segmento della storia delle società umane, del loro vivere assembleare. Il termine synodos e il corrispettivo latino concilium ricoprono un’ampia gamma di significati, ma in ambito cristiano essi vengono impiegati, da subito, per indicare le riunioni di credenti e gli edifici (chiese) in cui queste avvengono, e successivamente per definire l’incontro di una comunità (sebbene le fonti ne menzionino il più delle volte soltanto i presbiteri) presieduto dal vescovo. Quantunque, risalendo agli inizi della storia cristiana, simili assemblee non siano testimoniate in modo chiaro dalle fonti e la loro cronologia di maggiore portata risulti discontinua, questa prassi di vita attraversa la storia ecclesiastica almeno dal II secolo d.C. fino ai nostri giorni, rimarcandone i momenti salienti.
Con l’imperatore Costantino e con il sinodo, per così dire, ecumenico di Nicea, nello specifico, si inaugura una nuova stagione nella vita della cosiddetta Grande Chiesa: quella fatta di momenti, i concili ecumenici, in cui essa decide in modo organico, collegiale, non a partire dall’autorità del suo sovrano. L’importanza storiografica di Nicea inoltre si estende al di là dei confini della sfera ecclesiastica, toccando quella più generale delle istituzioni statali, poiché si tratta del primo concilio per il quale le fonti ci attestino il ruolo primaziale dell’imperatore (Costantino) e della sua corte1.
La fonte più antica per la preistoria dei concili è Eusebio di Cesarea che nella sua Storia ecclesiastica parla – non in modo univoco – in due occasioni di incontri di carattere sinodale nel II secolo2. Si tratta di riunioni tenute per discutere della controversia pasquale, cioè della divergenza tra le varie comunità cristiane a proposito della data di celebrazione della Pasqua3, o per decidere il comportamento da adottare nei confronti della cosiddetta eresia montanista, vale a dire il movimento di stampo profetico con a capo Montano e due donne, Massimilla e Priscilla4.
Nel III secolo il numero di simili assemblee aumenta e si ricordano: le riunioni contro Origene e quelle in cui Origene viene interpellato come perito5; i sinodi cartaginesi (degli anni Cinquanta del III secolo), che, come altri sinodi in Oriente, erano incentrati su battesimo e lapsi (cfr. infra); infine i sinodi relativi ai problemi causati dal rapporto tra Chiesa ‘cattolica’ – cioè la Chiesa ‘ufficiale’ – e certi seguaci di teologie di area asiatica. Per quanto concerne il IV secolo, invece, seguendo la tipologia di problemi discussi, si possono distinguere da un lato il sinodo di Cartagine del 309/310 o 312, quello di Cirta del 305 e quello alessandrino del 306 contro i meliziani – sinodi, questi, che si occupano per lo più dei cristiani che hanno abiurato durante le persecuzioni –, dall’altro i sinodi di Elvira, Arles e Ancira, che discutono prevalentemente di problemi disciplinari conseguenti alla fine della Grande persecuzione.
Il contesto di maggiore interesse (poiché è quello in cui maturano le dinamiche ecclesiali che favoriranno l’intervento di Costantino nei sinodi) è l’ambito nordafricano6, per il quale, già prima della metà del III secolo, esiste traccia di alcuni concili, di cui ci informa l’epistolario di Cipriano. Il primo concilio da ricordare concerne l’invalidità del battesimo impartito al di fuori della Chiesa ‘ufficiale’ o ‘cattolica’. Già Tertulliano si era cimentato con tale questione nel De baptismo, dove aveva affermato che il solo battesimo valido era quello impartito nella Chiesa ‘cattolica’7. Così delibera anche un concilio di settanta vescovi8, tenutosi a Cartagine sotto Agrippino, che gli studiosi collocano tra il 220 e il 2309, riunito per discutere se ritenere valido anche in ambito ‘cattolico’ il battesimo impartito presso gruppi cristiani ‘eretici’10. L’atteggiamento da adottare nei confronti degli eretici, sebbene in tal caso non si discuta della validità del battesimo amministrato presso di loro, è il problema che la Chiesa ‘cattolica’ cartaginese affronta in un altro – incerto – concilio, tenutosi contro Privato vescovo di Lambesi tra il 236 e il 240, menzionato in Cypr., epist. 59,10. Sia di Privato che del concilio in sé non si può dire molto di più: la lettera 59 dell’epistolario ciprianeo definisce Privato semplicemente «eretico» e si sa solo che novanta vescovi si espressero con una sentenza contro di lui11. Infine si ricorda l’accenno a una riunione, in data non determinabile, finalizzata a ricondurre nella Chiesa quanti più lapsi (in tal caso adulteri pentiti) possibile, che la storiografia tradizionale ritiene attestata da Cypr., epist. 55,2112.
Durante il periodo dell’episcopato ciprianeo – contemporaneo alle persecuzioni di Decio – siamo a conoscenza di almeno otto concili tenutisi nel Nordafrica, soprattutto a Cartagine13, capoluogo dell’Africa Proconsularis, e di uno – a essi connesso – riunito a Roma nel 25114. La vita delle comunità cristiane del Nordafrica è turbata da due elementi. Il primo è di ordine pastorale ed ecclesiologico, e concerne l’atteggiamento che la comunità deve tenere nei confronti dei lapsi (letteralmente ‘caduti’), cioè di quei cristiani che, pur battezzati, hanno perduto lo status di salvati. Qualora essi chiedano di essere riammessi nella comunità, possono essere accolti? Se sì, a prezzo di quale penitenza? Sono questi i problemi che in particolare le comunità colpite dalla persecuzione si pongono e che i loro vescovi sono chiamati a risolvere. A loro volta, tali difficoltà favoriscono anche il secondo elemento di disturbo della pace nella Chiesa ‘cattolica’ nordafricana, ossia il già menzionato problema del battesimo degli eretici.
Dopo le persecuzioni di Decio (decreto del 1° gennaio 250), il grande numero dei lapsi provocato da questa ondata repressiva pone il problema di disciplinarne la reintegrazione all’interno della comunità. Teoricamente, avendo abiurato, essi dovrebbero esserne esclusi, tuttavia molti di loro si appellano ai cosiddetti libelli pacis, lettere o scritti composti da martiri prima di morire o da confessori sopravvissuti15 che invitano i vescovi a tenere un atteggiamento mite verso l’abiura commessa dai lapsi. Ciò mette conseguentemente in discussione l’autorità del vescovo locale qualora questi si attesti su posizioni rigoriste, come fanno il vescovo di Cartagine Cipriano e altri vescovi nordafricani. Nel 250, dopo l’emanazione dell’editto di Decio, Cipriano fugge in esilio per scampare alla persecuzione e di qui, giuntagli notizia dei lapsi e dei libelli, scrive una lettera alla sua comunità16 riconoscendo la necessità di risolvere tale problema con un concilio, perché solo il concilio è lo strumento per raggiungere l’unità della comunità e della Chiesa. Cipriano, nonostante abbia consapevolezza della sua forte personalità, comprende di non essere in grado di risolvere la questione se non attraverso l’accordo dei colleghi vescovi e anche della sua comunità17. La situazione cartaginese si complica con lo scisma di Felicissimo, un diacono ordinato dal presbitero Novato durante l’esilio di Cipriano, che diviene fermo oppositore della severità mostrata da quest’ultimo nei confronti dei lapsi. Cipriano, nella succitata lettera scritta dall’esilio alla sua comunità (epist. 43), sostiene che anche lo scisma di Felicissimo debba essere disciplinato in concilio. Il primo concilio cartaginese dell’episcopato ciprianeo (251 d.C.), pertanto, discute sia dei lapsi sia di Felicissimo e, in merito ai primi, delibera la possibilità di riconciliazione con la Catholica a patto di una sincera penitenza, mentre per Felicissimo stabilisce la scomunica. Il problema dei lapsi non si chiude qui ed è dibattuto anche nei concili cartaginesi svoltisi, rispettivamente, nel 25218, nel 25319 e nel 254. Tra questi il terzo è il più importante per il peso che le decisioni adottate avranno nei sinodi successivi e per la storia dei rapporti tra Roma e Alessandria. Il sinodo viene convocato per dirimere la questione di Basilide di Astorga-León e Marziale di Mérida. Questi due vescovi durante la persecuzione di Decio, in cui si obbligavano i cittadini dell’Impero a dimostrare di aver compiuto un sacrificio pagano, erano riusciti ad acquistare il certificato (libellus, da cui deriva l’appellativo di libellatici normalmente attribuito a queste figure) comprovante l’espletamento del sacrificio, senza che quest’ultimo fosse stato effettivamente compiuto. In quanto libellatici, Basilide e Marziale sono deposti e rimpiazzati dai vescovi Sabino e Felice. Non accettando tale decisione, si rivolgono al vescovo di Roma Stefano, che restituisce loro le relative sedi; si tratta della prima attestazione di una forma d’appello all’autorità della sede di Roma20. Felice e Sabino, allora, sostenuti dalle rispettive comunità, si rivolgono, invece che a Roma, a Cartagine e il concilio del 254 conferma la loro elezione e la deposizione di Basilide e Marziale21. Di particolare rilievo è il principio ecclesiologico che muove le decisioni del concilio, cioè il primato della santità, secondo cui la validità e l’effettualità di un sacramento dipendono dalla dignità di chi lo amministra, il quale deve essere degno dello Spirito Santo22. Conformemente a questa premessa, la comunità davvero timorosa di Dio ha il dovere di allontanarsi dalla guida indegna e di non partecipare alle celebrazioni di sacerdoti sacrileghi, poiché a lei soltanto spetta la potestas di eleggere vescovi degni o di rifiutare quelli indegni23.
L’attività sinodale nordafricana non può essere considerata a prescindere da quella della Chiesa di Roma. Il legame consolidato tra le due comunità, attestato da scambi epistolari già all’epoca di precedenti controversie24, e il carattere universalistico della persecuzione di Decio sono motivi sufficienti a giustificare la possibilità che la risoluzione del problema dei lapsi passi attraverso il confronto tra la Chiesa cartaginese e quella romana25. In più si aggiunge il caso romano dello scisma di Novaziano26 – presbitero e colto esponente della cosiddetta teologia del Logos e di posizioni rigoriste entrato in conflitto con Cornelio, che la comunità romana sceglie come proprio vescovo – nel momento in cui anche la Chiesa di Cartagine si trova alle prese con uno scisma, quello di Felicissimo. Oltre a ciò, il nesso tra la situazione a Cartagine e quella a Roma si rafforza nel momento in cui una spedizione di novazianisti giunge a Cartagine a perorare la propria causa. Ora, anche a Roma nel 251 si tiene un concilio che affronta problemi che affliggono pure la Chiesa cartaginese, cioè quello dei lapsi e lo scisma. In relazione ai lapsi, Roma era convinta tanto quanto Cartagine della necessità di risolvere la questione mediante un concilio27 e Roma, a tal proposito, fa proprie le conclusioni del concilio di Cartagine del 251 (riammissione dei lapsi previa penitenza) e, similmente a quanto accaduto con Felicissimo, scomunica Novaziano. I legami di tradizione tra Roma e Cartagine sono attestati anche in relazione al sinodo di Cartagine del 252 (di cui sappiamo che Cipriano fa recapitare a Roma alcune lettere per mettere in guardia la Chiesa locale dal pericolo di eresie28), nonché in merito al sinodo del 253, sulle cui decisioni Cipriano informa il vescovo romano Cornelio per persuaderlo ad accogliere le decisioni del sinodo in previsione di nuove ondate persecutorie29.
Nonostante le comuni tradizioni, tra Roma e Cartagine vi è uno scarto fondamentale, concernente il battesimo degli eretici. Il primo concilio di epoca ciprianea in cui viene trattata la disciplina battesimale è quello del 252, dove si discute il battesimo dei neonati e si decide che esso debba essere loro impartito il prima possibile30. Sarà tuttavia un altro concilio, tre anni più tardi, a occuparsi primieramente della più complessa questione del battesimo degli eretici, cioè di chi, battezzato al di fuori della Catholica, volesse entrare a farvi parte. Le comunità di Alessandria e Roma, da parte loro, avevano assunto una chiara posizione in merito al problema, decretando la validità di qualsiasi battesimo, purché amministrato nel nome di Gesù Cristo31. Il concilio di Cartagine del 25532 confermerà invece la rigida disciplina che caratterizza la Chiesa ‘cattolica’ locale, avversando quanto più ogni soluzione di compromesso33 e stabilendo la necessità del battesimo per gli eretici e gli scismatici. Queste conclusioni saranno ribadite dai settantuno vescovi riunitisi per il sinodo della primavera del 256 e dagli ottantasette vescovi convenuti nel settembre dello stesso anno per il sinodo con la partecipazione più elevata di tutto l’episcopato ciprianeo34. Tra i problemi ivi dibattuti, vi è anche quello della posizione che la Chiesa cartaginese deve tenere con quella di Roma, dal momento che i rapporti tra le due realtà ecclesiali sono ormai tesi, per ragioni in parte dottrinali, relative alla questione del battesimo degli eretici, e in parte legate all’interpretazione protagonistica del ruolo del vescovo di Roma data dal vescovo romano Stefano35.
Questa panoramica dei concili cartaginesi del III secolo attesta innanzitutto la consuetudine di questa Chiesa – e soprattutto dell’episcopato di Cipriano – di riunirsi in concilio e di operare collegialmente. In secondo luogo emerge un legame tra le diverse Chiese, che vengono informate con epistole sinodali delle decisioni dei concili locali e talvolta anche interpellate. In terzo luogo, tramite il confronto tra la situazione di Roma e quella di Cartagine, risulta che soprattutto alcuni temi meritano di essere sviluppati e votati in concilio, tra cui spicca quello della disciplina dei lapsi. A questi ultimi si legano problemi di ordine ecclesiologico e carismatico che mettono in crisi l’autorevolezza dei singoli vescovi nei confronti dei martiri: è più influente la parola dei martiri o la disciplina penitenziale stabilita dai vescovi?
Anche nel contesto orientale viene affrontata la questione dei lapsi: lo attesta proprio la lettera 75 dell’epistolario di Cipriano, in cui si fa menzione di alcuni sinodi che si riuniscono annualmente in Asia Minore nella prima metà del III secolo36. Pure la teologia battesimale, in Oriente, offre materia per dibattiti conciliari: si ricordano infatti i sinodi di Sinnada e Iconio, tra il 230 e il 235, dove si discute la validità del battesimo degli eretici37. Anche in Oriente le Chiese avevano maturato una loro soluzione al problema e, nello specifico, si sa che da questo punto di vista Roma e Alessandria si assestavano sulle stesse posizioni, opposte rispetto a quelle cartaginesi38.
A margine della questione dei lapsi39 l’Oriente è impegnato nella scomunica del vescovo antiocheno Paolo di Samosata40. Paolo è innanzitutto esponente di una teologia di matrice ‘asiatica’ o, più tecnicamente, monarchiana (dottrina dei rapporti intradivini che, per salvaguardare la fede monoteista e quella nella divinità del Figlio di Dio, sostiene che Padre e Figlio siano due modalità d’azione della medesima divinità), e pertanto è accusato di aver avuto «su Cristo idee basse e banali contrarie all’insegnamento della Chiesa, quasi che Cristo fosse stato per natura uomo comune»41. Ma Paolo non è scomodo solo per ragioni dottrinali: lo è anche politicamente, cioè per aspetti istituzionali legati alla sua interpretazione del ruolo del vescovo. Eusebio infatti conserva un ampio frammento della lettera scritta da sei vescovi orientali e indirizzata a Dionigi di Roma e Massimo di Alessandria, in cui risulta che il Samosateno esercita nella sua comunità un potere quasi dispotico42, fortemente legato peraltro al potere politico. Contro Paolo sono convocati almeno due sinodi: il primo, di cui si sa molto poco, si è riunito all’incirca nel 264 e il secondo nell’inverno tra il 268 e il 26943. Va segnalato il dibattito, pervenutoci soltanto in frammenti grazie alla trascrizione tachigrafica, tra il presbitero Malchione e Paolo, perché si tratta della seconda testimonianza – dopo il caso di Origene e Berillo a Bostra – di una critica rivolta a un vescovo da un presbitero nell’ambito di un sinodo. Tuttavia ciò che caratterizza maggiormente l’emblematicità storica di questi due sinodi non sta nella modalità del loro svolgimento, di cui non si sa molto, bensì nel loro seguito. Paolo infatti non accetta le decisioni del concilio che lo ha deposto né la conseguente consacrazione, come successore, di Domno, figlio del suo predecessore Demetriano.
Per mantenere il suo seggio, Paolo si affida a Zenobia, la reggente del regno di Palmira, che controlla anche Antiochia, da cui è appoggiato – a riprova della forte coloritura politica dell’episcopato del Samosateno.
Gli avversari di Paolo allora richiedono l’intervento dell’imperatore Aureliano, che nel 272 ha appena riconquistato la Siria sconfiggendo il figlio di Zenobia. Essi si lamentano del fatto che, nonostante la condanna, il Samosateno non voglia lasciare «la casa della Chiesa», cioè il seggio antiocheno44. Per dirimere la questione, Aureliano affida la soluzione della controversia al vescovo di Roma e a vescovi italici, decretando che siano essi a stabilire chi sia il legittimo vescovo di Antiochia45. Si è di fronte al primo caso in cui, per risolvere una difficoltà ecclesiastica, ci si rivolge all’imperatore. Ciò che rimane ancora dibattuto46 è la ragione per cui Aureliano si sia rivolto proprio a vescovi italici. Non si può parlare di cesaropapismo anzitempo, ma piuttosto di una relazione in fase di consolidamento «tra leadership ecclesiastica e autorità papale»47. La storia conciliare può dare maggiore evidenza a quest’interpretazione.
Tra i partecipanti al sinodo del 264, i cui nomi ci sono noti grazie a Eusebio48, si ricorda almeno Firmiliano di Cesarea (di Cappadocia), che probabilmente ha presieduto il sinodo49. Pure Dionigi di Alessandria viene invitato, ma si trova a dover rifiutare perché anziano. All’epoca dell’ultimo sinodo contro il Samosateno (268-269) Dionigi e Firmiliano saranno entrambi deceduti, tuttavia un frammento della lettera conclusiva del sinodo del 268-269 attribuisce alle figure dei «beati Dionigi di Alessandria e Firmiliano di Cappadocia» un’indubbia autorevolezza50. I rapporti tra Dionigi di Alessandria e Dionigi di Roma erano tesi – è la cosiddetta controversia dei ‘due Dionigi’51 – per via di una divergenza cristologica, tema che tocca anche l’accusa rivolta a Paolo di Samosata. Anche Firmiliano di Cesarea si era reso protagonista di una certa tensione con Roma, perché, osservante e promotore della prassi di ribattezzare gli eretici, si era attirato la disapprovazione del vescovo romano Stefano, che aveva interrotto i contatti con lui52. È vero che Roma non è ignara dei fatti di Antiochia dal momento che la lettera conclusiva del sinodo del 268 è indirizzata a «Massimo, vescovo di Alessandria» e «al vescovo di Roma Dionigi», tuttavia non è attestata la presenza ad Antiochia né del vescovo di Roma né di una sua delegazione. Nel rendere protagonista il clero romano, pertanto, Aureliano sembra andare un po’ in controtendenza rispetto alle rappresentanze episcopali partecipanti al sinodo che si era appena concluso, e pare dunque da escludersi che, sulla decisione dell’imperatore di coinvolgere il clero italico e romano, abbia pesato una qualche forma di influenza da parte dei vescovi avversari di Paolo presenti al sinodo di Antiochia. La preferenza di Aureliano per una soluzione italica e romana della questione non esclude e anzi lascia immaginare la possibile influenza sulla sua decisione di eventuali contatti personali con il clero romano, non distante – in termini politici – dalla sua corte e il cui avallo sarebbe stato del tutto coerente con la sua linea tesa «ad assicurare nell’Impero la centralità di Roma»53.
Una trattazione esaustiva dei sinodi preniceni del IV secolo dovrebbe occuparsi sia dei concili di Illiberis (Elvira, oggi Granada, 300 o 306), Arles (314) e Ancira (314) – considerandoli assieme in quanto, affrontando problemi molto simili, essi riprendono l’uno le decisioni dell’altro – sia di quelli che presentano maggiore interesse per comprendere le conseguenze della Grande persecuzione nella vita della Chiesa. In questa sede, fatta eccezione per Arles, si parlerà soltanto di questi ultimi.
Nel cosiddetto sinodo di Cirta in Numidia (303/305), di cui parlano Agostino e Ottato di Milevi54, nove vescovi convenuti devono deliberare sulla dignità del vescovo di Cartagine in pectore, Silvano, sospettato di essere un traditor, cioè di avere ‘tradito’ – etimologicamente, di avere ‘consegnato’ – testi sacri o memorie della religione cristiana alle autorità politiche perché venissero bruciati come prescritto dal primo decreto di persecuzione55. Il sinodo deciderà di consacrare Silvano, già scelto dal popolo per acclamazione. Sebbene si parli della riunione di Cirta come di un ‘concilio’, la partecipazione a essa fu esigua. La stessa sua storicità è messa in dubbio, dal momento che sarà oggetto di disputa tra donatisti e cattolici nel corso della controversia donatista, poiché, essendo Donato originario della Numidia, i cattolici attribuiranno ai donatisti di aver avuto un vescovo traditor56.
Ad Alessandria la Grande persecuzione lascia come strascico lo scisma meliziano, a opera del movimento rigorista al seguito del vescovo Melizio di Licopoli. Durante gli anni della persecuzione Pietro, vescovo della metropoli, si dà alla fuga e Melizio inizia a ordinare propri vescovi e diaconi senza il consenso di alcuni colleghi che si trovavano in carcere, nonché di Pietro, vescovo di Alessandria. Melizio, approfittando dell’assenza di quest’ultimo, da Licopoli si sposta verso Alessandria dove fa nuovi adepti e, anche lui catturato dalle autorità politiche e messo in carcere, rafforza la sua autorevolezza come confessore, intrattenendo forti relazioni con il mondo esterno. Al suo ritorno Pietro convoca nel 306 un sinodo che ne condivide l’avversione a Melizio e dispensa quest’ultimo dalle sue funzioni. La fonte più antica relativa al sinodo di Alessandria è un’annotazione di Atanasio, che parla appunto di «un sinodo comune di vescovi»57, ma per saperne di più (cioè per le accuse mosse a Melizio) bisogna attendere Sozomeno58. Di qui lo scisma meliziano diventa reale e si diffonde dapprima in Egitto, poi in Palestina: si crea così, in opposizione alla Chiesa ‘cattolica’, una ‘Chiesa dei martiri’ destinata a perdurare per diversi secoli con un proprio clero e un proprio monachesimo.
Particolarmente importante è, infine, il concilio tenutosi a Cartagine tra il 309 e il 310 o forse nel 312, di cui si tratterà tra breve e nel quale si confrontano le due fazioni protagoniste degli eventi che, poco dopo, porteranno allo scisma donatista, per la cui soluzione si adopererà Costantino stesso. Il problema dei traditores, già presentatosi in Numidia, a Cirta, pochi anni più tardi esplode anche nell’Africa Proconsularis. Questi nuovi lapsi causano all’interno della Chiesa ‘cattolica’ cartaginese problemi simili a quelli già vissuti ai tempi di Cipriano, ma con una differenza di fondo: prima i martiri incoraggiavano ad assumere un atteggiamento mite nei confronti dei confratelli caduti nell’apostasia, ora invece essi contrastano duramente i traditores59. Il vescovo di Cartagine Mensurio cerca, nel 308, una soluzione al problema per via conciliare, ma muore improvvisamente durante un viaggio di ritorno da Roma. La sua scomparsa aggiunge alla situazione conflittuale creatasi nella comunità ‘cattolica’ cartaginese la questione della scelta del successore di Mensurio al seggio di Cartagine. Tra le varie fazioni presenti (cioè quelle dei vari aspiranti all’episcopato, più i seniores laici60, se in tal caso di ‘fazione’ si può parlare), avrà la meglio quella di Ceciliano – già fidato diacono di Mensurio – e, come reazione, i suoi oppositori chiederanno l’intervento di un vescovo dalla Numidia, con le conseguenze (cfr. infra) che porteranno all’apertura irrimediabile dello scisma donatista.
È possibile notare come, di fronte al problema dei lapsi e dell’autorità carismatica acquisita da certe figure in contesti di persecuzione anticristiana, si tenda sempre a ritenere il concilio la soluzione più affidabile. Altro dato di cui tenere conto è la comprovata tendenza, già incontrata varie volte e in particolare a proposito di Paolo di Samosata, da parte di figure considerate autorevoli a rifiutare le decisioni sinodali che contrastino i loro intenti e le loro posizioni61.
Il ruolo di Costantino nei concili è determinante almeno in tre occasioni: la controversia donatista (309/312-314), il concilio di Nicea (325) e i sinodi di Tiro, Gerusalemme e Costantinopoli (335-336). La controversia donatista concerne il Nordafrica, in cui esplode a cavaliere dei primi due decenni del IV secolo. Le reazioni all’atteggiamento tenuto da certi cristiani in occasione della Grande persecuzione disposta da Diocleziano e dai suoi tre coreggenti a partire dal 23 febbraio 303 – e attuata nel Nordafrica romano qualche mese dopo63 –, in cui era stata ordinata la distruzione dei testi sacri per la religione cristiana e delle memorie della storia cristiana (atti dei martiri, etc.)64, hanno dato luogo a una profonda divisione all’interno della Chiesa di quella regione. La conflittualità maturata in seno alla Chiesa nordafricana, accesa dalla crisi donatista, riguarda la questione dei succitati traditores, cioè di coloro che avevano consegnato testi cristiani alle autorità politiche romane. Nel contesto rigorista della Chiesa nordafricana, i traditores sono percepiti alla stregua dei lapsi – cioè i ‘caduti’ nel peccato d’apostasia – che avevano causato problemi pastorali ed ecclesiologici all’epoca dell’episcopato ciprianeo. Il ruolo dei martiri-confessori nordafricani ora è diverso rispetto a quello dei martiri delle persecuzioni di Decio. Infatti mentre prima, tramite i libelli pacis, essi promuovevano la reintegrazione immediata dei lapsi nella Chiesa, ora sono divenuti i loro più accaniti oppositori. Nel Nordafrica della persecuzione dioclezianea, infatti, molti cristiani sperano di ricevere il perdono di una vita dissoluta tramite il martirio65 e, conseguentemente, si presentano spontaneamente alle autorità politiche dichiarandosi possessori o autori di scritti cristiani per poter ottenere una qualche forma di martirio. Costoro, sopravvissuti alla punizione loro inflitta (che per lo più era pecuniaria), ottengono l’autorità carismatica dei confessori e la usano per screditare come traditores – e dunque lapsi – figure in precedenza autorevoli, come quei vescovi che hanno consegnato scritti di eretici per evitare ai propri fedeli pesanti perquisizioni domestiche da parte dei soldati66. Nascono così, attorno a queste nuove figure di martiri, gruppi rigoristi che non ritengono i traditores in condizione di consacrare vescovi e ordinare presbiteri67. Tra il 309 e il 31168 è consacrato Ceciliano, dall’allora reggente vescovo di Cartagine Felice di Aptungi, un ecclesiastico malvisto non solo dai rigoristi che sospettano sia stato un traditor, ma anche da altri gruppi della Chiesa locale69. Ottato di Milevi attesta che gli oppositori di Ceciliano si sono rivolti al vescovo della Numidia, Secondo di Tigisi, pregandolo di intervenire a Cartagine «ut vitiosa eius ordinatio dicerentur»70. Stando ad Agostino, la decisione presa da un’assemblea di settanta vescovi presieduta da Secondo e riunitasi in un’abitazione privata cartaginese71 – verosimilmente quella della ricca e influente vedova Lucilla – nel 309/310 o nel 31272, come si è accennato, stabilisce l’invalidità della consacrazione di Ceciliano, in quanto impartita da un traditor73, forse per via dell’influenza di gruppi rigoristi cartaginesi proprio su Secondo. Definito Felice traditor, il concilio letteralmente condanna74 Ceciliano e lo espelle assieme ai suoi seguaci dalla ecclesia catholica75, anche per episodi legati al suo atteggiamento sprezzante nei confronti di certi martiri76. Al suo posto, sul seggio di Cartagine viene collocato il lettore Maiorino, domesticus di Lucilla, e, a conclusione dei lavori, è spedita una lettera alle comunità nordafricane i cui capi non erano presenti alla riunione77. Stando a Ottato, la maggior parte delle diocesi nordafricane condivide la decisione dei settanta vescovi, perché coerente con una comune sensibilità ecclesiologica: la posizione che prevale in questa riunione, infatti, è diretta conseguenza di quell’ecclesiologia e di quella teologia sacramentale cartaginesi, già impostesi nel concilio del 254 che aveva confermato la deposizione dei vescovi ispanici Basilide e Marziale ristabiliti sul loro seggio da Stefano di Roma: la validità e l’effettualità di un sacramento dipendono dalla dignità di chi lo amministra, non dal fatto che il sacramento in sé venga somministrato78.
Il caso africano porta la Chiesa a contatto con le autorità politiche nel momento in cui, poco dopo la battaglia di ponte Milvio (28 ottobre 312), Costantino prega il proconsole d’Africa Anullino di far sì che i «beni di proprietà della Chiesa cattolica dei cristiani», requisiti «nelle singole città o anche in altri luoghi» durante la Grande persecuzione, «siano restituiti immediatamente alle medesime Chiese»79. Costantino al momento non era ancora al corrente di una spaccatura nella Chiesa nordafricana80; in ogni caso, nel momento in cui specifica ‘Chiesa cattolica’ e questa a Cartagine è di fatto divisa, si pone il problema del destinatario effettivo dei beni restituiti81. Forse perché consigliato da vescovi avversi a Maiorino – tra cui Ossio di Cordova, come attesta quanto riporta Eusebio82 –, di fatto, poco dopo aver disposto la restituzione dei beni, tra la fine del 312 e la primavera del 313, Costantino sembra già consapevole dello scisma in atto nella Chiesa nordafricana. L’imperatore scrive infatti a Ceciliano invitandolo, oltre che ad accordarsi con il rationalis d’Africa Urso e con il procurator Eraclide per la restituzione delle somme in denaro dovute ai cristiani, a ricorrere al proconsole Anullino o al vicario Patrizio in qualità di «giudici», nel caso «alcuni uomini dalla mente instabile» intendano «distogliere il popolo dalla santissima Chiesa cattolica»83. La presa di posizione di Costantino a favore di Ceciliano è attestata infine da un ultimo documento, risalente alla primavera del 313 e riportato da Eusebio84, in cui l’imperatore comunica ad Anullino l’esenzione dei chierici della «Chiesa cattolica di cui è a capo Ceciliano» dai munera (oneri fiscali e militari). La reazione di Maiorino e dei suoi è immediata: poco dopo Maiorino si reca da Anullino per chiedergli di trasmettere all’imperatore la sua preghiera di prendere posizione. Contestualmente fa recapitare a Costantino due libelli, uno dei quali, sigillato, reca la titolazione libellus ecclesiae catholicae criminum Caeciliani, da cui si può dedurre che, per entrambe le fazioni (quella di Ceciliano e quella di Maiorino), sia decisiva la denominazione di ecclesia catholica. Dell’appello di Maiorino a Costantino tramite Anullino ci informa Agostino, il quale avrà diretto accesso alla relatio che il proconsole d’Africa invia all’imperatore il 15 aprile 313 trasmettendogli la documentazione inerente al problema cartaginese85. Costantino affida il caso a un collegio composto dal vescovo di Roma Milziade e da tre vescovi gallici, Reticio di Autun, Materno di Colonia e Marino di Arles, disponendo la convocazione di altri dieci vescovi per ciascuna delle due parti contendenti86.
In questo caso, Costantino si comporta da iudex87 più che da arbiter88 e, del resto, l’episcopale iudicium89 di Roma pare costituito come tribunale d’appello all’imperatore, al quale si rivolge la parte soccombente di fronte alla decisione presa da Costantino di appoggiare la causa di Ceciliano. In fondo, se si considera anche il rescritto che una precedente stagione storiografica definì impropriamente ‘editto di Milano’, emerge come i due Augusti Costantino e Licinio nel 313 si dicano consapevoli del fatto che i cristiani possiedono locali «in cui era abitudine riunirsi [convenire/συνέρχεσθαι]» e altri «che non appartenevano a qualcuno di loro, ma al ius/δίκαιον [amministrazione del diritto o della giustizia] […] del corpo dei cristiani»; questa seconda tipologia di locali era quella del σύνοδος90. Di qui si ricava che Costantino, contemporaneamente alle vicende che sconvolgono la Chiesa cartaginese, intende i concili come una sorta di tribunale ecclesiastico. Inoltre, con la riforma costantiniana del processo, i giudici operano pressoché esclusivamente nelle forme della cognitio extra ordinem: un procedimento, questo, in cui l’imperatore si fa rappresentare generalmente dai prefetti del pretorio91, che decretano nel suo nome e in sua assenza92. Alla luce di ciò, il fatto che Costantino deleghi la disciplina del nascente scisma nordafricano a certi vescovi indica che sta procedendo come nei casi di cognitio extra ordinem. La sola, importante differenza rispetto alla cognitio extra ordinem tout court è che, in luogo di alti funzionari dello Stato, qui vi è un collegio di vescovi.
In ciò va probabilmente visto il ruolo di Ossio, o comunque di qualcuno che ha persuaso l’imperatore ad abbracciare la causa di Ceciliano e che conosce sufficientemente le prassi ecclesiali per sapere che, per sconfessare la posizione di Maiorino (che di lì a poco sarà denominata donatista93), è sufficiente allontanarla dal contesto cartaginese e farla giudicare secondo i principi di altre ecclesiologie94. Per questa ragione95, in fondo, i partecipanti sono aumentati motu proprio da Milziade di quindici elementi: non a caso tutti vescovi italici96. Va tuttavia sottolineato che Milziade di fatto non esegue le direttive dell’imperatore; del resto la Chiesa non è abituata a risolvere le proprie controversie mediante iudicia, per quanto in tal caso il iudicium segua principi ecclesiologici, non giuridici stricto sensu.
Questo iudicium di Roma si riunisce in una sessione di tre giorni in domum Faustae in Laterano97 o aedes Lateranae, donata da Costantino alla Chiesa di Roma, verosimilmente dal 2 al 4 ottobre 31398. Gli atti non ci sono pervenuti, ma si sa, principalmente da Optat., I 23-24, e Aug., coll. c.Don.99, che gli inviati della pars Maiorini – nel frattempo divenuta pars Donati perché le fonti, dall’autunno del 313, parlano di Donato come successore di Maiorino in quanto capofila della fazione contraria a Ceciliano – che si erano appellati all’imperatore per via di «crimini» commessi da Ceciliano non riescono a provare nulla contro quest’ultimo. Di contro viene accusato Donato in quanto causa dello scisma. Il secondo giorno Donato non si presenta neppure, ma alcuni dei suoi rimangono e in questa sede avanzano, come argomento, la maggiore autorevolezza del sinodo cartaginese che aveva condannato Ceciliano (nel 309/311 o nel 312) perché vi avevano partecipato settanta vescovi, contro i diciannove di Roma100. Il terzo giorno, al momento del voto, i diciannove vescovi dichiarano all’unanimità Ceciliano non colpevole, e colpevole, invece, Donato. Agostino, infine, riferirà che i lavori del sinodo si erano conclusi con la decisione, da parte di Milziade, di lasciare libera scelta ai vescovi della pars Donati, dichiarandosi disponibile ad accoglierne il pentimento101. Probabilmente questa concezione ‘conciliante’ è frutto della rilettura agostiniana del iudicium di Roma, di un centinaio d’anni successiva ma sempre polemica nei confronti dei donatisti e favorevole a Ceciliano. In ogni caso questa descrizione allontana la riunione romana dallo schema dell’azione giudiziaria e forse contiene elementi veritieri. Si parta dalla sola accusa di cui si sappia che i donatisti siano riusciti a formulare nei confronti di Ceciliano, concernente la maggiore autorevolezza dei settanta vescovi di Cartagine. I donatisti, a ben vedere, non distinguono la natura del concilium cartaginese che ha condannato Ceciliano nel 309/311 o nel 312 dal iudicium romano che condanna Donato: li pongono sullo stesso piano e stabiliscono quale dei due sia più autorevole. La dimensione che li unisce è probabilmente di ordine spirituale. Stando sempre ad Agostino, i donatisti definivano il rifiuto da parte di Ceciliano di accettare la decisione dei settanta vescovi il «peccato contro lo Spirito Santo» di cui parla Mt 13,12102. Davanti a ciò e alla maggiore autorevolezza dei settanta vescovi cartaginesi rispetto ai diciannove romani, il vescovo di Ippona si trova in difficoltà: non presenterà alcun controargomento, limitandosi a ribattere che peccato contro lo Spirito Santo in realtà è quello commesso dai donatisti perché, in quanto scismatici, hanno spezzato l’unità della Chiesa – e cita Ef 4,2-3103, un passo che già al concilio di Cartagine del 256 ricorreva nelle Sententiae episcoporum per rimarcare la consapevolezza dei convitati al sinodo di essere uniti nello Spirito Santo104. Questo permette di ravvisare una dimensione pneumatologica anche dietro l’evento di Roma del 313, che non confligge con il fatto che sia stato uno iudicium e che potrebbe aver contribuito alla decisione di Milziade di operare con un collegio più ampio (diciannove vescovi) rispetto a quello indicato da Costantino (quattro vescovi). Nonostante l’impostazione giurisdizionale della riunione, sembra cioè non venire meno la consapevolezza, da parte di chi partecipa al sinodo, di operare nell’unica Chiesa tenuta assieme dall’unità di Spirito.
Al termine di tutto, in ogni caso, Costantino è messo al corrente degli avvenimenti da parte dei tre vescovi gallici che egli aveva affiancato a Milziade e che ora gli fanno visita a Treviri105. Costantino invia una lettera al vicarius Africae Ablabio/Aelafius in cui approva il giudizio dei vescovi riuniti a Roma, dando in questo modo alle decisioni del iudicium non solo ufficialità, ma in un certo senso anche valore legale: l’epistula, infatti, è una delle fonti del diritto d’età imperiale. La prima lettera scritta al vicario d’Africa e soprattutto una seconda epistola indirizzata al vescovo Cresto di Siracusa ci informano sulle obiezioni donatiste alla decisione di Roma, tra le quali pare decisiva la maggiore autorevolezza dei settanta vescovi cartaginesi106, e sulla decisione di riunire un nuovo sinodo ad Arles, convocato da Costantino per il 1° agosto 314. Se si intende il iudicium di Roma del 313, almeno nelle intenzioni iniziali da parte degli avversari di Ceciliano e nella percezione di Costantino, come una sorta di tribunale d’appello, il concilio di Arles può essere paragonato a uno di quei casi eccezionali, previsti dal diritto romano, d’appellabilità del giudizio dell’imperatore107. Dalla lettera a Cresto si sa poi che Costantino fa predisporre per i vescovi i mezzi e i documenti necessari a raggiungere Arles il più rapidamente possibile. Il numero dei partecipanti al concilio è incerto, ma è generalmente ritenuto molto più elevato rispetto al precedente iudicium romano, e il numero di episcopati rappresentati ammonta a quarantaquattro – una cifra che supera di gran lunga quella dei vescovi presenti nell’intera Gallia –, in ogni caso soltanto occidentali108. La presenza dell’imperatore al sinodo non può essere provata; l’unica fonte che sembra sostenerla è Eusebio, che afferma: «Dedicava un’attenzione particolare alla Chiesa di Dio e, se in seno a essa le Chiese delle diverse regioni si trovavano in dissenso tra loro, egli convocava i liturghi di Dio in concilio, come fosse stato designato vescovo comune»109. Eusebio dunque non afferma nulla riguardo ad Arles e probabilmente si riferisce ai sinodi di cui la sua Vita Constantini tratta, cioè Nicea (325) e Tiro (335). Volendo porre fine alla controversia donatista, dato l’esito sostanzialmente fallimentare del iudicium romano per via della prosecuzione dello scisma, l’imperatore è convinto che possa essere trovata la soluzione semplicemente aumentando il numero dei partecipanti, facendoli confluire da molteplici regioni geografiche. Nella lettera a Cresto, infatti, Costantino afferma la necessità di convocare «numerosi vescovi provenienti da moltissimi e diversi luoghi»110. La soluzione adottata dall’imperatore, stando alla lettera scritta da quest’ultimo a Cresto, deriva dalla protesta donatista secondo cui troppo pochi vescovi avevano condotto i lavori in un tempo peraltro eccessivamente ristretto. Di qui Costantino ritiene ragionevole tentare di risolvere lo scisma in atto dando seguito alle richieste della pars Donati.
Il vescovo di Roma – Silvestro (succeduto a Milziade) – è assente, rappresentato da due presbiteri e due diaconi, mentre il sinodo è presieduto verosimilmente dal vescovo Marino di Arles. Del concilio di Arles ci sono pervenuti ventidue canoni (forma d’espressione delle decisioni conciliari attestataci almeno dal sinodo di Elvira del 306), i quali deliberano su questioni disciplinari in gran parte relative alla vita della Chiesa dopo la persecuzione e che non a caso riprendono i canoni di Elvira e ritornano in quelli di un sinodo tenuto, sempre nel 314, ad Ancira111. Assieme ai canoni ci è pervenuta la lettera di alcuni vescovi a Silvestro, in cui si esprime la condanna dei donatisti. Nello specifico, va segnalato il tentativo – dichiarato nel can. 1 – di fissare un’unica data per la celebrazione della Pasqua112. Sebbene il concilio confermi la condanna donatista, il canone 14 condanna i traditores e pertanto si può ravvisare un tentativo da parte del concilio di venire incontro alle esigenze della pars Donati, la quale deve averlo ritenuto comunque insufficiente. La crisi donatista, del resto, non si conclude ad Arles: i donatisti non accetteranno infatti la condanna espressa contro di loro e Costantino si troverà in seguito costretto a intervenire di persona113.
Il concilio di Nicea, riunitosi nella tarda primavera del 325115 in questa città della Bitinia, non lontana dall’allora sede imperiale Nicomedia, è il più ampio tra quelli convocati da Costantino116 e il primo che si rivolge alle Chiese di tutto l’ecumene117, che Costantino controlla come unico Augusto dalla sconfitta di Licinio nel 324 a Adrianopoli. La causa della sua convocazione è chiara soprattutto negli scritti di Atanasio e in quelli degli storici successivi a Eusebio: si tratta della controversia ariana, divampata in Egitto intorno al 320 tra il presbitero alessandrino Ario e il suo vescovo Alessandro, e poi diffusasi nelle province orientali dell’Impero, relativa al problema – innanzitutto di prassi e liturgico, prima ancora che dottrinale118 – dell’assoluta trascendenza di Dio, separato dalla subordinata incarnazione del Verbo. Il numero dei partecipanti trasmesso dalle fonti oscilla tra 250 (Eusebio) e 318 (Ilario di Poitiers)119. Tra questi non vi sono solo vescovi, ma anche presbiteri e diaconi, con funzioni – all’epoca usuali – di assistenza o segreteria. Inoltre Eusebio stesso afferma che «non tutti» i partecipanti «erano ministri di Dio»120; si può ritenere pertanto che vi prendano parte laici non battezzati (come Costantino stesso), forse anche funzionari imperiali. Infatti è noto che Costantino entra accompagnato da suoi «amici fidati», come suggerisce Eusebio121. Probabilmente è Ossio di Cordova122 a presiedere i lavori del concilio, anche se taluni indicano come presidente Eustazio di Antiochia, altri Alessandro di Alessandria, altri ancora Costantino in persona123. Eusebio, unico storico contemporaneo agli eventi di Nicea, non specifica che sia l’imperatore a dare l’avvio ai lavori del concilio: nel giorno stabilito, durante il concilio, nel quale bisognava trovare una soluzione alle controversie [Έπεὶ δ’ ἡμέρας ὁρισθείσης τῇ συνόδῳ, καθ’ ἣν ἐχρῆν λύσιν ἐπιθεῖναι τοῖς ἀμφισβητουμένοις]124, ciascuno dei partecipanti si presentò proprio nella sala centrale del palazzo imperiale […]. Quando l’intero concilio ebbe preso posto, come previsto dal cerimoniale, si creò un generale silenzio nell’attesa dell’ingresso dell’imperatore […]. Dopo essere avanzato verso la prima fila dei seggi, [l’imperatore] si fermò nel mezzo, si mise a sedere su un piccolo seggio d’oro massiccio che gli era stato posto accanto, non prima di aver fatto cenno ai vescovi di fare altrettanto. Tutti quanti, allora, si sedettero insieme all’imperatore. Il vescovo che sedeva alla testa dello schieramento di destra, levatosi in piedi, pronunciò un discorso ben costruito, rivolgendosi all’imperatore e innalzando in suo onore un inno di ringraziamento a Dio onnipotente. Una volta che questi fu seduto […] il sovrano […] con voce calma e benevola pronunciò tale discorso [...]125.
La presidenza del sinodo sembra spettare «al vescovo che sedeva alla testa dello schieramento di destra», e la sottolineatura dell’azione di un vescovo, accanto all’operato di Costantino, costituisce una differenza tra il resoconto di Eusebio e quelli di Sozomeno e Teodoreto126.
Rispetto ai sinodi precedenti, Nicea si distingue (oltre che per la già menzionata ‘ecumenicità’) per la chiara definizione della partecipazione dell’imperatore che, come si vede da questo testo che ne descrive l’ingresso e il seggio d’oro, ha fatto in modo di attribuirsi un determinato ruolo, che imperatori a lui successivi (si pensi a Costanzo II, che interverrà nelle questioni dottrinali della Chiesa stessa) non faranno che accentuare. Il fatto che l’imperatore partecipi al concilio esclude l’assimilazione totale di quest’ultimo a un iudicium o alla cognitio extra ordinem d’epoca costantiniana, in cui i giudici decretano nel nome e in rappresentanza dell’imperatore e questi è assente. La procedura del giorno in cui presenzia l’imperatore ricorda senz’altro quella della convocazione del Senato: Costantino, infatti, dopo che tutti hanno preso posto, pronuncia un discorso127 e poi dà la parola «ai personaggi più rappresentativi del concilio». Egli cioè si comporta come il magistrato che dava avvio ai lavori del Senato tramite una relatio prima di ‘consultarlo’ (senatum consulere)128. A detta di Eusebio, tuttavia, il suo ruolo non si esaurisce qui, dal momento che «l’imperatore ascoltava tutti pazientemente e valutava le diverse tesi con impegno e attenzione»: fatto che, per lo storico di Cesarea, significa che Costantino svolge una δίαιτα, cioè un discernimento, o, più tecnicamente, un arbitrato129. Ma la sua presenza fisica, resa possibile in parte da quella consuetudine tra il sacro e la sovranità invalsa in Oriente e in parte dal fallimento dei precedenti tentativi di portare la pax Dei all’interno della Chiesa ad opera del pontifex Costantino, indica qualcosa di più, perché presenziando al sinodo l’imperatore entra a far parte della quotidianità della vita e della prassi ecclesiale. Sicuramente ciò non è corollario del suo essere pontifex maximus e, in quanto tale, garante della pax deorum: anche i sinodi di Roma (313) e Arles (314), infatti, sono convocati allo scopo di mettere pace all’interno della Chiesa senza comportare la necessaria presenza dell’imperatore durante i loro lavori. La partecipazione personale dell’imperatore al sinodo, inoltre, va collegata al fatto che, per la prima volta con Costantino, un imperatore si definisce ‘vescovo’ (ἐπίσκοπος τῶν ἐκτός) e ciò può far pensare a una qualche forma di coinvolgimento reale e concreto nella vita della Chiesa, benché per Costantino quest’appellativo significhi soprattutto ‘sorvegliante’, ‘responsabile’ delle faccende o di coloro che, rispettivamente, non concernono o non appartengono alla Chiesa130: un coinvolgimento, peraltro, che è siglato dallo stesso Eusebio, il quale interpreta la denominazione che si è attribuito Costantino dandole pure un senso di superiorità rispetto agli ‘altri’ vescovi, nel momento in cui afferma che l’imperatore è ἐπίσκοπος κοινός in quanto convoca i «liturghi di Dio in concilio». Del resto è proprio Eusebio, infine, a raffigurare in modo sacrale l’ingresso di Costantino a Nicea ricorrendo al tema tradizionale dell’isangelia, per così dire cioè dell’uguaglianza agli angeli131.
Il concilio di Nicea decide di varie questioni disciplinari132, che ci vengono trasmesse nella forma di venti canoni; condanna inoltre lo scisma meliziano (come si evince della lettera sinodale inviata alla Chiesa di Alessandria conservata da Atanasio) e la celebrazione della Pasqua secondo la prassi quartodecimana. Tutte queste decisioni, afferma Eusebio, sono in qualche modo «sigillate» dall’imperatore133, il quale, preoccupandosi di renderle note per via epistolare alle Chiese che non avevano inviato rappresentanti al concilio, di fatto attribuisce loro un valore legale, come si è visto. In merito alla controversia ariana la soluzione nicena consiste nella formulazione di un ‘simbolo’ di fede che è la prima definizione dottrinale cristiana134. Le prime fonti sul simbolo risalgono al V secolo. Si tratta di una professione di fede il cui testo di partenza è verosimilmente un formulario battesimale nel quale sono integrate alcune espressioni tipicamente antiariane135: τουτέστιν ἐκ τῆς οὐσίας τοῦ πατρός, θεὸν ἀληθινὸν ἐκ θεοῦ ἀληθινοῦ, γεννηθέντα οὐ ποιηθέντα e soprattutto ὁμοούσιον τῷ πατρί136. La formula battesimale di partenza è probabilmente di provenienza palestinese: forse si tratta di quella adottata nella comunità di Cesarea e proposta a Nicea da Eusebio, ma certi elementi rivelano tratti occidentali e comunque non eusebiani137. Verosimilmente questa grande complessità – e, di fatto, l’impossibilità di ricondurre la redazione con certezza a un unico autore – è il frutto di una forzatura da parte di Costantino affinché si risolvesse rapidamente una questione dottrinale «insignificante e del tutto trascurabile»138, come afferma l’imperatore stesso nella lettera indirizzata ad Alessandro e Ario e riportata da Eusebio. In concreto, la soluzione nicena avrà una fortuna piuttosto effimera, se si pensa che una nuova sessione dovrà riunirsi nel 327 e che la crisi ariana darà luogo a controversie destinate a protrarsi fino al concilio di Calcedonia (451).
L’azione conciliare di Costantino prosegue alcuni anni dopo Nicea all’epoca della condanna di Atanasio, che incrocia lo svolgimento di tre sinodi: Tiro (335), Gerusalemme (335/336) e Costantinopoli (336). Del concilio di Tiro abbiamo innanzitutto la lettera di convocazione139, da cui traspare l’ostilità di Costantino nei confronti di Atanasio, perché l’imperatore minaccia di esilio chi (cioè Atanasio e i suoi) non voglia presenziare140. Le vicende riguardanti questo concilio ci sono note grazie a Sozomeno che avrà accesso agli atti141. Sappiamo che la causa ufficiale della sua convocazione sta nell’accusa, mossa al vescovo di Alessandria Atanasio, di violenza contro i meliziani, gli scismatici alessandrini seguaci di Melizio di Licopoli, celebri per l’atteggiamento rigorista tenuto durante la Grande persecuzione e ai cui vescovi era stata imposta la sottomissione ai vescovi ‘cattolici’ solo nel caso di presenza di questi ultimi nella loro sede episcopale142. Nella sua difesa – in parte convincente, poiché il concilio decide d’interrompersi per alcuni mesi nell’attesa del referto di una spedizione nella Mareotide voluta per verificare le circostanze di un’azione violenta perpetrata dal vescovo alessandrino ai danni del presbitero Ischira – Atanasio rivela l’intenzione di appellarsi all’imperatore, una prassi già sperimentata in Occidente nel corso della crisi donatista143. In questa fase è coinvolto direttamente il prefetto d’Egitto Filagrio144. Alla ripresa dei lavori, il concilio condanna il vescovo alessandrino, che abbandona così di nascosto Tiro145. I vescovi riuniti a Tiro vengono poi invitati dall’imperatore a riunirsi a Gerusalemme, dove egli si trova per inaugurare la basilica del Santo Sepolcro in occasione delle celebrazioni del trentennale del suo regno. Coerentemente con la sua politica nei confronti delle divisioni interne alla Chiesa, l’imperatore esprime il desiderio di porre fine alle contese riabilitando Ario: desiderio accolto dal concilio di Gerusalemme146, che così suscita l’indignazione degli oppositori del presbitero alessandrino. Atanasio – che già al precedente concilio di Tiro aveva promesso che si sarebbe appellato direttamente all’imperatore – ferma di persona Costantino, il quale, terminate le celebrazioni gerosolimitane, si trova in viaggio a cavallo per Costantinopoli. L’alessandrino supplica il sovrano di dargli ascolto in quanto vittima di torti ingiusti e, dopo una cauta esitazione – cautela intensificata dal rifiuto dell’imperatore a interloquire con Atanasio in modo diretto – dovuta alla consapevolezza del rischio di compromettere la propria posizione con quella di un vescovo condannato, Costantino gli concede di ripetere le proprie osservazioni di fronte a lui e ai vescovi che lo avevano condannato a Tiro. Costantino dunque fa loro spedire una lettera di convocazione a Costantinopoli per risolvere la questione, ma secondo le fonti solo pochi vescovi vi si presentano, cioè Eusebio di Nicomedia – capofila della posizione antiatanasiana – e quei vescovi, suoi fidati, che già avevano eseguito la perizia contro Atanasio nella Mareotide durante il concilio di Tiro147. A Costantinopoli l’imperatore confermerà la condanna inflitta dal concilio di Tiro ad Atanasio, probabilmente mosso dalle accuse, sollevate contro il vescovo di Alessandria, di aver affermato che, forte del suo potere, sarebbe stato in grado di bloccare l’approvvigionamento di grano egiziano alla capitale. Come conseguenza Atanasio viene esiliato a Treviri, presso Costantino iunior, figlio dell’imperatore.
La condanna di Atanasio rivela molti aspetti del rapporto di Costantino con i vescovi, a cominciare dal ruolo del vescovo di Alessandria, che, anche se probabilmente non in grado di bloccare realmente gli approvvigionamenti annonari della capitale, non ha comunque difficoltà a fermare di persona l’imperatore a cavallo; oppure si pensi all’equilibrio diplomatico mostrato dall’imperatore nel cercare di non compromettersi con una figura come quella di Atanasio, che già era stato condannato da molti vescovi. Su questi aspetti si sono soffermati altri autori nella presente opera148. In tutta questa vicenda resta ancora degno di interesse, per comprendere come alcuni vescovi intendano il ruolo dell’imperatore nei concili e la sua teologia politica, il modo in cui Eusebio di Cesarea parla del concilio di Tiro nella sua vita Constantini. Il resoconto di Eusebio presenta due tratti peculiari: il parallelo con Nicea (325) e il legame con il concilio di Gerusalemme del 336 (Eusebio parla di Tiro e Gerusalemme come fossero sessioni diverse del medesimo sinodo). Per quanto concerne il primo tratto, la similitudine tra quanto Eusebio dice dei concili, rispettivamente, di Tiro e di Nicea si regge su quattro elementi149: l’accento posto sul momento conviviale precedente le decisioni; l’apertura dei lavori in assenza dell’imperatore; il lessico impiegato per riassumere il ruolo di Costantino; la relazione di entrambi i concili con le celebrazioni, rispettivamente, del ventesimo e del trentesimo anniversario del regno di Costantino150. L’accostamento tra concili e celebrazioni dei decennali del regno costantiniano costituisce a sua volta il secondo tratto peculiare della descrizione del concilio di Tiro offerta da Eusebio. Il vescovo di Cesarea, infatti, legando Tiro agli eventi relativi al concilio di Gerusalemme, non fa che accostare concili e celebrazioni imperiali (a Gerusalemme Costantino dà avvio ai festeggiamenti per il trentennale del suo regno). Le motivazioni di questa operazione vanno ricercate con ogni probabilità nel quadro generale che la Vita Constantini intende rappresentare e possono essere ravvisate nell’incipit stesso dell’opera: non molto tempo fa l’umanità intera celebrava i decennali del grande imperatore […] e ancora non molto tempo fa noi stessi gli abbiamo reso omaggio per le sue vittorie con un discorso in occasione del ventennale, accogliendolo nel sinodo dei ministri di Dio; e di recente, in occasione del trentennale, abbiamo incoronato il suo santo capo proprio nel palazzo imperiale, intrecciando per lui corone di elogi151.
È con questo spirito che Eusebio definirà Costantino, poco oltre, «vescovo comune» (κοινὸς ἐπίσκοπος), la cui funzione principale è quella di convocare «i liturghi di Dio in concilio»152. Diversamente Costantino, come si è detto, se mai si è paragonato a un vescovo tout court, lo ha fatto definendosi «vescovo» – cioè guida, sorvegliante, responsabile – «di coloro» o «delle faccende» che «sono fuori» della Chiesa. Pertanto l’accostamento tra Tiro e Gerusalemme proposto da Eusebio deve essere messo in relazione a questo processo di ‘clericalizzazione’ della figura e del ruolo dell’imperatore, la cui premessa va a sua volta ricercata nella descrizione che lo storico di Cesarea offre dell’ingresso dell’imperatore a Nicea. Ponendosi tra i liturghi di Dio in concilio, anche se di fatto si comporta da arbitro e segue le prassi delle forme assembleari dell’epoca, agli occhi di Eusebio Costantino subordina la dimensione secolare a quella divina, la quale garantisce longevità al suo regno. Infatti, nella narrazione del vescovo di Cesarea, il regno di Costantino deve la durata più che trentennale proprio al fatto che egli è «vescovo comune» nei sinodi. Ma in quanto «vescovo comune» l’imperatore diventa anche il legittimo ‘rappresentante’ di Dio sulla terra, immagine dell’eschaton nel tempo di mezzo e frattanto subordinato ai vescovi, unici veri «liturghi» di Dio.
L’esperienza sinodale, agli inizi del IV secolo, si presenta con tratti comuni a tutte le Chiese e caratteristiche specifiche per ciascuna, a seconda delle regioni. Costantino interagisce dapprima con la pratica sinodale della Chiesa di Roma e soprattutto di quella nordafricana, esercitata di frequente dalle rispettive comunità ecclesiali. I sinodi (o concili, secondo la dicitura latina) presentano elementi che li rendono simili ad altre assemblee civili, come attestano almeno: la possibilità dell’imperatore Aureliano, nella seconda metà del III secolo, di disporre la risoluzione per controversie irrisolte da sinodi; l’appello a Costantino nell’ambito della crisi donatista; la sua consapevolezza del fatto che i concili hanno a che fare con l’‘amministrazione della giustizia’ o del ‘diritto’ all’interno della Chiesa; l’affinità del sinodo con l’arbitrato o l’assemblea del Senato, come attesta la Vita Constantini. Ma oltre a ciò i sinodi sono innanzitutto – in quanto espressione dell’essenziale riunirsi dei fedeli – un momento spirituale e come tale a essi si pensa quale mezzo in grado di arginare gli eccessi, i carismi non ritenuti conformi alla tradizione, le ‘eresie’. Nel III secolo ad Antiochia e a Cartagine la sinodalità comincia a mostrare la sua insufficienza: non riesce a far rispettare ad alcune figure carismatiche le decisioni dei concili, non riesce a riassorbire gli scismi, particolarmente frequenti soprattutto nel corso e a seguito delle varie ondate persecutorie che ridisegnano gli equilibri di forza e autorità interni alle gerarchie delle e tra le singole Chiese; si crea in questo modo lo spazio per l’intervento imperiale. In realtà, la prima occasione per Costantino di intervenire nei concili è accidentale, e dovuta, da parte ecclesiale, a un problema di diritto civile, cioè relativo a chi – a Cartagine – sia il legittimo proprietario dei beni requisiti alla «Chiesa ‘cattolica’» durante la Grande persecuzione e, da parte imperiale, al ruolo di pontifex maximus garante sulla terra della pax deorum. Il primo sinodo che Costantino convoca ha alle spalle il caso di Aureliano (che fa disciplinare al vescovo di Roma la controversia originatasi a seguito della mancata accettazione delle conclusioni del sinodo di Antiochia del 268 da parte di Paolo di Samosata) e la consapevolezza che i sinodi siano una questione di amministrazione del diritto o della giustizia: ne esce l’episcopale iudicium di Roma (313). Non molto diverso, per lo meno quanto al ruolo dell’imperatore, è il sinodo che Costantino convoca ad Arles l’anno successivo, se non per la maggiore durata e il numero più elevato di partecipanti, dovuti alle rimostranze della fazione che aveva sostenuto l’anno prima la mozione che era risultata minoritaria, cioè quella donatista. A Roma e Arles Costantino, oltre che convocare il sinodo e – nel secondo caso – far predisporre i mezzi per raggiungere il luogo in cui esso si riunisce, «sigilla» le decisioni dei sinodi rendendole note per via epistolare.
Il cambiamento più significativo nel modo d’intendere i concili si ha con la partecipazione diretta dell’imperatore a Nicea (325) per tentare di far rientrare la crisi ariana esplosa nelle regioni orientali dell’Impero: partecipazione dovuta un po’ al tentativo precedentemente fallito a Roma e Arles di risolvere lo scisma donatista e un po’ alla più naturale consuetudine tra il sacro e la sovranità in uso in Oriente. Il ruolo che Costantino si attribuisce presenziando e quasi presiedendo il sinodo niceno, la sua partecipazione attiva all’intima vita della Chiesa, approvata ed enfatizzata dai vescovi, sanciscono la sacralizzazione della sua funzione, al prezzo di una forma di ‘sottomissione’ ai vescovi: l’imperatore è legittima immagine del regno di Dio sulla terra, superato alla fine dei tempi solo dalla realizzazione del regno dei cieli, ma è protetto da Dio – che gli garantisce longevità – e conseguentemente sottoposto al primato dei vescovi, i soli «liturghi» divini.
1 Per le fonti principali si vedano: (in generale) Mansi 2, Sancti Cypriani Episcopi epistularium, ed. G.F. Diercks (CCh.SL, 3B/C/D PB), Turnholti 1960-1999; Eusèbe de Césarée, Histoire Ecclésiastique, éd. par E. Schwartz, G. Bardy (SC, 52, 55), Paris 1952-1958; (controversia donatista) Urkunden zur Entstehungsgeschichte des Donatismus, hrsg. von H. von Soden, Bonn 1913; (Nicea 325 e arianesimo) COGD I; H.G. Opitz, Urkunden zur Geschichte des arianischen Streites, Berlin-Leipzig 1934; (Arles 314) Concilia Galliae a. 314-506, ed. Ch. Munier (CCh.SL, 148), Turnholti 1963; Conciles gaulois du IVe siècle, éd. par J. Gaudemet (SC, 241), Paris 1975. Opere di carattere generale: Histoire des conciles d’après les documents origininaux, éd. par C.J. Hefele, H. Leclercq, Paris 1907, I; J. Gaudemet, La formation du droit séculier et du droit de l’église aux IVe et Ve siècles, Paris 1957; Id., L’Église dans l’Empire romain (IVe-Ve siècles), Paris 1958; Ch. Munier, L’Église dans l’Empire romain (IIe-IIIe siècles), Paris 1979, III partie. Église et cité; J. Gaudemet, Église et cité: histoire du droit canonique, Paris 1994; A. Brent, Hippolytus and the Roman Church in the Third Century. Communities in Tension Before the Emergence of a Monarch-Bishop, Leiden-New York-Köln 1995. Per una bibliografia sul tema, aggiornata fino al 1997, si veda J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden von den Anfängen bis zum Vorabend des Nicaenums, Paderborn-München-Wien-Zürich 1997. Si può dire che gli sviluppi storiografici più recenti concernano tre versanti: i ‘sinodi’ del II secolo, su cui si veda V.A. Alikin, The Earliest History of the Christian Gathering. Origin, Development and Content of the Christian Gathering in the First to Third Centuries, Leiden-Boston 2010, e, più direttamente, D. Dainese, Συνέρχομαι – συγκρότησις – σύνοδος. Tre diversi usi della denominazione, in Cristianesimo nella Storia, 31 (2011), pp. 875-943; i concili cartaginesi del III secolo, per cui si veda P. Bernardini, Un solo battesimo una sola chiesa. Il concilio di Cartagine del settembre 256, Bologna 2009; lo studio di alcune caratteristiche dei concili latini a partire dal IV secolo, cfr. A. Weckwerth, Ablauf, Organisation und Selbstverständnis westlicher antiker Synoden im Spiegel ihrer Akten, Münster 2010. Più specifici contributi da segnalare sono poi quelli di M. Simonetti, L’imperatore arbitro delle controversie cristologiche, in Mediterraneo Antico, 5 (2002), pp. 445-459, e A. Camplani, Le trasformazioni del cristianesimo orientale: monoepiscopato e sinodi (II-IV secolo), in Annali di Storia dell’esegesi, 23 (2006), pp. 67-114, che, per quanto di dettaglio, se considerati nel loro insieme formano un’ulteriore sintesi, che si affianca a quella – analitica – di Fischer e Lumpe, della storia conciliare tra II e IV secolo. Altro sguardo d’insieme, sebbene da una prospettiva teologica, è offerto da H.J. Sieben, Die Konzilsidee in der alten Kirche, Paderborn-München-Wien-Zurich 1979. Per la controversia ariana si consideri, come strumento di partenza, il volume di M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975; per successivi aggiornamenti: cfr. Arianism: Historical and Theological Reassessments, ed. by R.C. Cregg, Philadelphia 1985; cfr. R.P.C. Hanson, The Search for the Christian Doctrine of God. The Arian Controversy 318-381, Edinburgh 1988; M. Wiles, Archetypal Heresy: Arianism through the Centuries, New York 1996; J. Behr, The Way to Nicea, Crestwood 2001; H. Pietras, Le ragioni della convocazione del Concilio Niceno da parte di Costantino il Grande, in Gregorianum, 82 (2001), pp. 5-35; J. Behr, The Nicene Faith, II, Crestwood 2004; H. Pietras, Lettera di Costantino alla Chiesa di Alessandria e Lettera del sinodo di Nicea agli Egiziani (325): i falsi sconosciuti da Atanasio?, in Gregorianum, 89 (2008), pp. 727-739. Per aggiornamenti di dettaglio sul contesto alessandrino e nordafricano, infine, si vedano i repertori bibliografici messi a punto dalla rivista Adamantius.
2 Accanto alle riunioni attestate da Eusebio va ricordato anche, in primo luogo, il Contra Noetum (si veda Ippolito, Contro Noeto, a cura di M. Simonetti, Bologna 2000, pp. 70-139), che – a differenza della Storia ecclesiastica di Eusebio – è tuttavia un testo di datazione e paternità problematiche, secondo gli studiosi che in precedenza si sono cimentati sul tema delle riunioni di cui parla Eusebio in h.e. V (cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 88-90); e in secondo luogo quanto riportato dal Libellus Synodicus e dal Praedestinatus, che sono entrambi scritti sicuramente più recenti delle opere di Eusebio.
3 Cfr. Eus., h.e. V 23-26. Sul tema, da ultimo, si veda in quest’opera il saggio di E. Castelli, La Chiesa di Roma prima e dopo Costantino.
4 Eus., h.e. V 23-26.
5 Di cui non si tratterà in questa sede. Si rimanda alle analisi di Fischer (e Lumpe) in Die Synoden, cit., pp. 111-150.
6 A partire soprattutto dall’Africa Proconsolare.
7 Cfr. Tert., bapt. 15. Si veda anche P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., pp. 65-125. Si rammenta che, a Cartagine, anche la tradizione sinodale dell’Asia Minore non aveva mai seguito la consuetudine romana di accogliere gli eretici senza battesimo (cfr. P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., pp. 74-77). Questo è il contesto in cui emergono la centralità di passi scritturistici come Ef 4 (rispetto ad At 8,16; 19,5 e 8,26-38, su cui invece la disciplina della Chiesa di Roma e quella della Chiesa di Alessandria si erano fondate) e la decisione presa nel sinodo di Iconio per cui «chi era stato battezzato da un vescovo cattolico uscito dalla chiesa, volendo rientrare nella chiesa, doveva ricevere di nuovo il battesimo, perché quello precedente non era valido. Mentre prima quel vescovo era vescovo in ecclesia catholica, una volta rotta la comunione e la pace egli osava “sibi potestatem clericae ordinationis adsume[re]”, cioè prendere per sé un potere che non era suo se non all’interno dell’ordo clericorum» (ivi, pp. 76-77).
8 Così in Aug., c. Cresc. III 3 e un. bapt. 13,22. Fonte principale è sempre l’epistolario ciprianeo, cfr. Cypr., epist. 71 e 73.
9 220 per Fischer e Lumpe (cfr. ivi, p. 154). Bernardini è più incerto e fa oscillare la data tra il 220 e il 230 (cfr. P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., pp. 69-74).
10 Non è chiaro chi siano questi ‘eretici’, se gnostici, montanisti, monarchiani, marcioniti (cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., p. 155).
11 Di Privato di Lambesi, infatti, non si sa molto, se non che qualche anno più tardi appoggerà la causa del lassista Fortunato contro Cipriano. Il sinodo inoltre, secondo l’epistola ciprianea, si sarebbe tenuto sotto la presidenza del predecessore di Cipriano, Donato, alla presenza di circa novanta vescovi e verosimilmente a Cartagine. Cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 162-164.
12 Così sulla base di Histoire des conciles, cit., p. 156.
13 Il primo si svolge nel 251, verosimilmente agli inizi di aprile; ne segue uno databile ai giorni successivi la Pasqua del 252; si ritiene invece che il terzo concilio si sia svolto il giorno dopo alla Pasqua del 253; gli studiosi tendono a collocare, poi, un quarto concilio nell’autunno del 254; il 255 vede la convocazione di due concili nel Nordafrica, uno più ristretto in Numidia e uno successivo, più ampio, a Cartagine; analogamente il 256 annovera due sinodi, questa volta entrambi cartaginesi; chiuderebbe infine la serie il concilio di più incerta datazione e comunemente collocato nella primavera del 257, a riguardo del quale va tuttavia premessa molta cautela nell’interpretazione delle fonti (cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 308-323). Per ragguagli tecnici (problemi di datazione, partecipanti, presidenza, fonti) sui quali, in questa sede, non è possibile soffermarsi, si rimanda alle pagine di J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 165-323. Per quanto concerne il concilio del settembre 256, si veda P. Bernardini, Un solo battesimo, cit.
14 Si tratta del secondo concilio romano di cui si ha notizia; l’unico precedente, infatti, fu convocato da Vittore I nel II secolo e rientra tra i sinodi nei quali si discusse della controversia sulla datazione della Pasqua, di cui tratta Eusebio nella Storia ecclesiastica (cfr. Eus., h.e. V 23,5).
15 Cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., p. 166, in partic. nota 5.
16 Cfr. Cypr., epist. 43.
17 Cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 167-168.
18 Convocato per decidere della validità dell’ordinazione presbiterale del cartaginese Vittore, lapsus durante la persecuzione di Decio; si riuniscono 45 vescovi.
19 Relativo alla riammissione di tre lapsi della città proconsolare di Capsa (Nino, Clemenziano e Floro); partecipano 66 vescovi. Questo è il primo concilio di cui ci sia pervenuta la lista completa dei partecipanti.
20 La quale tuttavia non gode, per il momento, di un vero e proprio ‘primato’. Cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 230-232. Ciò non toglie che, con il suo intervento, si possa leggere un tentativo da parte del vescovo di Roma di rivendicare l’autorità di successore di Pietro nel Mediterraneo (così Cypr., epist. 75,17,1; per questa interpretazione, si veda P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., p. 114).
21 La fonte per queste vicende è Cypr., epist. 67.
22 Così in Cypr., epist. 65,4.
23 Cfr. Cypr., epist. 67,3,2; cfr. anche 67,4,4 e 5,1.
24 Cfr. la lettera sinodale inviata dal vescovo di Cartagine Donato al vescovo di Roma sul caso di Privato di Lambesi di cui Cipriano ci informa in epist. 59,10. Negli anni dell’episcopato ciprianeo, invece, si ricorda che Cornelio pretende di essere riconosciuto dai vescovi nordafricani come legittimo vescovo di Roma contro Novaziano (cfr. Cypr., epist. 45,3,1; 48,3,2; 48,4,2).
25 Già nel 250 è attestato uno scambio di opinioni tra Cipriano e la comunità romana, all’epoca senza vescovo, sul carattere universale del problema dei lapsi, cfr. Cypr., epist. 59,14,1 (cfr. anche epist. 19,2,1).
26 Cfr. in quest’opera il contributo di E. Castelli, La Chiesa di Roma prima e dopo Costantino.
27 Così riferisce Novaziano a Cipriano in Cypr., epist. 30,5,2-3.
28 Cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 197-199.
29 Per le fonti e la loro analisi cfr. ivi, pp. 208-212.
30 Cfr. Cypr., epist. 64. Per la discussione si veda J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 194-197.
31 Cfr. Cypr., epist. 74,5,1 e 75,18,1-2. Cfr. P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., p. 115.
32 Preceduto a sua volta di qualche mese da un incontro, in Numidia, di diciotto vescovi, probabilmente turbati dal fatto che Stefano I a Roma non considerasse problematico il battesimo degli eretici.
33 È legittimo supporre che ci siano anche gruppi disposti a ritenere valido il battesimo somministrato da eretici e scismatici, ma il concilio respinge ogni forma di compromesso. Cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., p. 244 nota 104.
34 Di quest’ultimo concilio ci sono giunte le Sententiae episcoporum (registrazione dei pronunciamenti dei vescovi partecipanti), una fonte importante per la storia della sinodalità nell’Occidente latino. Queste Sententiae infatti conservano il punto di vista di ciascun vescovo partecipante e ci consentono di capire come il concilio è stato vissuto (cfr. P. Bernardini, Un solo battesimo, cit.).
35 Cfr. Cypr., epist. 74 e 75, e P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., p. 90; per approfondimenti, cfr. ivi, pp. 113-120.
36 Cfr. P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., pp. 74-75.
37 Le fonti (Cypr., epist. 75) parlano soprattutto di Iconio, mentre di Sinnada non abbiamo che cenni. Cfr. in ogni caso P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., pp. 75-77.
38 Ciò nello specifico permetterebbe di spiegare per quale motivo i sabelliani libici si siano rivolti al vescovo di Roma Dionigi per dirimere una questione sorta con Dionigi di Alessandria, sebbene essa concernesse non il battesimo, bensì temi dottrinali, cristologici (si tratta della cosiddetta controversia dei ‘due Dionigi’, per la cui risoluzione a Roma sembra esserci stata una riunione sinodale, cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 340-350; sul sabellianismo e su tale questione si veda il contributo di E. Castelli, La Chiesa di Roma prima e dopo Costantino, in quest’opera). Al di là dei tentativi non riusciti da parte di Stefano di dare al seggio romano una supremazia nel contesto ecclesiale mediterraneo, infatti, non può essere dimostrato, per questi anni, l’unanime riconoscimento a Roma di una maggiore autorevolezza su altre Chiese, come ad esempio quella di Cartagine. Le vicende relative alla disputa sul battesimo degli eretici, invece, mostrano da un lato la forte divergenza tra l’ecclesiologia cartaginese e quella romana, e dall’altro l’affinità tra quella che si era andata imponendo a Roma e la prassi alessandrina. Se questa ipotesi è legittima, allora Roma sarebbe l’unica sede in grado di poter apparire credibile agli occhi di un vescovo alessandrino e i sabelliani potrebbero avervi fatto appello nel tentativo di perorare la loro causa di fronte a Dionigi di Alessandria (si potrebbe obiettare che Callisto I aveva in precedenza scomunicato Sabellio, ma Fischer e Lumpe sostengono che il fatto che i libici sabelliani fossero al corrente di ciò non sia dimostrabile, cfr. Die Synoden, cit., p. 343).
39 Nel senso che quello dei lapsi è un problema che concerne l’autorevolezza carismatica di taluni a prescindere da una consacrazione o da una qualche forma di approvazione ecclesiastica.
40 Su cui si veda L. Perrone, L’enigma di Paolo di Samosata. Dogma, chiesa e società nella Siria del III secolo: prospettive di un ventennio di studi, in Cristianesimo nella Storia, 33 (1992), pp. 253-327. Di recente, cfr. P. de Navascués, Pablo de Samosata y sus adversarios. Estudio histórico-teológico del cristanismo antioqueno en el s. III., Roma 2004.
41 Eus., h.e. VII 27,2; sul Samosateno, si veda in generale Eus., h.e. VII 27,1-30,19.
42 Cfr. Eus., h.e. VII 30,6-16. Il carattere dispotico è una caratteristica in cui sono stati riconosciuti i tratti polemici della figura dell’‘antivescovo’ (cfr. P. De Navascués, Pablo de Samosata, cit., pp. 29-32).
43 F. Millar, Paul of Samosata, Zenobia and Aurelian: The Church, Local Culture and Political Allegiance in Third-century Syria, in Journal of Roman Studies, 61 (1971), pp. 1-17, in partic. 11.
44 Cfr. Eus., h.e. VII 30.
45 Si consideri però che il paulianesimo proseguirà ancora a lungo.
46 Cfr. A. Camplani, Le trasformazioni, cit., p. 106.
47 G. Barone-Adesi, L’età della ‘Lex Dei’, Napoli 1992, p. 44.
48 Cfr. Eus., h.e. VII 28,1: «Tra costoro, quelli di gran lunga più noti erano Firmiliano, che era vescovo di Cesarea di Cappadocia, i fratelli Gregorio e Atenodoro, pastori della cristianità del Ponto, e inoltre Eleno, della diocesi di Tarso, e Nicomas, di quella di Iconio; e ancora Imeneo, della Chiesa di Gerusalemme, e Teotecno, di quella della vicina Cesarea; inoltre Massimo, che dirigeva anch’egli brillantemente i fratelli di Bostra; e non sarebbe difficile enumerarne moltissimi altri che si erano riuniti nella predetta città con presbiteri e diaconi per il medesimo motivo».
49 Cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., p. 354. Di contro, cfr. H. Grotz, Die Hauptkirchen des Ostens. Von den Anfängen bis zum Konzil von Nikaia (325), Rom 1964, pp. 153-154.
50 Cfr. Eus., h.e. VII 29,3: «Abbiamo scritto e invitato contemporaneamente anche molti vescovi lontani, come i beati Dionigi d’Alessandria e Firmiliano di Cappadocia, a venire per trovare una soluzione a questa letale dottrina. Il primo di costoro inviò una lettera ad Antiochia senza degnare di un saluto il capo dell’errore e senza rivolgersi a lui personalmente, ma a tutta la cristianità […]. Quanto a Firmiliano, è venuto per ben due volte e ha condannato le novità insegnate da quest’uomo».
51 Cfr. supra, alla nota 38.
52 Per la vicenda, le fonti (essenzialmente Cypr., epist. 75), si veda P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., pp. 117-119.
53 Cfr. G. Barone-Adesi, L’età della ‘Lex Dei’, cit., p. 44.
54 Come si dirà più dettagliatamente tra breve (cfr. infra, alla nota 56), sono le fonti a descrivere questa riunione come ‘concilio’. Per quanto concerne le date, l’estratto dagli atti riportato da Agostino (c. Cresc. III 27,30) parla del 4 marzo 303, notizia inaffidabile perché poco prima Agostino aveva collocato l’incontro «post persecutionem» (c. Cresc. III 26,29; la stessa espressione ricorre anche in Optat., I 14) e la persecuzione terminò tra il 304 e il 305. Agostino ne è consapevole e afferma di avere dedotto dagli atti che la data esatta sarebbe stata il 5 marzo 305 (cfr. Aug., coll. c. Don. 3,17,32), ma Diocleziano e Massimiano, in questo momento, non si sono ancora ritirati, come presupporrebbero al contrario gli atti. Ottato d’altra parte parla del 13 maggio (Optat., I 14), senza dire nulla riguardo all’anno; potrebbe trattarsi del 13 maggio del 305, ma se i due imperatori abdicano il 1° maggio è impossibile che il concilio si riunisca in soli tredici giorni. Nell’incertezza delle fonti, Serge Lancel propone di collocare la riunione nel 307 (cfr. S. Lancel, Les débuts du Donatisme: La date du “Protocole de Cirta” et de l’élection épiscopale de Silvanus, in Révue Augustinienne, 25 [1979], pp. 217-229); per Bernhard Kriegbaum, invece, essa si sarebbe tenuta nel 308 (cfr. B. Kriegbaum, Kirche der Traditoren oder Kirche der Märtyrer? Die Vorgeschichte des Donatismus, Innsbruck 1986, pp. 131-135).
55 Indipendentemente dal fatto che spesso, per tutelare la popolazione da invasive perquisizioni domiciliari, i capi delle comunità consegnassero opere e scritti dal contenuto certamente liturgico, biblico o spirituale cristiano, ma di autori ritenuti eretici.
56 I nominativi dei partecipanti riferiti dalla fonte più antica, cioè Ottato di Milevi, di cui vengono esaminati i casi specifici sono: Secondo di Tigisi, Donato di Mascula, Marino di Aquae Tibilitanae, Donato di Calama, Vittore di Russicade, Purpurio di Liniata. Partecipano anche Felice di Rotaria, Nabore di Centurionis e Vittore di Garbe, ma in quanto convocati per consiglio. In coll. c. Don. 3,17,32 si legge la menzione di «undecim vel duodecim episcopos», nel succitato estratto conservato da c. Cresc. III 27,30 ne sono nominati dieci, per Fischer e Lumpe si deve supporre presente anche il suddiacono Silvano poi consacrato vescovo (cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., p. 395), e Ottato aggiunge ancora un vescovo, Menalio (396). Che si tratti di un concilio è invece Agostino ad affermarlo, in c. Cresc. III 26,29 («concilium cum paucissimis quidem factum»), e del resto già Ottato allude a un concilio di Numidia (Optat., I 19). Altrove Agostino tuttavia sembra correggersi: «si tamen concilium dicendum est, in quo vix undecim vel duodecim episcopi fuerunt» (Aug., Contra partem Donati post gesta 15,19).
57 Cfr. Ath., apol. sec. 59.
58 Cfr. Soz., h.e. I 15,2. In ogni caso, Melizio non fu accusato di eresia, come attesta Epiph., haer. 68,1,1; 1,4; 3,9.
59 Per maggiori informazioni si veda il paragrafo dedicato alla controversia donatista.
60 I seniores laici erano i più anziani della comunità, della quale fungevano da rappresentanti all’interno della Chiesa locale. Nella seconda metà del III secolo erano tendenzialmente in opposizione ai vescovi locali e pertanto si è ipotizzato che, a Cartagine, fossero contro la consacrazione di Ceciliano (413-414).
61 In questo caso, gli oppositori di Ceciliano si rivolgono al vescovo di un’altra provincia del Nordafrica, non a Roma o ad Alessandria, né tantomeno – per il momento – all’autorità politica. L’unico dato che se ne può ricavare è, come sostengono Fischer e Lumpe, la constatazione che il vescovo di Cartagine godesse di autorevolezza nei confronti non solo dei vescovi dell’Africa proconsolare, ma anche di quelli di tutto il Nordafrica (cfr. Die Synoden, cit., p. 414).
62 Con il termine ‘sinodalità’ si intende alludere a una tradizione di studi iniziata con la storia dei concili e che, in Italia, ha trovato in Giuseppe Alberigo e nella sua scuola uno dei più rappresentativi capisaldi. Si vedano i saggi editi nel volume Synod and Synodality. Theology, History and Ecumenism in New Contact, International Colloquium (Bruges 2003), ed. by A. Melloni, S. Scatena, Münster 2005, e gli articoli di G. Ruggieri, I sinodi tra storia e teologia, in Cristianesimo nella Storia, 27 (2006), pp. 365-392, e di G. Alberigo, Sinodo come liturgia?, in Cristianesimo nella Storia, 28 (2007), pp. 1-40. Sui concili da trattare ‘parallelamente’ ad Arles (314) e che non rientrano tra quelli che consentono di comprendere la peculiarità della ‘sinodalità costantiniana’ si vedano: Die Synoden auf der Iberischen Halbinsel bis zum Einbruch des Islam (711), hrsg. von D. Ramos Lisson, J. Orlandis, Paderborn-München-Wien-Zürich 1981, pp. 3-30 e Die Synoden, cit., pp. 453-488.
63 Cfr. B. Kriegbaum, Traditoren oder Märtyrer?, cit., p. 59.
64 Eus., h.e. VIII 2,4; Eus., m.P. Praefatio; Lact., mort. pers. 12-13.
65 Così nella ricostruzione di Fischer e Lumpe (cfr. Die Synoden, cit., p. 411).
66 È stato dapprima Kriegbaum a notare che i confessori di questa ondata persecutoria, per la prima volta, scomunicano i lapsi (Traditoren oder Märtyrer?, cit., p. 71). Successivamente Glen W. Bowersock (G.W. Bowersock, Martyrdom and Rome, Cambridge 1995), studiando lo scisma donatista, ha sostenuto che il martirio cristiano si appropria delle figure del protagonismo tardoantico facendone una questione di leadership tra gruppi cristiani. A tal proposito, in questa sede si segnala che Marco Rizzi ha proposto di retrodatare la situazione delineata da Bowersock all’ondata persecutoria registrabile ad Alessandria d’Egitto all’inizio del III secolo (M. Rizzi, Martirio cristiano e protagonismo civico: rileggendo Martyrdom & Rome di G. W. Bowersock, in Modelli eroici dall’antichità alla cultura europea, atti del convegno (Bergamo 20-22 novembre 2001), Roma 2003, pp. 317-340 e Id., Il martirio come pragmatica sociale in Clemente Alessandrino, in Adamantius, 9 (2003), pp. 60-66; per la discussione sulle persecuzioni alessandrine cfr. D. Dainese, Passibilità divina. La dottrina dell’anima in Clemente Alessandrino, Roma 2012, paragrafo III.5.
67 Cfr. B. Kriegbaum, Traditoren oder Märtyrer?, cit., pp. 44-58.
68 Per il 309 propendono Fischer e Lumpe (cfr. Die Synoden, cit., p. 412), mentre B. Kriegbaum, Traditoren oder Märtyrer?, cit., p. 99, opta per il 311.
69 Cfr. B. Kriegbaum, Traditoren oder Märtyrer?, cit., pp. 101 e 127-129.
70 Cfr. Optat., I 19.
71 Per Histoire des conciles, cit., p. 268, e, più recentemente, H.C. Brennecke, Bischofsversammlung und Reichssynode. Das Synodalwesen im Umbruch der konstantinischen Zeit, in Einheit der Kirche in vorkonstantinischer Zeit, hrsg. von F. von Lilienfeld, A.M. Ritter, Erlangen 1989, pp. 35-53, in partic. 45, si tratta del 312, mentre Kriegbaum (B. Kriegbaum, Traditoren oder Märtyrer?, cit., pp. 106 e 149) retrodata il concilio al 309/310.
72 Così in Aug., epist. 43,1-2; 141,6; c. Cresc. IV 7,9.
73 Così B. Kriegbaum, Traditoren oder Märtyrer?, cit., p. 101.
74 Agostino parla di damnatio[nem] Caeciliani in Aug., un. eccl. 18,46.
75 Cfr. B. Kriegbaum, Traditoren oder Märtyrer?, cit., p. 111 note 53-54.
76 Fu ritenuto colpevole anche per aver impedito una cura soddisfacente dei martiri in prigione. Cfr. Aug., coll. c. Don. 3,14,26: «Recitatum est a Donatistis concilium ferme septuaginta episcoporum contra Caecilianum apud Carthaginem factum, ubi eum absentem damnaverunt, quod ad eos venire noluerit tamquam a traditoribus ordinatus, et quia, cum esset diaconus, victum afferri martyribus in custodia constitutis prohibuisse dicebatur».
77 Cfr. Optat., I 20, e Ps. Aug., c. Fulg. 5.
78 Si pensi, ad esempio, a Cypr., epist. 73,4, solo per citare un passo di particolare rilievo per la storia conciliare (cfr. P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., pp. 97-106): «Considerare itaque debemus fidem eorum qui foris credunt, an secundum eandem fidem possint aliquid gratiae consequi. Nam si fides una est nobis et haereticis, potest esse et gratia una. Si eundem patrem, eundem filium, eundem spiritum sanctum, eandem ecclesiam confitentur nobiscum Patripassiani, Anthropiani, Valentiniani, Appelletiani, Ophitae, Marcionitae et ceterae hereticorum pestes et gladii ac venena subvertendae veritatis, potest illic et baptisma unum esse, si est et fides una». Cfr. anche J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 423-424.
79 Il documento è riportato, in traduzione greca, da Eus., h.e. X 5,15-17.
80 Così J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., p. 426.
81 Sull’importanza storica di questa specificazione («Chiesa cattolica»), si veda A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2002, p. 99.
82 Cfr. Eus., h.e. X 6, in partic. 6,2.
83 Cfr. Eus., h.e. X 6,4.
84 Cfr. Eus., h.e. X 7,1-2.
85 Cfr. Aug., epist. 88,2.
86 Non si sa con certezza se la presenza dei vescovi gallici sia dovuta alla richiesta della fazione di Maiorino, il quale esigeva che l’imperatore intraprendesse contro Ceciliano un’azione giudiziaria che avesse, come giudici, vescovi gallici in quanto sicuramente non traditores perché la persecuzione non era giunta in Gallia –, oppure alla loro vicinanza all’imperatore, che al momento si trovava in quella regione. Tutto dipende da un documento tramandato da Ottato di Milevi (I 22), sulla cui autenticità la storiografia non è concorde. Cfr. il dibattito ricostruito in J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 448-452.
87 Come sostiene Girardet (K.M. Girardet, Das Reichskonzil, cit., p. 106).
88 Come Simonetti intende il ruolo dell’imperatore nei concili da Nicea in avanti. Per quanto concerne la controversia donatista (cfr. M. Simonetti, L’imperatore arbitro, cit., p. 451), Simonetti si rifà alle posizioni di J.-R. Palanque, L’affaire donatiste, in Histoire de l’Église depuis les origines jusqu’a nos jours, III, De la paix constantinienne à la mort de Théodose, éd. par A. Fliche, V. Martin, Paris 1950, pp. 41-52. Recentemente ha ripreso in mano la questione Andreas Weckwerth, che parla, per lo iudicium romano del 313, di «Schiedsgericht» (commissione di arbitrato), rifacendosi tuttavia a J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., studio che appoggia l’interpretazione di Girardet (cfr. A. Weckwerth, Westliche antike Synoden, cit., p. 179, in partic. nota 79), il quale, pur considerandolo tecnicamente sinodo, parla appunto di «Bischofsgericht», cioè tribunale episcopale, ossia episcopale iudicium.
89 Cfr. per esempio Aug., epist. 88,3, c. Cresc. IV 7,9, coll. c. Don. 3,24; 3,37.
90 Cfr. Eus., h.e. X 5,11. Il testo latino riportato da Lattanzio (mort. pers. 48,9) reca il sostantivo conventiculum.
91 Su ciò è ancora attuale V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, Napoli 20037, p. 323: «l’imperatore non avoca più a sé medesimo la giurisdizione, ma la considera come funzione spettante agli alti funzionari dello Stato in quanto tali [...]. Mentre questi funzionari giudicano per loro propria competenza, quella di appello resta teoricamente riservata all’imperatore, ma esercitata in realtà, per delegazione permanente (vice sacra) dai prefetti del pretorio e dai sostituti». Si veda in quest’opera il contributo di V. Aiello, Costantino e i vescovi di Roma.
92 Già Costanzo Cloro prima di lui, secondo D. Mendels, The Media Revolution of Early Christianity. An Essay on Eusebius’s Ecclesiastical History, Grand Rapids-Cambridge 1999, pp. 236-237.
93 Dal nome del successore di Maiorino, Donato, per la cui identificazione si rimanda a J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 431-433.
94 Per la stessa ragione i donatisti non presentano alcun testimone e Donato non si presenta più, il secondo giorno del ‘sinodo’ (Aug., epist. 43,5,15: «Promisit […] Donatus, quod eos [= testes] esset exhibiturus. Quod cum non semel, sed saepius promisisset, amplius ad illum iudicium accedere noluit»). Donato cioè non verrebbe abbandonato, bensì questo comportamento andrebbe interpretato come tentativo di spostare il iudicium a Cartagine, dove i donatisti avrebbero certamente vinto. Cfr. E.L. Grasmück, Coercitio: Staat und Kirche im Donatistenstreit, Bonn 1964, p. 43, e B. Kriegbaum, Ein neuer Lösungsversuch für ein altes Problem: Die sogenannten preces der Donatisten (Opt. I. 22), in Studia Patristica, 22 (1989), pp. 277-282, in partic. 280.
95 Come già hanno sostenuto, pur con sfumature e fini differenti, Gerwin Roethe (G. Roethe, Zur Geschichte der römischen Synoden im 3. und 4. Jahrhundert, Stuttgart 1937, p. 64), Ernst L. Grasmück (E.L. Grasmück, Coercitio, pp. 47-48) e Klaus M. Girardet (K.M. Girardet, Kaisergericht und Bischofsgericht: Studien zu den Anfängen des Donatistenstreites und zum Prozeß des Athanasius von Alexandrien, Bonn 1975, in partic. 29).
96 Cfr. Optat., I 23, e, per una correzione delle sedi episcopali menzionate da Ottato, J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 434-435.
97 Ibidem.
98 Per le fonti e la relativa discussione sulla durata si veda ivi, pp. 438-439.
99 Si tenga comunque presente che tutte le fonti sulla controversia donatista sono raccolte in Urkunden zur Entstehungsgeschichte des Donatismus, hrsg. von H. von Soden, Bonn 1913.
100 Cfr. anche Eus., h.e. X 5,22. Si tornerà tra breve su questo argomento.
101 Cfr. Aug., epist. 43,5,16.
102 Aug., c. Cresc. IV 8,10: «Quod autem obicis Caeciliano peccatum illud inexpiabile in Spiritum Sanctum, de quo dominus ait: “non remittetur neque hic neque in futuro saeculo” [Mt 13,12]».
103 Aug., c. Cresc. IV 8,10: «In Spiritu Sancto servatur unitas dilectionis et pacis, dicente Apostolo: “sustinentes invicem in dilectione, studentes servare unitatem Spiritus in vinculo pacis” [Ef 4,2-3], quam profecto violat qui schisma committit».
104 P. Bernardini, Un solo battesimo, cit., p. 177.
105 Cfr. Optat., app. 3,204-206.
106 Altri argomenti sono l’eccessiva rapidità della decisione e, come già accennato, la necessità di processare un vescovo africano in Africa (per ragioni ecclesiologiche; cfr. G. Roethe, Zur Geschichte, cit., p. 72, in partic. le note 73 e 74).
107 Cfr. M. Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, München 1966, p. 395, nota 30. In ogni caso gli elementi processuali del concilio di Arles sono stati già ampiamente studiati dalla critica. Per la concezione giurisdizionale che Costantino avrebbero elaborato del concilio di Arles si vedano: E.L. Grasmück, Coercitio, cit., p. 34; S. Calderone, Costantino e il cattolicesimo, Firenze 1962, pp. 262-267 (che tende a distinguere l’episcopale iudicium del 313 dal concilium arelatense del 314); J.A. Straub, Kaiser Konstantin als ΕΠΙΣΚΟΠΟΣ ΤΩΝ ΕΚΤΩΣ, in Studia Patristica, 1 (1957), pp. 678-695; e K.M. Girardet, Appellatio. Ein Kapitel kirchlicher Rechtsgeschichte in den Kanones des vierten Jahrhunderts, in Historia, 23 (1974), pp. 98-127, in partic. 112.
108 Cfr. Conciles Gaulois du IVe siècle, éd. par J. Gaudemet, Paris 1977, p. 36.
109 Eus., v.C. I 44,1.
110 Cfr. Eus., h.e. X 5,23.
111 Cfr. J.A. Fischer, A. Lumpe, Die Synoden, cit., pp. 461-462.
112 Un ultimo concilio tenutosi nel Nordafrica in epoca costantiniana è quello convocato da Donato a Cartagine nel 336, di cui Agostino parla in epist. 93, ma esso esula dalla presente trattazione, perché più interno alla controversia donatista che alla comprensione della ‘sinodalità costantiniana’.
113 Si veda il contributo di M. Perrin, Costantino e i donatisti, in quest’opera.
114 In merito al tema di questo paragrafo si veda anche, in quest’opera, il contributo di M. Simonetti, Il concilio ecumenico.
115 Per la data esatta e i problemi relativi cfr. E. Schwartz, Urkunden zum arianischen Streit, in Nachrichten der Gesellschaft der Wissenschaften in Göttingen – Philologisch-Historische Klasse, 6 (1904), pp. 391-401, in partic. 395-398.
116 Cfr. Eus., v.C. I 44,1. Cfr. V. Grumel, Le siège de Rome et le Concile de Nicée, convocation et présidence, in Echos d’Orient, 24 (1925), pp. 411-423; T.D. Barnes, Constantine, Athanasius and the Christian Church, in Constantine. History, Historiography and Legend, ed. by S.N.C. Lieu, D. Montserrat, London-New York 1998, pp. 7-20; e H. Pietras, Le ragioni, cit., pp. 5-9. Su questo passo si veda D. Dainese, Συνέρχομαι – συγκρότησις – σύνοδος, cit., p. 929, nota 138. Per altri riferimenti bibliografici si veda COGD I, p. 4 nota 5.
117 Sul titolo di ‘concilio ecumenico’, cfr. H. Chadwick, The Origin of the Title “Oecumenical Council”, in Journal of Theological Studies, 23 (1972), pp. 132-135.
118 Si vedano le osservazioni di G.L. Dossetti, Il simbolo di Nicea e di Costantinopoli. Edizione critica, Roma-Freiburg-Basel-Bercelona-Wien 1967, pp. 18-19.
119 Eustazio di Antiochia parla di duecentosettanta partecipanti, secondo Atanasio e Gelasio essi sarebbero circa trecento. Per la natura simbolica oltre che iperbolica di queste cifre si vedano J. Rivière, Trois cent dix-huit. Un cas de symbolisme arithmétique chez S. Ambroise, in Recherches de théologie ancienne et médiévale, 6 (1934), pp. 361-367, e E. Honigmann, La liste originale des Pères de Nicée, in Byzantion, 11 (1934), pp. 429-449; 12 (1937), pp. 323-347; 14 (1939), pp. 17-76; 16 (1942/1943), pp. 20-28; 20 (1959), pp. 63-71, cfr. anche H. Pietras, Lettera di Costantino, cit., p. 730.
120 Cfr. Eus., v.C. III 8.
121 Eus., v.C. III 10,2.
122 G.S.M. Walker, Ossius of Cordova and the Nicene Faith, in Studia Patristica, 9 (1966), pp. 316-320. Sul ruolo di Ossio si veda in quest’opera il contributo di V. Aiello, Ossio e la politica religiosa di Costantino.
123 Cfr. K.M. Girardet, Die Teilnahme Kaiser Konstantins am Konzil von Nicaea (325) in byzantinischen Quellen, in Annuarium Historiae Conciliorum, 33 (2001), pp. 241-284, e Id., Der Vorsitzende des Konzils von Nicaea (325) – Kaiser Konstantin der Grosse, in Klassisches Altertum, Spätantike und fruühes Christentum, hrsg. von K. Dietz, D. Henning, H. Kaletsch, Würzburg 1993, pp. 331-360; Ch. Pietri, Lo sviluppo del dibattito teologico e le controversie nell’età di Costantino: Ario e il concilio di Nicea, in La nascita di una cristianità (250-430), a cura di Ch. Pietri, L. Pietri, A. Di Berardino, Roma 2000, pp. 243-280, in partic. 256-266.
124 Anche per Friedhelm Winkelmann – editore della v.C. – questa frase indica che l’ingresso di Costantino non coincide con l’apertura del sinodo («ist wohl nicht die Εröffnungssitzung gemeint»). Cfr. F. Winkelmann, Über das Leben des Kaisers Konstantin, Berlin 1975 (GCS. Eusebius Werke, 1.1), p. 85.
125 Eus., v.C. III 10-11. Per un’analisi dettagliata di questo testo cfr. D. Dainese, Costantino a Nicea. Tra realtà e rappresentazione letteraria, in corso di stampa.
126 Autori presso i quali l’imperatore ha un ruolo ancor più centrale che in Eusebio, e nei quali pare sia stata la sua presenza a dare addirittura inizio ai lavori. Ma Sozomeno e Teodoreto, storici del V secolo, sono influenzati da un contesto in cui la crisi ariana è a uno stadio più avanzato rispetto a quello in cui scrive Eusebio. Su questo si veda D. Dainese, Costantino a Nicea, cit. (per il mutare della percezione del sinodo tra Nicea ed Efeso cfr. R.E. Person, The Mode of Theological Decision Making at the Early Ecumenical Councils. An Inquiry into the Function of Scripture and Tradition at the Councils of Nicaea and Ephesus, Basel 1978, pp. 218-219). Cfr. Soz., h.e. I 19,1-2 (ἐπεὶ δὲ εἰς ταὐτὸ παρεγένετο τοῖς ἱερεῦσι, διαβὰς πρὸς τὴν ἀρχὴν τοῦ συλλόγου ἐπὶ θρόνου τινὸς ἐκάθισεν, ὅσπερ αὐτῷ κατεσκεύαστο· καὶ ἡ σύνοδος καθῆσθαι ἐκελεύσθη) e Thdt., h.e. I 7,31,18-I 7,32,3 (Συνεληλυθότων δὲ πάντων, οἶκον μέγιστον ἐν τοῖς βασιλείοις ηὐτρέπισεν βασιλεύς, βάθρα καὶ θρόνους ὅτι μάλιστα πλείστους ἐν τούτῳ τεθῆναι κελεύσας τῷ τῶν ἀρχιερέων ἀποχρώντως συλλόγῳ. οὕτω τὸ πρέπον αὐτοῖς εὐτρεπίσας γέρας, εἰσελθεῖν τε ἐπέτρεψε καὶ περὶ τῶν προκειμένων βουλεύσασθαι. εἰσελήλυθε δὲ καὶ αὐτὸς ἔσχατος σὺν ὀλίγοις, ἀξιέπαινον μὲν ἔχων τὸ μέγεθος, ἀξιάγαστον δὲ τὴν ὥραν, θαυμασιωτέραν δὲ τὴν τοῖς μετώποις ἐπικαθημένην αἰδῶ. θρόνου δὲ σμικροῦ τεθέντος ἐν μέσῳ κεκάθικεν, ἐπιτρέψαι τοῦτο τοὺς ἐπισκόπους αἰτήσας· σὺν αὐτῷ δὲ καὶ ἅπας ὁ θεῖος ἐκεῖνος ἐκαθέσθη χορός).
127 Riportato da Eusebio in v.C. III 12.
128 Su questi temi si veda in quest’opera il contributo di R. Lizzi Testa, Costantino e il Senato romano.
129 Eus., v.C. III 23,1. Per il termine δίαιτα si veda L&S, p. 396.
130 La letteratura su questo tema è sconfinata: si vedano almeno J.A. Straub, Kaiser Konstantin, cit.; S. Calderone, Letteratura costantiniana e «conversione» di Costantino, in Costantino il Grande dall’antichità all’umanesimo, Colloquio sul cristianesimo nel mondo antico (Macerata, 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, II, Macerata 1993, pp. 231-252, in partic. 248; F.P. Rizzo, Dalla christianitas eusebiana alla antipaganitas orosiana, in Costantino il Grande dall’antichità all’umanesimo, cit., pp. 843-844; G. Fowden, Empire to Commonwealth: Consequences of Monotheism in Late Antiquity, Princeton 1994, pp. 91-93; G. Dagron, Empereur et prêtre: Étude sur le “césaropapisme” byzantin, Paris 1996, p. 147.
131 Si veda D. Dainese, Costantino a Nicea, cit.
132 Relative a: clero (cann. 1-3; 17-18), consacrazione dei vescovi ed episcopati di Alessandria Antiochia e Roma (cann. 4, 6), necessità di riunire concili periodicamente e loro competenze (cann. 5, 7), impossibilità di trasferire vescovi (cann. 15-16), apostasia di catari e novazianisti durante il regno di Licinio (cann. 8-12), seguaci di Paolo di Samosata (can. 19), comportamento dei fedeli (can.. 13-14; 20).
133 Cfr. Eus., v.C. III 23 e IV 27,2.
134 Cfr. G.L. Dossetti, Il simbolo di Nicea, cit. Per un aggiornamento critico cfr. G. Alberigo, Concilium Nicaenum I, cit., p. 8 nota 19, cui si deve aggiungere la menzione del più recente H. Pietras, Lettera di Costantino, cit.
135 Cfr. W.A. Bienert, Das vornicaenische omousios als Ausdruck der Rechtgläubigkeit, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, 90 (1979), pp. 5-29. Altrettanto antiariani sono i cinque anatemi che alcuni manoscritti accludono assieme al simbolo.
136 Cfr. COGD I, p. 8, in partic. nota 22.
137 Cfr. J.N.D. Kelly, I simboli di fede, cit., pp. 203-260.
138 Eus., v.C. II 68,3. Cfr. H. Pietras, Le ragioni, cit., p. 34.
139 Conservata da Eus., v.C. IV 42 e tramandata anche da Teodoreto (h.e. I 29) e Gelasio (h.e. III 17).
140 Cfr. Eus., v.C. IV 42,4.
141 Cfr. Soz., h.e. II 17,21-31.
142 Cfr. Socr., h.e. I 9. Il passo è in ogni caso controverso. Cfr. H. Pietras, Lettera di Costantino, cit.
143 Cfr. Ath., apol. sec. 79.
144 Ath., apol. sec. 75-76.
145 Ath., apol. sec. 82 e P. Peeters, L’épilogue du synode de Tyr en 335, in Analecta Bollandiana, 63 (1945), pp. 131-144.
146 Cfr. Ath., syn. 21; Ath., apol. sec. 84; Socr., h.e. I 33; e Thdt., h.e. I 31.
147 Cfr. Socr., h.e. I 36 e Soz., h.e. II 33. Secondo Annick Martin costoro non avrebbero nemmeno ricevuto la lettera di convocazione, ma si sarebbero recati a Costantinopoli immediatamente dopo Gerusalemme allo scopo di informare l’imperatore delle decisioni del concilio di Tiro (cfr. A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Egypte au IVe siècle (328-373), Rome 1996, pp. 379-387). Va rilevato che, in tal caso, andrebbe negata ogni relazione tra Tiro (335) e Gerusalemme (335/336), e dunque l’attendibilità del resoconto di Eusebio di Cesarea. Per un’interpretazione diversa da quella di Martin, cfr. T.D. Barnes, Athanasius and Constantine, cit., pp. 24-25.
148 Cfr. in quest’opera il contributo di A. Camplani e, per uno sguardo d’insieme, quello di R. Teja.
149 Per una spiegazione dettagliata si rimanda a D. Dainese, Costantino a Nicea, cit.
150 Per Nicea si veda Eus., v.C. I 1 e III 14-16; per Tiro, cfr. Eus., v.C. IV 47.
151 Eus., v.C. I 1.
152 Eus., v.C. I 44,1. Per il rapporto tra v.C. I 1 e I 44 cfr. D. Dainese, Costantino a Nicea, cit.