Comportamenti sociali
La letteratura sociologica degli ultimi decenni del 20° secolo ha sviluppato analisi teoriche ed empiriche che si sono basate su approcci riguardanti il c. s. nelle sue diverse sfaccettature. A ben considerare la dinamica stessa dei termini di riferimento utilizzati, si può constatare che l'idea di c. s. proposta sin dal 1961 da G.C. Homans (n. 1910) non ha poi trovato molto seguito. In effetti sempre più spesso si è parlato soprattutto di 'comportamento collettivo' o anche di 'comportamenti collettivi'. Meno frequentemente si è fatto ricorso alla variante indicata come 'comportamento di massa' ovvero 'comportamenti di massa'. Dovendo rinunciare, pertanto, alla versione originaria che parla di 'comportamento sociale' conviene invece utilizzare il plurale e racchiudere entro la dizione di 'comportamenti sociali' tutte le possibili variabili che sono in rapporto con l'ambito comportamentale. In tal modo per c. s. si intendono le azioni che manifestano e rendono esplicito l'orientamento dell'individuo specialmente nella sua interazione con i membri della società alla quale egli stesso appartiene.
Per ragioni di maggiore chiarezza tuttavia conviene ripartire dalla prima formulazione homansiana che sottolinea il carattere 'ordinario quotidiano' del c. s. di cui Homans elenca le connotazioni. Esso implica che se un individuo opera in una certa maniera viene ricompensato o punito da un'altra persona: dunque vi è un calcolo dell'utilità o meno di un certo modo di agire. In secondo luogo se un'azione è rivolta nei riguardi di una persona specifica è proprio quest'ultima che provvede a compensare o a punire. Il terzo aspetto è costituito dal fatto che si deve trattare di un comportamento visibile, reale, e non solamente di un'astratta norma comportamentale.
Va sottolineato che la presenza di norme è a monte del c. s.: in effetti esse non restano una formulazione puramente astratta ma vengono rese manifeste attraverso ciò che l'individuo sociale compie. Insomma le regole comportamentali in una data situazione aiutano a comprendere e spiegare meglio lo stesso comportamento sociale. Peraltro sia le norme sia le ricompense o le sanzioni sociali condizionano direttamente l'agire sociale dei soggetti.
Homans precisa inoltre che egli intende parlare del c. s. elementare, cioè informale, in quanto il c. s. ha luogo quasi in ogni momento e non manca di sue modalità specifiche. Inoltre esso non è mai rigido giacché si adatta alle singole situazioni: non sempre si conforma alle regole di tipo istituzionale e anzi a lungo andare le infrange e tende a rimpiazzarle. Ogni situazione, in fondo, nasce da un originario c. s. elementare. Occorre comunque discernere fra il c. s. elementare, tendenzialmente identico in ogni contesto, e quello istituzionale, che di solito muta nella misura in cui cambia anche la cultura di riferimento. In pratica il comportamento elementare è più universale, mentre quello istituzionale (a livello politico, giuridico, religioso, etico, economico) è più particolaristico, con un carattere che si potrebbe dire di tipo locale.
A parere di Homans, il c. s. elementare va visto essenzialmente nei piccoli gruppi, dove è rispettato il criterio della situazione faccia a faccia, con la possibilità di verificare immediatamente ricompensa e sanzione da parte dell'interlocutore. Tuttavia il comportamento non si limita a un incontro fra due sole persone, bensì si allarga ad altre contingenze relazionali, ad altri soggetti, creando dunque una rete di rapporti, non tutti osservabili dal sociologo.
Dall'analisi del c. s. emergono sostanzialmente quattro aspetti fondamentali: sentimenti (con i diversi livelli di approvazione sociale), attività (come consenso alla richiesta di cambiamento proveniente da altri), interazioni (quando sono numerose creano una maggiore affinità di sentimenti) e norme (in quanto affermazioni che un certo comportamento è considerato apprezzabile). La chiave di volta del pensiero di Homans sul c. s. elementare è nell'individuare cinque 'proposizioni' utili a spiegare quanto avviene a livello di interazione fra soggetti: 1) se in passato la presenza di una particolare situazione-stimolo è stata occasione di ricompensa per un dato comportamento, allora quanto più l'attuale situazione-stimolo risulta simile a quella del passato, tanto più è probabile che il soggetto abbia il medesimo comportamento o qualcosa di simile; 2) quanto più spesso in un certo periodo di tempo l'attività di una persona ricompensa quella di un'altra, tanto più spesso quest'ultima compirà la stessa attività; 3) quanto più è apprezzabile per un soggetto una singola attività che un altro compie, tanto più spesso quest'ultimo compirà l'attività ricompensata dall'altro; 4) quanto più spesso in un passato recente una persona ha ottenuto un atto compensatorio da parte di un altro, tanto meno apprezzabile diventa per lui un singolo atto; 5) quanto più spesso la regola della giustizia distributiva non viene rispettata a svantaggio di una persona, tanto più probabilmente quella persona mostrerà il comportamento emozionale di opposizione e rabbia.
Teorie del comportamento
All'origine delle analisi sociologiche sul c. s. è da annoverare senz'altro il positivismo con la sua attenzione al dato di fatto, alla realtà concreta. Né è da trascurare l'apporto del pragmatismo, segnatamente da parte di W. James, con il suo interesse per le conseguenze pratiche delle azioni. Un ruolo strategico ha avuto anche J. Dewey, molto legato a James ma anche a G.H. Mead. Questi parla esplicitamente del c. s., nonché della mente come costruzione sociale fondata proprio sulle relazioni sociali, ma approfondisce specialmente la questione dell'altro generalizzato rappresentato dall'insieme sociale con cui il sé interagisce. Non a caso dunque Dewey insiste molto sulla natura sociale della mente, sull'irrealtà dell'io, sul carattere dell'uomo come socius, cosicché l'individuo matura pienamente solo nella sua socialità dispiegata al massimo, con un netto primato dell'elemento sociale su quello naturale e con una netta caratterizzazione sociale della condotta dell'uomo. Ancora indietro nel tempo sono rintracciabili dei prodromi significativi nell'empirismo inglese e nel marxismo, accomunati dalla critica all'apriorismo, alla metafisica e all'innatismo, dalle teorie del mondo materiale e del mondo sociale, dal forte richiamo all'esperienza, dalla negazione del concetto di io personale.
Indubbiamente lo sviluppo più significativo in campo sociologico è dato sia dall'interazionismo simbolico sia dall'etnometodologia (intesa quest'ultima come studio del c. s. in quanto prassi di condotta). Da James, Dewey e Mead prendono le mosse e acquistano evidenza la costruzione sociale dell'io e il primato dell'azione come comportamento sociale. Soprattutto l'interazionismo simbolico dà rilievo al comportamento interindividuale inteso come azione reciproca resa manifesta attraverso i segni, i simboli, elementi principali della comunicazione interpersonale, per cui i fenomeni sociali rientrano in un'ottica di interazione sociale simbolica. Lo stesso rapporto con l'ambiente è tale che proprio il comportamento è in grado di incidere su di esso, di fatto costruendolo, in un'interazione che crea e modifica a partire da una forte coscienza di sé e del mondo sociale. In un quadro siffatto, i simboli come segni visibili permettono la condivisione di esperienze comuni, di comportamenti reciprocamente significativi pur in situazioni estreme.
In breve, le teorie sul comportamento hanno come base di riferimento gli stimoli iniziali, le emozioni-sentimenti di accettazione o rifiuto in connessione con gli stimoli, le interazioni di preferenza-avvicinamento o di presa di distanza-allontanamento, le gratificazioni-deprivazioni relative a quanto desiderato, i rinforzi o gli indebolimenti degli atteggiamenti che preludono ai comportamenti.
Secondo la teoria del piano sostenuta da R. Harré e P.F. Secord l'uomo è in grado di pianificare il suo c. s., calcolando di volta in volta le sue convenienze, le sue perdite, i suoi rischi e le sue finalità di fondo. In tal modo il soggetto sociale pur operando nel quotidiano pensa al metaquotidiano, si accontenta o si priva di un risultato immediato perché ha in mente obiettivi di maggior rilevanza. L'agire sociale è orientato verso scopi preordinati che organizzano il comportamento, lo tengono sotto controllo, ne considerano gli esiti, lo modificano secondo necessità. Si può dire che ognuno ha un suo progetto che persegue con impegno e attenzione, elaborando e adottando regole, definendo le modalità del suo operato, le tattiche più utili, i ruoli più convenienti da giocare nei diversi contesti, riconducendo tutto all'unica strategia di fondo. La gestione del c. s. risponde piuttosto a norme, a prassi, e non a vere e proprie leggi. Tutto è mutevole secondo la contingenza ambientale e temporale. L'essere umano è un attore sociale capace di adattarsi, integrarsi, mutare direzione, facendo convergere il suo modo di fare verso il modello di sé che egli stesso ha costruito. Ciò avviene nella quotidianità e nella metaquotidianità, cioè nelle occasioni eccezionali che accadono nel ciclo di vita. Detto altrimenti non c'è molto automatismo nel c. s., giacché l'io sociale sa bene che cosa fare, quando e come. Non c'è quindi passività ma partecipazione tendenzialmente consapevole. In questo approccio di Harré e Secord è evidente l'influsso della psicologia cognitivista, che considera l'uomo un soggetto dotato di forte consapevolezza critico-operativa.
Infine occorre citare l'interessante ripresa da parte di J. Coulter (n. 1948) di una questione fondamentale: il ruolo della mente nel comportamento sociale. Egli ritiene che la stessa intelligibilità ha una connotazione 'intersoggettiva'. In effetti la conoscenza è strettamente unita alle attività sociali. Occorre dunque conoscere la grammatica e la sintassi della cognizione pratica, in cui operano le logiche, sia del vissuto condiviso sia della costruzione sociale del mondo. Perciò diventa necessario un approccio sociologico alla mente, all'individuo, ma focalizzando l'attenzione più sulle pratiche, sui c. s. e non invece sulle persone singolarmente considerate. Ogni mente è un elemento sociale, frutto della realtà sociale e con essa interagente a tutto campo, sulla base di un patrimonio culturale già ben radicato, che sostiene e alimenta la linfa dei rapporti sociali.
Il comportamento collettivo
Nell'ambito dei molteplici c. s. ha avuto particolare diffusione la variante che parla di 'comportamento collettivo', preferita di solito a quella declinata al plurale. La differenza è importante specie sul piano dell'intenzione latente, che con la formula al plurale sottolinea il carattere collettivistico, il quale abbraccia anche i movimenti sociali e quindi le istanze sociopolitiche in termini di stratificazione sociale e in definitiva di appartenenza di classe. Non a caso la dizione di 'comportamento collettivo' ha una matrice prevalentemente statunitense, mentre quella di 'comportamenti collettivi' sembra preferita piuttosto dalla sociologia europea, e da A. Touraine (n. 1925) in particolare.
Per N. Smelser (n. 1930) il comportamento collettivo è spontaneo, non strutturato, concernente un gruppo di persone che si trovano a rispondere a una contingenza incerta o minacciosa, dunque al di fuori dell'ordinarietà quotidiana che solitamente è abbastanza istituzionalizzata e ripetitiva. Invero, sotto l'etichetta di comportamento collettivo si addensano numerose fenomenologie di specifico interesse sociologico. Si tratta di comportamenti che derivano da atteggiamenti e orientamenti la cui motivazione è a volte facilmente identificabile, ma talora sfugge e porta a qualificare come irrazionale la condotta in esame. In realtà ragioni condizionanti sono presenti in ogni caso e vanno dal patrimonio culturale della tradizione all'improvviso sorgere di manie generalizzate. La dinamica delle comunità e delle società è continuamente attraversata da comportamenti collettivi che durano per periodi brevi o si stabilizzano fino a diventare una costante sociale, cioè un'istituzione intesa in senso lato e non solo come struttura od organizzazione.
Dalle prime incerte, indistinte accezioni usate alla fine del 19° sec. da G. Le Bon (1841-1931) per indicare la folla o meglio le folle, in cui confluiscono elementi assai diversi fra loro (dai moti rivoluzionari alle assemblee legislative), si è oggi pervenuti a dettagliate e coerenti definizioni dei movimenti collettivi, alla luce di più articolate teorizzazioni e motivati approcci. La descrizione di Le Bon, che delinea il profilo di una folla omogenea priva quasi di individualità, stupida, emotiva, suggestionabile, irascibile, irrazionale, irruenta, senza spirito critico, credulona, dimentica quasi delle peculiarità soggettive di quanti ne fanno parte, cede il passo ad analisi meno pregiudiziali, meno elitistiche, meno dicotomiche. Le variabili che sono a monte dei comportamenti collettivi risultano, nelle prospettive degli studiosi contemporanei, ben più cospicue: l'ideologia, le organizzazioni, le istituzioni, le religioni, i fattori economici, le strutture statali, le condizioni ambientali, il retaggio storico-culturale, le innovazioni tecnologiche. Soprattutto è ormai chiaro che esistono comportamenti collettivi ricorrenti e altri che hanno il segno dell'eccezionalità, dell'imprevedibilità e della spontaneità.
Sono almeno otto le prospettive teoriche più accreditate sui comportamenti collettivi, secondo la classificazione suggerita da E. Goode.
La prima di tali prospettive è la teoria del contagio, in qualche modo risalente allo stesso Le Bon, che evidenzia la dimensione largamente uniforme dei comportamenti collettivi. L'esito condiviso prende forma per imitazione, suggestione e influenza diffusa, favorite dall'anonimato dei partecipanti e dalla mancanza di controlli diretti e personalizzati. Si assiste a trasformazioni straordinarie di individui che, timidi nel loro vissuto quotidiano, acquistano veemenza e coraggio grazie alla copertura della massa entro cui si trovano a operare. Di solito si comincia con una sorta di mulinello di persone, con un andirivieni casuale, come un girare a vuoto, in un turbinio fra individui che poi tendono a concentrarsi, a far massa, per cui cresce la deresponsabilizzazione, che si abbina con la disponibilità ad agire tutti insieme. Successivamente l'eccitazione giunge a essere collettiva, si espande a dismisura sino a divenire un vero e proprio contagio sociale.
La teoria della convergenza, invece, fa leva sulla predisposizione dei soggetti a inserirsi in un certo comportamento collettivo in quanto già orientati positivamente verso quella data condotta, per cui quando individui aventi le medesime attitudini si ritrovano è abbastanza probabile che si uniscano in un medesimo agire collettivo, che può sfociare, a volte, in comportamenti violenti e distruttivi.
Nel caso, poi, della teoria della norma emergente, proposta da R.H. Turner (n. 1919) e L.M. Killian (n. 1919), il comportamento collettivo non è una violazione delle norme esistenti (come risulta nelle due precedenti teorizzazioni), ma piuttosto una ridefinizione normativa di ciò che non sarebbe più valido o parrebbe ambiguo in una nuova situazione: Turner e Killian sono attratti dalle modalità di costruzione delle nuove norme, dei significati che vi si connettono, dei comportamenti che divengono accettabili e praticabili. Da tutto ciò scaturisce il ruolo-chiave dell'interazione fra i soggetti, che insieme producono la nuova normativa comportamentale pur senza rinunciare del tutto alle proprie opinioni personali e alle norme precedenti. In fondo però si verifica pur sempre che ogni interpretazione innovativa è il risultato di un'interazione sociale. E di solito, a fronte di situazioni incerte, l'orientamento individuale diviene più influenzabile da parte del gruppo di riferimento.
Per quanto riguarda inoltre la teoria del valore aggiunto, attribuibile soprattutto a Smelser, l'accento è posto su sei precondizioni collegate fra loro in strettissima sequenzialità (in modo quasi da aggiungere progressivamente valore), per cui se vi è soluzione di continuità è probabile che il comportamento collettivo non si verifichi. E queste sono: una particolare struttura o condizione della società che promuova o consenta un certo comportamento; una tensione dovuta a deprivazione, incertezza, minacce, che diventano un problema da risolvere in modo adeguato; delle credenze generalizzate in base alle quali si pensa di dover agire in una data maniera per affrontare una certa questione; alcuni fattori che fanno precipitare la situazione e costituiscono un pretesto per produrre dei comportamenti; l'azione di un leader o l'informazione dei mass media, che ispirano e promuovono una mobilitazione per l'azione; la mancanza di controllo sociale e, al contrario, un suo esercizio troppo rigido che possono favorire determinati comportamenti. All'inizio del diagramma di flusso che elenca tali precondizioni non si registra alcun comportamento collettivo, il quale è peraltro il precipitato finale delle sei variabili messe in campo, ognuna delle quali costituisce, come si è detto, un passaggio fondamentale e ineliminabile.
Una forma aggiornata della teoria del comportamento in termini utilitaristici, finalizzando cioè l'agire sulla scorta della ricompensa, del vantaggio che se ne ricava, è rappresentata dalla teoria della scelta razionale di J.S. Coleman (1926-1995), J. Rawls (n.1921) e altri. Secondo tale impostazione il comportamento va analizzato in termini di ricavi possibili, calcolando rischi e probabilità, costi e benefici, ed esprimendo preferenze poi modificabili secondo convenienza. Si è dunque in una logica interattiva di mercato, di economia utilitaristica. Il comportamento ha una sua razionalità correlata alle risorse e agli interessi. La teoria della scelta razionale o del rischio calcolato ovvero della scommessa sull'esito di un comportamento è applicabile specie in campo politico: si tratta di una sorta di gioco sociale in cui gli individui esaminano quali mezzi siano più adatti a raggiungere un certo obiettivo, per cui adottano o meno un certo comportamento collettivo sulla base di quanto si aspettano presumibilmente da esso in chiave di guadagno o perdita. In questa teoria dei giochi i soggetti sociali sono degli attori razionali che ottimizzano il loro comportamento in vista di risultati desiderabili. Senonché pure in questo settore si assiste a una grande variabilità di desideri e di comportamenti a essi finalizzati; né è da escludere un comportamento fine a se stesso, senza conseguenze utilitaristiche. Pertanto la teoria dei giochi rischia di essere piuttosto parziale, offrendo spiegazioni specialistiche, che sono adatte solo per taluni comportamenti collettivi, a parere di Goode (che indubbiamente è uno dei maggiori esperti in questo campo).
Modello della soglia è definito poi l'orientamento sociologico in cui si considera in primo luogo il limite numerico che induce gli individui a prendere parte a un comportamento collettivo: per taluni la soglia è bassa, giacché bastano pochi altri che intraprendano una certa azione per convincersi personalmente della sua opportunità; per qualcuno, al contrario, il livello è più alto, in quanto solo a fronte di una massiccia partecipazione altrui si decide di optare per lo stesso comportamento. Il comportamento, infatti, non deriva solo da norme, motivazioni e preferenze individuali o da calcoli tipici da scelta razionale. La decisione comportamentale può essere nettamente dicotomica (si opera o non), oltretutto l'azione è un fatto chiaro e incontrovertibile nel suo significato: essa non è frutto di routine ed è una scelta dipendente dal numero di coloro che si comportano allo stesso modo. Più l'azione è compartecipata, meno pesa al singolo. D'altro canto anche le opzioni personali vengono messe da parte per seguire gli altri nel loro comportamento collettivo. Poiché le caratteristiche individuali mutano e anche le situazioni contingenti variano, non è agevole predire i comportamenti collettivi e soprattutto quale sia la soglia di numerosità dei partecipanti che invoglia al coinvolgimento.
Il modello socio-behaviorista/interazionista, mediante i contributi di C. McPhail (n. 1936) e D.L. Miller, mette insieme i vari fenomeni di folla sia in chiave di raduno sia di dispersione. Invero l'orizzonte di questo modello abbraccia quasi ogni forma di interazione sociale, riprende molto dal behaviorismo e guarda essenzialmente al coordinamento delle azioni individuali in un set sociale più vasto. Si può obiettare, nei riguardi di questa impostazione, che non tutti gli assembramenti possono essere definiti dei comportamenti collettivi. Per di più l'analisi è prevalentemente concentrata sulle forme di convergenza e ben poco sulle modalità connotate da dispersione e frammentazione come le campagne (elettorali, pubblicitarie, morali e altre ancora), le tendenze, le cosiddette ondate e le mode.
Infine è da annoverare la prospettiva di mobilitazione delle risorse, la quale sostiene la centralità della leadership come fattore mobilitante di uno scontento da incanalare entro un comportamento collettivo, facendo ricorso a mezzi quali il potere, il denaro, l'uso degli strumenti di comunicazione di massa, la cooptazione delle élites, l'attività delle agenzie di controllo sociale, le capacità organizzative e alcune finalità peculiari da perseguire. Qui invero il discorso vale più per i movimenti sociali che per i comportamenti collettivi, tuttavia alcuni aspetti possono essere ripresi in un quadro d'assieme. Torna particolarmente utile quanto si dice a proposito del leader, visto come persona capace di trasmettere idee e contenuti, motivazioni e stimoli, che passano attraverso una fitta rete di interazioni sociali e si consolidano in movimenti e organizzazioni. Il tutto riesce meglio se si forma e opera un gruppo di esperti che siano qualificati nel campo delle strategie sociali e abbiano talento organizzativo per usare al meglio le disponibilità strumentali. Insomma, la mobilitazione delle risorse è una prospettiva valida ma limitata, che differenzia troppo l'attività dei movimenti sociali rispetto al comportamento collettivo.
I comportamenti di massa
J. Lofland (n. 1936) propone una netta distinzione tra 'folla' e 'massa'. La prima è data da un gran numero di persone in contatto diretto fra loro. La seconda riguarda un certo numero di persone non necessariamente collegate fra loro da un rapporto di vicinanza, ma accomunate dall'attenzione verso un medesimo oggetto. Secondo quest'ottica, si ha folla in un raduno politico, in una sommossa, in un concerto, in un avvenimento sportivo, ma si deve parlare di massa a proposito di una catastrofe naturale, di un fenomeno di moda, della pratica del jogging, della cosiddetta caccia alle streghe.
Il processo di massificazione si può associare a una forma di collettivismo diffuso o, meglio, di collettività diffuse accomunate da caratteri condivisi nonostante la mancanza di una contiguità spaziale. La dimensione di massa è oggi favorita ancor più dalle nuove tecnologie di comunicazione che rendono possibile l'utilizzo di un medesimo prodotto-oggetto, sia astratto sia concreto, quasi senza limiti di confini territoriali, linguistici, etnici e culturali.
In genere il fenomeno della massificazione è considerato con accenti negativi. Certamente le condizioni strutturali contemporanee inducono più facilmente comportamenti di massa. Non va in ogni caso sottovalutato il ruolo dei singoli attori sociali che sono capaci di risposte reattive e rielaborative dei messaggi e dei contenuti provenienti dalle fonti di comunicazione di massa. L'esposizione all'ascolto radiofonico, all'audiovisione radiotelevisiva e all'uso di terminali video è soggetta a variazioni notevoli da soggetto a soggetto, da contesto a contesto, da un'età all'altra. Ora si tende in effetti a parlare di pubblico di massa o magari a usare indiscriminatamente il termine 'pubblico' o 'massa' per sottolineare che quanto appare informe, generico, in realtà ha al suo interno delle potenzialità diversificate di risposte che possono modularsi fra il consenso quasi del tutto passivo e il dissenso più risoluto. Un pubblico è ben più di una folla e può essere massa anche se non rappresenta la maggioranza di una comunità o di una società. Non vi è alcuna necessità per un pubblico-massa di riunirsi: la sua condizione è tale per cui esso esiste indipendentemente dal livello di partecipazione diretta all'interazione con gli altri componenti. Vi è da considerare, tuttavia, che i tempi di reazione di una massa sono più lenti di quelli di una folla: la mancata vicinanza diluisce anche cronologicamente il processo di condivisione.
Sembra avere maggiore successo la massificazione del gusto, di cui fornisce un esempio ormai classico il processo di 'mcdonaldizzazione' analizzato da G. Ritzer secondo la prospettiva weberiana della razionalizzazione: ogni diversità è appiattita da una catena di montaggio che poco lascia alla fantasia dell'intervento umano, per cui ovunque si arriva a servire il medesimo cibo tipico da fast food. Qualche tentativo di varianza localistica è solo appariscente e poco sostanziale. Vi è una omogeneizzazione che investe quasi ogni prodotto alimentare e surclassa eventuali sopravvivenze di cucina etnica. Il gusto delle pietanze è studiato perché sia accettabile da qualunque tipo di consumatore. Insomma, cambiare regione o nazione non porta a gustare qualcosa di diverso. L'esplorazione della diversità non è più praticabile.
Molti fenomeni di massa sono comprensibili e spiegabili quasi solo a partire dallo specifico contesto culturale in cui hanno luogo. La socializzazione primaria e secondaria non può non influire sull'acquisizione di modelli culturali, stili di vita e valori, che condizionano, orientano i c. s., per cui ancora una volta è l'interazione a giocare un ruolo decisivo, non solo come prassi intersoggettiva al momento della fenomenologia in questione, ma ancor prima come trasmissione culturale di elementi di base che transitano da una generazione a un'altra. La tipicità di alcuni contenuti culturali definisce il profilo di un'area culturale, più o meno delimitata territorialmente, che accoglie in misura variegata o respinge del tutto alcune fenomenologie di massa. Anche se il concetto di area culturale è oggi abbastanza discusso, il peso della specificità culturale è innegabile.
Le dinamiche della società contemporanea approdano talora a ribaltamenti sostanziali delle tendenze precedenti. Il ritorno dell'oralità diffusa rientra in questa tipologia. Si fa sempre meno ricorso alla parola scritta, quasi tutto passa a livello vocale, dalla radio alla televisione, dal telefono alle teleconferenze, sicché sembra di essere tornati a una situazione paraprimordiale: ha importanza e fa testo ciò che si dice verbalmente ma ben poco si tramuta in testo scritto. La parola può bastare: sulla parola si vincono le battaglie elettorali e, a livello di massa, l'orale ha la meglio sullo scritto. Pure la virtualità di quanto è racchiuso nella memoria di 'massa' di un computer è piuttosto volatile: basta un errore di digitazione o la necessità di far spazio ad altro e tutto scompare come se non fosse mai stato scritto.
Il magico-religioso nelle sue diverse componenti e manifestazioni resiste ancor oggi sulla scena dei riti dei c. s. contemporanei e vede la partecipazione di ragguardevoli masse di fedeli. Santuari e pellegrinaggi non sono luoghi e riti abbandonati: in questo campo le mitologie sono tuttora operanti lungo un continuum di tradizioni e pratiche che non sembrano destinate a scomparire.
Le conquiste della scienza e della tecnica non paiono scalfire le attività paranormali, i fenomeni medianici, l'esercizio della parapsicologia e persino il ricorso all'occultismo. La credenza in tali modalità è però ben più alta che la pratica direttamente esperita. Le ricerche empiriche dimostrano che si crede abbastanza nella telepatia, nel malocchio e nella possibilità di mettersi in contatto con i defunti, meno nella chiromanzia e in altri procedimenti occulti.
Le credenze astrologiche allignano in molti ambienti sociali, ivi compresi quelli economici, e servono a orientare i comportamenti di soggetti che di fronte alle incertezze della loro esistenza e delle loro scelte più importanti, siano esse in campo matrimoniale o nel settore degli affari, sentono la necessità di uno spunto risolutore che indichi l'opzione giusta. Th.W. Adorno definisce simili maniere di operare come superstizioni di seconda mano, in quanto i dettami forniti dagli oroscopi, per es., si rifanno ai dieci comandamenti del cristianesimo o a logiche di equilibrato realismo. Le formule dell'astrologia sono dei sostituti funzionali che rimpiazzano del tutto o appena in parte la credenza religiosa e surrogano la conoscenza e la spiegazione scientifica.
Per altro verso la direttrice socioeconomica svolge una funzione non trascurabile nell'orientare i c. s. in genere e i comportamenti amministrativi e commerciali in particolare. Specie in epoche di crisi si diffondono azioni miranti a risolvere istantaneamente i problemi legati alla sopravvivenza o comunque a un migliore tenore di vita. Fioriscono allora le giocate a rischio (calcolato probabilisticamente) in concorsi e lotterie, le manifestazioni di massa del tipo 'corsa all'oro', la ricerca di proventi facili. A volte tali azioni appaiono del tutto irrazionali a un osservatore esterno più prudente. In realtà esse sono delle vere e proprie scommesse sul futuro, magari speculando sui movimenti borsistici o sulla situazione debitoria di un'azienda in difficoltà. Più macroscopico e diffuso rimane in ogni caso il fenomeno dei consumi, che sovente è in diretta dipendenza dagli andamenti della moda e dagli orientamenti cangianti del pubblico-massa. Alla direttrice socioeconomica si aggrega quindi quella socioculturale, che attraverso la moda e la pubblicità mette in evidenza la transizione dallo spreco vistoso allo spreco per tutti. Sia che si privilegi una prospettiva integrazionista o, al contrario, conflittuale, l'esito è il medesimo: da una parte si afferma la moda-mercato come consumo indotto dalle strutture produttive, dall'altra domina la moda strutturale di una élite egemone che indirizza il mercato, dà segnali da imitare, impone una linea o un cromatismo. Anche la forma apparentemente meno dipendente dagli interessi di tipo capitalistico, cioè la mania o follia di stagione, contribuisce di fatto a diffondere dei modelli e degli stili che le grandi aziende sono ben pronte ad accogliere e soddisfare con le linee dei loro prodotti mirati, sapientemente pubblicizzati e specificamente dedicati a precise fasce sociali o di età.
La moda, opportunamente e scaltramente proposta attraverso i mezzi di comunicazione di massa mediante messaggi più o meno espliciti, offre una serie di modelli studiati per consentire di apparire più giovani, ai quali un consistente numero di soggetti cerca di adeguarsi: sotto questo aspetto si riduce così la distanza intergenerazionale, altrimenti non facilmente colmabile.
La necessità di apparire in linea con gli andamenti correnti e le tendenze più diffuse, più in particolare l'appiattimento su un'acritica 'conformità di gruppo', costituisce talora una variabile-chiave che favorisce comportamenti devianti rispetto alle norme sociali. Può trattarsi di scelte estemporanee, non ortodosse in termini di comportamento approvabile, ma sostanzialmente innocue per il vivere in società. Qualche volta, tuttavia, lo stimolo può essere ancor più accentuato e produrre fenomeni di marginalità o anche criminalità. Il consumismo accentuato, lo sperpero economico e la condizione elitaria di alcuni stimolano in altri soggetti delle risposte comportamentali che mirano a raggiungere, a qualsiasi costo e rischio, il medesimo livello di vita dei più privilegiati.
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