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concetto

Enciclopedia Dantesca (1970)
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concetto


. In poesia, tranne un'occorrenza, è esclusivo del Paradiso, in prosa, del Convivio. Significa comunemente " cosa concepita dalla mente ", quindi " pensiero ". In D. il c. è considerato come ‛ contenuto di pensiero ' in rapporto alla lingua quale mezzo necessario a esprimerlo: in Cv I V 12 lo sermone... è ordinato a manifestare lo concetto umano (cfr. VE II I 8 cum loquela non aliter sit necessarium instrumentum nostrae conceptionis; e I III 2, II 3, V 2) e X 12, XII 13; cfr. III IV 3. Sempre in relazione al linguaggio inadeguato a esprimere, in lf XXXII 4 S'ïo avessi le rime aspre e chiocce / ... io premerei di mio concetto il suco, e nel Paradiso, dove D. accentua la distanza tra c. e lingua: XXII 33, XXIV 60, XXXIII 122 Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! Così in XIX 12 udi' parlar lo rostro, / e sonar ne la voce e " io " e " mio ", / quand'era nel concetto e ‛ noi ' e ‛ nostro ', D. pone in contrasto la pluralità delle fonti di pensiero (cioè le anime) e l'unicità dell'espressione, ribadendolo - nel paragone dei vv. 19-21 - con l'analogo rapporto tra pluralità delle fonti di calore (v.) e unicità della sensazione (cfr. Tommaso Sum. theol. I 85 5c, che parafrasa Arist. Peri herm. I 16a 3-4 " voces significant conceptiones intellectus ", e Alb. Magno Periherm. I II 1); bene spiega Benvenuto: " idest, loqui in singulari... loquela pluralis... in conceptione mentali interiore. Et per hoc innuit autor quod unum est, sed loquebatur in persona omnium animarum ".

Per indicare la ‛ capacità di comprendere ' degli uomini, sproporzionata alle visioni paradisiache, in Pd XXXIII 68 O somma luce che tanto ti levi / da' concetti mortali... / fa la lingua mia tanto possente, e XXIX 132, sempre in relazione all'impossibilità di esprimerle adeguatamente. In XV 41 indica il " pensiero " di Cacciaguida che, troppo alto, al segno d'i mortal si soprapuose. A un significato tecnico va ricondotto il passo di Pd XXIX 81, ove degli angeli è detto: però non hanno vedere interciso / da novo obietto, e però non bisogna / rememorar per concetto diviso.

Gli angeli, cioè, sostanze separate ed eterne, non cessano mai d'intendere in quanto il loro esse coincide con l'intelligere (cfr. Mn I III 7, dove inoltre è spiegato che l'intelligere delle sostanze separate est sine interpolatione [cioè un vedere non interciso], aliter [le sostanze] sempiternae non essent; v. anche Cv III XIII 5 e 7, e Tommaso Cont. Gent. II 97 " Intelligere igitur substantiarum separatarum est continuum et semper... operatio propria, quae est intelligere, est in eis continua, non intercisa ", il quale però attribuisce agli angeli un ‛ intelligere ' in abito che implica volontà e memoria: cfr. ibid. II 101 e Sum. theol. I 58 1 e 5). Ciò che qui D. esclude è la conoscenza ‛ nel tempo ' da parte degli angeli, in quanto essi, presenti eternamente alla visione di Dio, pensano perennemente in atto tutto ciò che conoscono. Il loro ‛ vedere ', infatti, essendo continuo e immutabile, non avviene mediante un passaggio da un atto conoscitivo a un altro, passaggio che implicherebbe sia l'intellezione di un oggetto prima non considerato (novo, e cfr. la tesi averroista condannata a Parigi nel 1277: " Quod angelus nihil intelligit de novo "), che quel vedere interrompe (‛ intercide '), sia la memoria che conserva nella mente la conoscenza (abituale e non più attuale) dell'oggetto considerato in precedenza e in quel momento dimenticato (B. Nardi, Nel mondo di D., Roma 1944, 371-375; ID., D. e la cultura medievale, Bari 19492, 105; ID., Il canto XXIX del Paradiso, Roma 1959, 15-16).

Sicché nell'angelo l'intellezione, avvenendo per un atto immediato e ininterrotto, rende inutile la memoria (rememorar), propria di chi - come l'uomo - possiede una conoscenza discorsiva, raziocinativa, che si svolge ‛ nel tempo ' mediante una serie di passaggi logici (procedimento di ‛ composizione e divisione ') con cui l'intelletto formula il pensiero (concetto diviso; cfr. Tomm. Sum. theol. I 58 5 " angelus, sicut non intelligit ratiocinando, ita non intelligit componendo et dividendo ", e Cont. Gent. II 96). In Pd III 60 Ne' mirabili aspetti / vostri risplende non so che divino / che vi trasmuta da' primi concetti, la parola, pur conservando il valore di " rappresentazione intellettuale " (" removet vos a prima cognitione hominum ", Benvenuto) viene a essere sinonimo di " figura ", " immagine ". " ‛ Concetto ' e sembianza ' qui son tutt'uno " (Tommaseo). Si tratta insomma di sembianze " percepite e conservate nella memoria " (Mattalia); cfr. però Parodi, in " Bull. " XVIII (1911) 302-303.

Vocabolario
concettare
concettare v. intr. [der. di concetto2] (io concètto, ecc.; aus. avere), raro. – Formare concetti artificiosi, ingegnosi: chi ha concetti grandi non degna far mostra di saper c. (Tommaseo).
concètto²
concetto2 concètto2 s. m. [dal lat. conceptus -us, der. di concipĕre «concepire»]. – 1. Pensiero, in quanto concepito dalla mente; più in partic., anche dal punto di vista filosofico, la nozione che la mente si è formata dell’intima essenza...
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