Complessità sociale
Il concetto di complessità designa la possibilità di descrivere l'unità (di un sistema, di un ambiente, del mondo, ecc.) ricorrendo alla distinzione fra gli elementi e le relazioni di cui essa si compone. Questa possibilità è stata tuttavia utilizzata in modo assai diverso e ha assunto sfumature molto varie nel corso di una lunga storia. Nella cosmologia medievale il concetto di complessità indicava tutto ciò che poteva essere pensato come composto. Una tale definizione del concetto presuppone il concetto antitetico del semplice, che poteva essere designato anche con termini quali 'elemento' (atomo) o 'individuo'. Lo schema complesso/semplice aveva il vantaggio di prestarsi a molteplici impieghi e occupava conseguentemente una posizione centrale nella cosmologia. Dio era concepito entro tale schema come entità semplice, e il problema dell'unità di ciò che è complesso veniva affrontato come problema della sua origine (principium) sempre attuale (così, per esempio, nel De coniecturis di Nicola Cusano). Ciò che era pensato come composto doveva essere concepito anche come scomponibile, e quindi come suscettibile di essere distrutto (così, ad esempio, le unità politiche quali città e imperi). Oltre a ciò era comunque possibile distinguere fra composizioni necessarie per la stabilità del mondo e composizioni contingenti (complexio contingens), nonché fra divisio (scomposizione concettuale) e partitio (divisione materiale). Questo impianto concettuale costituiva il quadro per distinguere l'intero dalle sue parti. Un intero può essere scomposto in interi parziali sempre più piccoli fino a giungere a elementi semplici, non composti e non ulteriormente scomponibili, che sono per questo indistruttibili. L'indistruttibilità degli elementi, o degli individui, era anche la soglia a partire dalla quale l'ordine mondano rinviava a una natura stabilmente costituita o faceva, in termini religiosi, riferimento alla creazione. Solo potenze religiose, si riteneva, soltanto Dio può disporre degli elementi. In quest'ottica il mondo risultava costituito, fino alla fine dei tempi, di componenti ultime stabili le quali delimitavano anche la portata della propria variabilità. Altri limiti erano rappresentati dal carattere invariabile dell'essenza delle cose. Un processo che andasse al di là di questa soglia doveva essere definito con termini particolari quali creatio o annihilatio. Nella realtà del mondo e nella vita quotidiana non ci si doveva aspettare un simile processo. Questa concezione di ordine si è conservata fino all'era moderna inoltrata. Leibniz la riassume ancora una volta nel concetto di 'mondo perfetto' "où il y ait la plus grande variété avec le plus grand ordre". Kant e i post-kantiani tradurranno "variété" con "molteplicità" e le condizioni dell'ordine cosmologico relative alla natura composita delle cose saranno risolte in fatti di coscienza e definite come "unità sintetica dell'appercezione".
Il tramonto della cosmologia medievale non aveva inizialmente coinvolto il concetto di complessità che sopravviveva come una sorta di residuo, mentre alle sue spalle si trasformava il mondo. La filosofia trascendentale lo concepisce come complessità indeterminata, interpretandolo sul piano temporale come futuro aperto, sul piano materiale come infinita molteplicità di nessi causali, e sul piano sociale come l'uguale qualità di soggetto propria di tutti gli uomini. Il semplice ha finito per essere, come scrive Kant contro Eberhard, niente più che un concetto negativo, seppure razionalmente necessario. L'articolazione della complessità indeterminata secondo lo schema temporale/materiale/sociale stabilisce già le basi di una sua riduzione senza che peraltro questa strada venga indicata entro lo schema stesso. Il punto di partenza in tal senso è dato dalla limitazione del concetto di individualità agli uomini e del concetto di uomo alla coscienza determinabile nella sua riflessione su se stessa. Questi cosiddetti soggetti vengono privati sia della loro naturale determinatezza sia della protezione offerta dalla religione e indirizzati verso la ricerca di una comune disposizione. Ciò significa, sotto il profilo semantico, una rinuncia all'immortalità dell'anima fondata sulla sua indistruttibilità. A essa subentra la filosofia soggettivistica in cui il concetto di complessità non ha più alcuna rilevanza, essendo sostituito da analisi dell'autoriferimento (con o senza il riferimento a un 'Io'). Se ne separano le analisi degli elementi naturali (in seguito, durante il XIX secolo, divise nelle discipline chimica e fisica) che progrediscono a loro volta verso illimitati orizzonti di scomposizione sempre maggiore degli elementi ultimi. Tutto ciò pone fine alla rappresentazione, possibile ancora per Leibniz, di un mondo perfetto (sebbene perfetto solo nei limiti del possibile) alla quale si sostituisce l'idea di una fattualità storicamente contingente, prodotta dall'evoluzione e suscettibile di distruzione.
Questi sviluppi, pur lasciando ancora una volta formalmente intatto il concetto di complessità, gli sottraggono tuttavia il concetto antitetico di semplice. Certamente anche nel nostro secolo si continua a fare riferimento alla complessità, come se esistesse qualcosa di diverso da essa, parlando ad esempio di società semplici e di società complesse; ma si tratta di un uso linguistico teoricamente poco meditato. Anche la terminologia sostitutiva, incentrata sulla separazione fra ciò che è più o meno complesso resta imprecisa in quanto fa appello a un procedimento di misurazione e di raffronto i cui singoli aspetti risultano controversi. In sintonia con le grandi correnti di pensiero che caratterizzano il nostro secolo, il concetto di complessità si distacca comunque dall'idea di perfezione e si trasforma in un concetto-problema. Dato che il concetto viene inoltre de-ontologizzato, si potrà correttamente cogliere l'opinione predominante dicendo che è complesso ciò che un osservatore descrive come complesso.
I concetti possono essere definiti soltanto stabilendo delle distinzioni. Se è vero, quindi, che il concetto di complessità è sprovvisto ormai di un concetto antitetico, esso deve essere costituito mediante una distinzione in cui la distinzione stessa, e non un aspetto della distinzione contrapposto all'altro, definisca il concetto. Solitamente ciò avviene mediante la distinzione elemento/relazione: un'unità è ritenuta più o meno complessa, nella misura in cui i suoi elementi vengono collegati fra loro da relazioni. Come mostrano le riflessioni matematiche mediante la formula
N2 _ N
______,
2
col crescere del numero di elementi la possibilità di collegarli raggiunge rapidamente un limite legato non tanto a ciò che è pensabile (calcolabile), quanto a ciò che è realmente possibile. A partire da questo limite, che sostituisce in un certo senso la vecchia distinzione fra semplice e complesso, tutte le creazioni di relazioni diventano selettive. Ciò significa che non è più possibile collegare ogni elemento con tutti gli altri, ma soltanto certi elementi con alcuni altri. Al di qua della soglia è possibile una complessità compatta: tutto è connesso con tutto (la classica definizione di sistema, caduta quasi in disuso). Al di là della soglia la costruzione della complessità si svolge sempre in modo selettivo, passando cioè per strutture aventi funzioni selettive. Solo attraverso questo nesso selettivo sorgono le cosiddette 'proprietà emergenti' dei sistemi complessi, vale a dire quelle qualità che non possono essere desunte dall'elemento singolo o descritte generalizzando la descrizione di tali elementi.
Nell'auto-osservazione di sistemi che non possono collegare ciascuno dei propri elementi con tutti gli altri, nasce un equivalente funzionale di un tale assetto relazionale integrale, e precisamente la concezione-limite della complessità indeterminabile. Anche se non si è in grado di determinare come il sistema si presenterebbe nel caso in cui tale condizione fosse realizzata (o anche in caso di ristrutturazioni rilevanti), questa indefinibilità è tuttavia sufficiente per imprimere la caratteristica della selettività a tutto ciò che si realizza a livello operativo e strutturale: non si può escludere che sarebbe possibile anche diversamente. Entro un orizzonte indefinibile di altre possibilità la struttura relazionale integrale (irrealizzabile) diventa attuale come esperienza della contingenza.
Nell'elaborazione di questa problematica fondamentale vengono abitualmente prese in considerazione alcune altre dimensioni che complicano il problema della complessità senza tuttavia aggiungere alcun elemento nuovo. Gli elementi possono essere considerati non solo in termini quantitativi, ma anche sotto l'aspetto della loro diversa qualità. Si distingue a volte, ad esempio nella definizione fornita da Klaus e Liebscher (v., 1976⁴, pp. 314 ss.), tra complessità, intesa come aumento delle relazioni fra elementi uguali, e complicatezza intesa come aumento della diversità fra gli elementi. Un tale tentativo tipologico e terminologico nasconde però il fatto che ci interessa precisamente il nesso fra i due possibili incrementi, dato che chiaramente la qualità e la capacità di collegamento sono fra loro connesse. Ciò è altrettanto vero se prendiamo inoltre in considerazione il tempo, concependo quindi gli elementi come unità variabili nel corso del tempo (per esempio come eventi). Anche questo fattore pone netti limiti alla collegabilità poiché l'operare nel mondo è, dal punto di vista del tempo, necessariamente un operare simultaneo. Quando si passa dai modelli formali a teorie che descrivono sistemi reali, occorre perciò tener conto almeno di queste due dimensioni. Non si riuscirebbe altrimenti a comprendere perché e come i sistemi si sviluppino sotto una pressione selettiva. È per questo che si parla spesso di 'complessità organizzata'. Una definizione emblematica è allora la seguente: "La complessità di un sistema varia direttamente, ma non in termini sommativi, con il variare: 1) del numero e della varietà delle sue componenti; 2) dell'ampiezza e dell'incidenza dell'interdipendenza relazionale fra le componenti; 3) della variabilità delle componenti e delle loro relazioni nel corso del tempo" (v. McFarland, 1969, p. 16; v. anche La Porte, 1975, pp. 3-39).
I sistemi che, superando la soglia minima del collegamento integrale fra i loro elementi, arrischiano il passaggio a un collegamento selettivo, acquistano con ciò tutti quei vantaggi che risultano dalla selezione del modello selettivo, quindi dalla selezione delle proprie strutture. Possono dare la preferenza a strutture che consentano una maggiore complessità, che permettano cioè di combinare un maggior numero e/o una maggiore varietà di elementi (differenziando, per esempio, le cellule organiche o le azioni dotate di senso). Possono usare la riduzione di complessità a livello delle strutture per costruire complessità a livello delle operazioni. Possono qualificare gli elementi attraverso il tipo di collegamento, e produrre quindi delle caratteristiche che esistono esclusivamente in quel sistema (per esempio il rapporto fra le figure del lavoratore subalterno e del suo superiore, fra leggi e sentenze). Possono, infine e soprattutto, prevedere elementi intercambiabili finché restano intatte le strutture che collocano gli elementi, o addirittura strutture intercambiabili, sempre che sia possibile, durante la sostituzione, mantenere costante una quantità sufficiente di materiale di riferimento. Queste riflessioni indicano come sia possibile collegare una teoria della complessità con la teoria dell'evoluzione.
Per l'elaborazione di modelli formali è sufficiente dare semplicemente per assunto ciò che indichiamo qui come elemento (o componente), a prescindere da cosa sia e da come si formi. Se intendiamo invece applicare il concetto di complessità ai sistemi reali, occorre abbandonare tale presupposto. La stessa fisica moderna insegna che gli elementi non sussistono semplicemente come individui, atomi, particelle, quarks, ma che dipende dalla capacità di scomposizione di un osservatore quale entità funga per lui da elemento ultimo e costituisca quindi per lui il punto a partire dal quale stabilire relazioni. Questa consapevolezza ha impresso un'altra radicale trasformazione alla teoria dei fenomeni complessi. Occorre stabilire altre distinzioni per determinare ciò che, di volta in volta, va considerato come elemento o come relazione. Si ricorre in proposito per lo più alla distinzione fra sistema e ambiente, e a quella fra osservatore e oggetto.
Con l'aiuto della distinzione fra sistema e ambiente è possibile precisare che ciò che funge, di volta in volta, da elemento o da relazione viene costituito come unità da un sistema e solo nel sistema per il quale funge da unità. In quest'ottica l'ambiente del sistema appare allora eccessivamente complesso, da un lato perché è presente nell'ambiente una quantità assai maggiore di ciò che il sistema considera come unità, dall'altro perché neppure quella definizione di unità può essere presupposta come dato presente nell'ambiente (v. Luhmann, 1984, pp. 45 ss.). In tutte le indagini che fanno ricorso al concetto di complessità, occorre quindi indicare il sistema a partire dal quale il sistema stesso è complesso e il suo ambiente è eccessivamente complesso. Se si soddisfa questo imperativo indicando il riferimento sistemico, si possono concretamente analizzare i meccanismi che un sistema sviluppa per esistere in assenza di requisite variety (v. Ashby, 1970, pp. 202 ss.), vale a dire in mancanza di una corrispondenza 'punto per punto' fra stati propri del sistema e stati dell'ambiente. Il superamento di questo dislivello di complessità è, infatti, uno dei significati possibili della formula "riduzione di complessità" (v. Bruner e altri, 1956, pp. 11 ss.).
A questo aspetto si aggiunge oggi l'uso della distinzione fra osservatore e oggetto. Essa presuppone la distinzione fra sistema e ambiente, sempre che non si definisca l'osservatore come 'soggetto', ma come sistema empirico dotato di capacità cognitiva. Solo l'osservatore determina, con l'aiuto delle proprie distinzioni, ciò che è dato per lui come unità complessa o come unità non ulteriormente scomponibile (elemento). Ecco perché la complessità non può più essere definita semplicemente come informazione che manca a un osservatore (così propone Atlan: v., 1979, p. 74); questo ricondurrebbe infatti la definizione, secondo risultanze più recenti, nel circuito dell'autoosservazione.L'osservatore può essere un sistema esterno, ma anche il sistema complesso può osservare se stesso. A quest'ultimo caso sono riferite le analisi dell'autoosservazione o dell'autodescrizione dei sistemi. I sistemi che hanno la possibilità di osservare e descrivere se stessi (tutti i sistemi psichici e sociali rientrano in questa categoria) possono essere definiti come 'ipercomplessi'. Essi non sono solo complessi, ma contengono anche una descrizione della propria complessità (v. Löfgren, 1977) e, all'occorrenza, persino una pluralità di descrizioni di tale complessità (v. Rosen, 1977). Poiché una tale descrizione deve essere effettuata all'interno del suo oggetto, vale a dire entro il sistema che descrive se stesso (non sarebbe altrimenti un'autodescrizione), essa richiede operazioni autoreferenziali o 'autologiche'. Anche gli sforzi volti a ridurre la complessità hanno, come tutti i pianificatori inevitabilmente sperimentano, l'effetto paradossale di accrescere la complessità quando devono essere realizzati anch'essi nello stesso sistema.
I logici o i linguisti che descrivono dall'esterno questo tipo di fatti sono obbligati a distinguere più 'livelli' per evitare di essere, essi stessi, troppo fortemente contaminati dall'autoriferimento (v. Löfgren, 1988). Gli stessi sistemi ipercomplessi affrontano il problema ricorrendo ad 'autosemplificazioni' (v. Pattee, 1973, pp. 134 s.), accontentandosi ad esempio della descrizione delle 'componenti dominanti' (leading parts), come suggerisce Emery (v., 1967, pp. 208 ss.); ma facendo questo, espongono a loro volta all'osservazione e alla descrizione la selettività di tale autodescrizione semplificatrice entro il sistema.
Un'importante possibilità di creare forme stabili di autodescrizione è la finzione: la finzione secondo cui lo Stato è una 'persona giuridica', un collettivo è 'capace di agire', l'opinione pubblica è un''opinione'. Le finzioni generano realtà resistenti all'osservazione, che funzionano (finché funzionano) nonostante che e proprio perché ognuno sa che tutti sono al corrente delle loro caratteristiche. Non nuoce in questo caso neppure l'osservazione degli osservatori che contribuisce anzi a consolidare ciò che costituisce, secondo la terminologia usata da Heinz von Foerster (v., 1981, pp. 273 ss.), un 'comportamento intrinseco' del sistema.
Al fine di raggiungere la necessaria semplificazione, le descrizioni della complessità possono, infine, servirsi della distinzione fra complessità strutturale e complessità operativa. Ciò vale per le eterodescrizioni in tutti quei casi in cui il sistema descrivente non dispone della requisite variety, e vale necessariamente per le autodescrizioni poiché nessun sistema può possedere la requisite variety in rapporto a se stesso (altrimenti dovrebbe duplicarsi in se stesso). Le descrizioni che si limitano a considerare le strutture del sistema possono avere una configurazione alquanto più semplice di quelle che tengono conto di tutte le operazioni del sistema. Con esse si rinuncia, tuttavia, a esplicitare che tutti i sistemi sono più complessi al livello delle loro operazioni di quanto non lo siano al livello delle loro strutture.
Il concetto di complessità sociale si riferisce ai sistemi sociali. Benché esso non assuma alcun senso preciso se non si tiene conto dei presupposti elaborati dalla teoria dei sistemi, la sociologia che se ne occupa non ha accolto né assimilato i suggerimenti che avrebbero potuto giungerle dalla discussione generale del concetto e del problema della complessità. Come in molte altre discipline il concetto di complessità (se usato) viene impiegato anche qui senza definizione ed esprime tutt'al più una vaga indicazione del problema. Questo da un lato fa sì che la formula della 'riduzione della complessità' riscuota un alto grado di attenzione, come se si dovesse fare qualcosa in tal senso o qualcuno ne fosse persino responsabile, ma, d'altro lato, mette in luce la mancanza di un impegno adeguato volto ad adattare al concetto di complessità i contesti concettuali e teorici. Così il problema della complessità può essere usato, ad esempio, per presentare in una luce positiva l'economia basata sul meccanismo dei prezzi e con essa l'economia liberale di mercato (v. Hayek, 1964), e proprio questa impostazione viene poi presa di mira dai critici che sospettano o svelano il carattere preconcetto di tale uso del termine.
Un resoconto dello stato della ricerca nell'ambito delle scienze sociali in generale, e della sociologia in particolare, non va sostanzialmente al di là di questo quadro. Ciò è dovuto a notevoli carenze teoriche e alla mancanza di contatti interdisciplinari. È indubbio che la sociologia abbia accresciuto nel corso del tempo la capacità analitica dei propri concetti: molto raramente si muove ancora oggi dall'assunto che l'ordine sociale sia costituito da uomini concreti; questa categoria è stata sostituita dal concetto di ruolo e oggi, in larga misura, da quello di azione sociale. Il conseguente vantaggio in termini di astrazione viene tuttavia sprecato se si aderisce all'idea che solo uomini concreti siano in grado di 'agire'. Se si vuole essere all'altezza delle pretese di esattezza risultanti dagli sviluppi verificatisi nella teoria generale dei sistemi e specialmente dall'analisi di condizioni autoreferenziali nella logica, nella biologia e nella teoria informatica, si deve pretendere che le scienze sociali compiano una serie di scelte concettuali e vadano di gran lunga al di là dell'attuale livello di consenso disciplinare. Non è altrimenti pensabile, del resto, inserire nella teoria sociologica un concetto di complessità che assuma i lineamenti esposti nel capitolo precedente.
Sarebbe opportuno anzitutto stabilire univocamente quale sia, nel caso delle relazioni sociali, l'unità elementare presupposta nel concetto di complessità. La scelta è in questo contesto fra l'azione e la comunicazione. Una serie di ragioni farebbe propendere per il concetto di comunicazione (v. Luhmann, 1984, pp. 191 ss.) in quanto soltanto la comunicazione è un'operazione autenticamente sociale. Non si può tuttavia dire che la disciplina abbia già compiuto questo passo che porta dall'azione alla comunicazione, e nemmeno che essa sia consapevole della mole di spiegazioni che l'aspetterebbe se lo facesse. Anche quando la comunicazione, come nel caso di Habermas, assume un ruolo importante (e con essa i contatti con ricerche nell'ambito dell'analisi linguistica), essa viene concepita come un particolare tipo di azione (v. Winograd e Flores, 1987).
Finché non si decide chiaramente che tipo di operazione fungerà da elemento la cui unità, non essendo scomponibile, non potrà essere ulteriormente ridotta, non è possibile neppure descrivere come un sistema traccia i confini rispetto al proprio ambiente, per costituirsi in sistema mediante la differenziazione. Ma se non viene chiarito questo, resta indefinito cosa sia mai quell'unità designata come 'complessa', e come tale unità si riproduca grazie a una combinazione selettiva delle sue strutture. Niente vieta naturalmente di considerare la complessità come un fenomeno esclusivamente soggettivo, una sorta di onere eccessivo imposto alla conoscenza e all'agire. Ma nell'intento di elaborare tale punto di vista, ci si imbatterebbe nuovamente nell'interrogativo sollevato dalla teoria sistemica a cui non si riesce a rispondere senza fornire concetti più precisi.Restano così alla fine inutilizzate le possibilità di assumere la teoria della descrizione della complessità all'interno della sociologia. Nessuno metterà in dubbio che le società e numerosi altri sistemi sociali riflettono se stessi, e contengono quindi una descrizione di sé. Un sociologo che volesse contestare questa verità dovrebbe riflettere bene prima di farlo. Dovrebbe quindi risultare seducente cercare di approfondire i problemi dei sistemi ipercomplessi che contengono una descrizione semplificante della propria complessità ed espongono, a sua volta, tale descrizione, in quanto operazione del sistema che da essa viene descritto, all'osservazione e alla descrizione. La linguistica moderna conosce bene, per quanto riguarda il linguaggio, questo fenomeno di autoimplicazione. La sociologia invece non si è fino a oggi confrontata con esso, forse perché preferisce disputare i propri problemi teorici sotto forma di polemiche in cui soltanto il versante di volta in volta opposto della controversia viene presentato come dipendente dalla società (affetto da ideologismo, ecc.).
L'assenza di definizione e l'insufficiente determinatezza del concetto di complessità (imputabile, per ironia, al concetto stesso) potranno apparire tollerabili se si usa il concetto non già per designare un oggetto ben determinato, ma soltanto per indicare un problema, come vuole, del resto, un uso linguistico diffuso. Chiunque voglia vivere un'esperienza o fare qualcosa, deve fare i conti con la complessità. Tutto ciò che accade può essere inteso come 'riduzione della complessità'; la complessità viene impiegata, in questi casi, come una formula che esprime la contingenza, designando semplicemente la selettività di ogni accadere. La complessità può essere sempre ridotta anche in altro modo: è questo e nient'altro che tale uso del termine intende significare. Esso rimane estremamente non informativo, ma ha un senso in quanto principio ultimo di un confronto funzionale fra ogni oggetto e tutti gli altri. Esprime inoltre, a livello del metodo di analisi funzionale, il principio secondo il quale è opportuno, nel quadro di un concetto-problema generale, tenere aperta anche la scelta dei problemi a cui riferirsi (i criteri di confronto). Anche se questo approccio è stato criticato, esso corrisponde tuttavia esattamente al principio universalmente riconosciuto che stabilisce il carattere ipotetico di ogni enunciato scientifico.
Nelle discussioni scientifiche degli anni sessanta e settanta il concetto-problema di 'complessità' è stato usato soprattutto in contesti tecnici e pianificatori. La complessità appariva come l'ostacolo principale con il quale doveva misurarsi l'opera di programmatori nell'ambito dell'informatica, di esperti in pianificazione organizzativa, di riformatori politici. Lo sfondo di una tale visione era offerto da un'analisi di Weaver (v., 1948; v. anche Rappaport e Horvath, 1951, pp. 89 s.), la quale aveva mostrato che il problema della complessità fa saltare sia le possibilità di indagare sui microsistemi (con poche variabili) sia le possibilità dell'analisi basata su dati statistici (distribuzione casuale). La scienza, lasciata così priva di metodo, non poteva fare altro che cercare di scoprire come il problema veniva affrontato dai tecnici, dai programmatori e dai pianificatori. Le cosiddette scienze dello spirito, rese avvertite dell'esistenza delle 'due culture' (C. P. Snow), ebbero così l'occasione di distanziarsi dal problema della complessità nei termini in cui veniva posto dai tecnici e di disfarsi, come se si trattasse di un corpo estraneo, delle corrispondenti teorie dei modelli, delle simulazioni matematiche, e in generale di tutto ciò che aveva sentore di 'ingegneria dei sistemi'. L'alternativa veniva formulata ricorrendo a concetti come quello di senso e usando i metodi forniti dall'ermeneutica. Era così possibile, a livello dell'agire, distinguere fra tecnica e prassi, schierandosi in favore di quest'ultima.
Tali controversie che opponevano la complessità al senso (o la tecnica alla prassi) potevano essere condotte solo grazie al fatto che mancava da entrambi i lati un'accurata analisi dei rispettivi concetti-problemi. A un esame più approfondito si rileva, infatti, che entrambe le formule si basano sulla stessa struttura, anzi si scontrano con un unico problema di fondo, vale a dire col problema della selettività obbligata (v. Luhmann, 1986). Se si aderisce alle indicazioni fornite dalla fenomenologia husserliana, anche il senso può essere rappresentato come un eccesso di rinvii che partono da un nucleo costituito dall'attualità dell'Erleben intenzionale e conducono in orizzonti non raggiungibili, cosicché ogni Erleben attuale deve selezionare quale senso è inteso successivamente. Anche l'ermeneutica ha scoperto intrecci ricorsivi in ciò che studia in quanto testo, intrecci che riportano a se stesso l'interprete che vi si immedesima. Già Schleiermacher aveva parlato di un infinito interiore. La differenza fra questa tematizzazione della necessità di selezione e quella trasmessa dal concetto di complessità è circoscritta al fatto che la teoria del senso prende le mosse dalla distinzione fra attualità e possibilità, mentre la teoria della complessità è basata sulla distinzione fra elemento e relazione, per cui la prima assume un aspetto più 'soggettivo', la seconda un aspetto più 'oggettivo'. Con i recenti sviluppi della teoria dei sistemi da un lato, e dell'ermeneutica dell'ultimo Gadamer dall'altro, questa differenza viene tuttavia relativizzata, se non in toto annullata. È lecito allora affermare che il senso è una particolare versione del problema della complessità, una versione evolutivamente tardiva e coronata da successo. Si assiste nel corso dell'evoluzione allo sviluppo di sistemi operanti sulla base del senso, i quali cioè recepiscono se stessi e il mondo nel medium 'senso' e sono in tal modo costretti a compiere tutte le operazioni in termini selettivi, partendo dalla loro temporalità di volta in volta attuale. Ne consegue lo sviluppo di particolari forme di senso capaci di collegare fra loro delle possibilità aperte, di rendere il senso comprensibile e di consentire un apprendimento sufficientemente rapido. Sulla base di questi presupposti, i sistemi operanti sulla base del senso possono allora recepire anche il problema della complessità soltanto in base al senso, per cui occorre definire in modo circolare i concetti di senso e di complessità. Essi si presuppongono l'un l'altro.
Finché la complessità viene rappresentata con i concetti semplici 'elemento' e 'relazione', è possibile trascurare il tempo. Ma questa semplificazione deve essere eliminata non appena abbiamo a che fare con sistemi i cui elementi sono di breve durata o addirittura esistono soltanto come eventi. Si tratta in primo luogo di capire, in generale, come i sistemi possono essere stabili nel tempo, dato che hanno a che fare con elementi di breve durata e sono quindi obbligati a rimpiazzarli. Il problema che si pone è come un sistema stabile può essere composto da elementi labili. Evidentemente l'evoluzione nella formazione dei sistemi trasforma la labilità in stabilità, la transitorietà rapida in transitorietà lenta; la forma più elementare in cui ciò avviene è, del resto, la garanzia del permanente ricambio degli elementi, dunque la replicazione nello stesso luogo e secondo un modello analogo e comunque funzionalmente identico. Pensiamo, ad esempio, agli organismi che sostituiscono le proprie cellule o a posizioni sociali i cui detentori cambiano.
L'integrazione della dimensione temporale non comporta in un primo momento rilevanti novità per la teoria dei sistemi complessi: si limita a moltiplicare il numero degli elementi per la frequenza con la quale essi devono essere rimpiazzati nel tempo, mettendo inoltre in evidenza che i sistemi di questo tipo devono disporre di meccanismi di riproduzione in grado di effettuare il ricambio e di garantire una qualche omogeneità degli elementi di ricambio. Il quadro cambia repentinamente se si abbandona il presupposto dell'omogeneità degli elementi che si sostituiscono a vicenda (quindi il modello 'cellula', 'ruolo', 'posizione sociale'). Nel momento in cui all'interno di sequenze ricorrono, al di là della mera replicazione, delle novità, quindi delle discontinuità, un sistema produce complessità temporale, diversità nella successione temporale. "Una successione di eventi in cui è presente un elemento dotato di novità a breve termine avrà un grado più elevato di complessità temporale di un'altra che è puramente ripetitiva" (v. Berlyne, 1960, p. 43). Questa temporalizzazione della complessità, accompagnata da una corrispondente esigenza d'ordine, si intensifica con la formazione di sistemi che non possono esistere se non sostituendo i propri elementi con elementi di volta in volta diversi. I sistemi di questo genere non sono più composti di elementi di durata più o meno breve (in confronto al periodo di stabilità del sistema), ma consistono di elementi che non hanno durata alcuna: di eventi che, nel momento stesso in cui vengono prodotti, svaniscono immediatamente e devono essere rimpiazzati da altri eventi, pena la fine dell'esistenza del sistema stesso. Tali sistemi possono essere anche definiti come dinamicamente stabili, intendendo con ciò il fatto che essi sono in grado di mantenersi nel proprio ambiente soltanto mediante una dinamica autoprodotta. Si tratta di sistemi caratterizzati da un'instabilità endogena.
Solo i sistemi di questo tipo acquisiscono la possibilità di sostituire la reazione all'ambiente con la reazione a stati interni al sistema. Solo i sistemi dinamicamente stabili possono essere dei sistemi chiusi sotto il profilo operativo. Anche il cervello è un sistema che corrisponde a questo tipo (il che vieta di affermare che esso sia composto da cellule cerebrali). Ciò vale a maggior ragione per la coscienza umana, quindi per i sistemi psichici, e per tutti i sistemi sociali. In tutti questi casi gli elementi che sorreggono lo schema di complessità dei sistemi hanno il carattere di eventi. Inoltre in questi casi gli elementi non possono essere replicati, e neppure modificati. Essi scompaiono comunque, per cui il sistema sopravvive soltanto se è in grado di formare permanentemente nuovi elementi, nuovi eventi, e di connetterli fra loro. Nessuna coscienza può pensare sempre lo stesso pensiero, come un sistema di comunicazione non può limitarsi a ripetere ciò che è stato già detto. Entrambi i sistemi sono strutturalmente obbligati a una discontinuità permanente, ed è questa la ragione per cui devono predisporre strutture che siano in grado di organizzare la capacità di connessione fra i propri elementi.
Quale può essere, nell'ambito di una teoria della complessità, il senso della formazione di tali sistemi? Coloro fra i biologi che partono da concezioni basate sulla replicazione potrebbero sostenere che si tratti di un errore dell'evoluzione che ha presumibilmente poche chances di affermarsi ed è destinato ad avere vita breve. L'errore comincerebbe già con il cervello e l'uomo si appresterebbe a porre fine a tale sviluppo deviante. Proprio se ci si pone nell'ottica della costruzione di complessità è tuttavia possibile individuare anche una serie di vantaggi di tali sistemi. Essi costringono se stessi a temporalizzare la complessità; trasferiscono nella successione temporale il modello selettivo di collegamento degli elementi, organizzando strutture relativamente stabili in senso temporale che consentano loro di governare la costante riproduzione di sequenze di elementi (processi). La conquista evolutiva del linguaggio ne costituisce l'esempio più celebre. La non arbitrarietà (negentropia), mediante la quale un sistema si differenzia dal proprio ambiente, risiede allora nella sequenza delle sue operazioni e quindi anche nella sua capacità di modificare i propri processi durante il loro svolgimento, qualora se ne presenti il motivo. Questi sistemi acquistano inoltre una straordinaria autonomia. I loro elementi, essendo esclusivamente eventi, sono prodotti interamente all'interno del sistema. Una frase è tale unicamente all'interno di una lingua. Naturalmente è necessario che siano e restino garantiti certi presupposti acustici (o, nel caso del linguaggio scritto, ottici) che non contribuiscono comunque in nulla al carattere unitario né alla capacità connettiva dell'operazione 'frase'. Il sistema è costituito in forma 'autopoietica' a un livello non eguagliato neppure dalla vita organica.
Se si tiene presente questa particolarità, questa improbabilità evolutiva e quindi il carattere rischioso di tale temporalizzazione obbligata della complessità, si riesce a individuare anche la funzione di altre conquiste corrispondenti. Si tratta di dispositivi -sorti per circoscrivere il rischio e proteggere, in un certo senso, le strutture - che hanno il compito, nel funzionamento corrente del sistema, di acquisire operazioni connettive sempre nuove, e sono tenuti a limitare ciò che si presenta come operazione successiva. Lo stesso cervello possiede come correttivo una complicata procedura di verifica della coerenza delle operazioni di volta in volta attuali, procedura che siamo soliti designare con il termine 'memoria'. La coscienza vive la memoria in parte come impressione compatta di familiarità, in parte come scomposizione spaziale e temporale di incoerenze; ne consegue che le impressioni incoerenti non vengono soltanto vissute in modo impreciso e diffuso (ciò continua comunque a verificarsi), ma possono anche essere corrette assegnando loro distinte collocazioni nel tempo e nello spazio. Nel sistema della comunicazione sociale, infine, la dipendenza della comunicazione dalle sequenze temporali viene ulteriormente attenuata, nelle società che conoscono la sola comunicazione orale, dall'istituzione di sistemi intermittenti di interazione, quindi da sequenze di interazioni suscettibili di essere interrotte e successivamente riprese, dotate dei necessari strumenti di identificazione. Anche questo livello di dipendenza dalle sequenze viene ulteriormente neutralizzato con l'invenzione della scrittura e, infine, della stampa tipografica, grazie alle quali è possibile ora attingere in qualsiasi momento alla comunicazione. Questa prospettiva chiarisce quali siano le immense ripercussioni che la tecnologia della comunicazione ha su ciò che diventa possibile a livello di struttura sociale. La ricerca che, nell'ambito delle scienze sociali, si interessa a tali questioni si è ormai notevolmente ampliata, e tuttavia ha saputo offrire poco più della constatazione della semplice esistenza di tali ripercussioni. Le considerazioni svolte nel quadro della teoria della complessità esplicitano invece il perché di tali ripercussioni e precisano specialmente perché proprio un sistema caratterizzato da una complessità necessariamente temporalizzata è particolarmente sensibile a esse.
È relativamente agevole cogliere e rappresentare i contesti teorici in cui è possibile inserire il concetto di complessità e in cui tale concetto può operare. Di più difficile soluzione si presentano una serie di problemi di metodo, i quali sono infatti tuttora irrisolti. Vi sono in primo luogo problemi relativi alla misurazione. Parlando di minore e maggiore complessità, di aumento e diminuzione (oltre che di riduzione) della complessità, si suggerisce che si abbia a che fare con un dato misurabile. Se si vuole rendere giustizia al concetto di complessità, occorre tuttavia impostare ogni misurazione in termini pluridimensionali, distinguendo cioè almeno il numero, la qualità e la frequenza di ricambio degli elementi entro un determinato intervallo di tempo, a cui va aggiunta, inoltre, una misura dell'intensità dell'interdipendenza. Ciò conduce a numerose difficoltà inerenti alle tecniche di misurazione che non sono comunque, singolarmente considerate, ignote alla metodologia. È risaputo che non esistono procedimenti matematici che consentano di aggregare concetti pluridimensionali senza una perdita di informazione; il problema è appunto di appurare se non va forse perso proprio quello che si vorrebbe cogliere con il concetto di complessità (v. per esempio Metlay, Technical note..., 1975 e On studying..., 1975, con la sua proposta di rendere calcolabile la complessità pluridimensionale mediante un calcolo matriciale). Ma la pluridimensionalità esclude soprattutto la possibilità di indicare per ogni singolo caso se la complessità di un oggetto sia maggiore o minore di quella di un altro oggetto. Forse è lecito affermare che la complessità aumenta quando viene incrementato il numero di relazioni fra un dato numero di elementi (un'aspettativa che si esprime in concetti come 'partecipazione'). Ma potrà dirsi anche, in presenza di un potenziale costante di connessione, che l'aumento degli elementi o della varietà (includendo una qualche misura qualitativa) faccia crescere la complessità? Berlyne (v., 1960, p. 38), ad esempio, afferma: "Se ogni altra cosa resta identica, la complessità aumenta con l'aumentare del numero di elementi distinguibili". La clausola ceteris paribus è però una finzione, non si avvera mai. È inoltre universalmente condivisa la convinzione che nei sistemi complessi la struttura limita la crescita in grandezza (v., per esempio, Tranöy, 1959, pp. 18 ss.). Il problema metodologico più interessante riguarda invece la possibilità di stabilire una relazione quantitativa fra queste due forme di aumento - maggior numero di elementi, maggior numero di relazioni - senza trascurare importanti differenze formali. Una volta risolti più o meno artificiosamente tutti questi problemi, resterebbe comunque da chiarire se tali aumenti o diminuzioni si verifichino in una sola dimensione, e se i problemi teorici non risiedano precisamente nelle interdipendenze fra i mutamenti che intervengono nelle singole dimensioni; sono infatti proprio queste interdipendenze a rappresentare l'unità di ciò che viene indicato con il concetto di complessità (v. Shull jr. e altri, 1970, pp. 145 ss., basato su materiale tratto da un'indagine sui microgruppi). Il confronto deve allora avere per oggetto le singole dimensioni, e si rinuncia in questo caso a occuparsi della complessità in quanto unità (ma ciò significherebbe rinunciare al concetto stesso), o solo i casi estremi possono essere definiti come chiaramente maggiori o minori (e a tal fine basterebbe un qualche criterio di valutazione). È chiaro che un cervello è ben più complesso di una coscienza; ma si può dire che una società è più complessa di un cervello, o che il sistema giuridico della società è più complesso del suo sistema scientifico, o ancora che il sistema giuridico della società moderna è più complesso di quello medievale?
Su un altro piano si colloca la sopracitata convinzione di Weaver (v., 1948) secondo la quale il concetto di complessità (nell'unica versione interessante: quella della 'complessità organizzata') va al di là dei metodi scientifici conosciuti, che tengono conto soltanto di un piccolo numero di variabili operando con ipotetiche condizioni di tipo ceteris paribus, oppure eseguono analisi statistiche che presuppongono una distribuzione casuale. Per reagire a questa situazione sono state proposte indagini che approfondiscono il procedimento operativo adottato nella costruzione o nell'analisi di sistemi dotati di elevata complessità. Vi è ormai un consenso generale sul fatto che la soluzione consiste in una prassi fondata sulla differenziazione sistemica (il caso più noto è quello di Simon: v., 1962). Un'unità complessa viene scomposta in parti che possono essere prodotte o analizzate in modo relativamente indipendente le une dalle altre. Ciò presuppone, tuttavia, totalità che contemplino un legame molto debole fra le loro rispettive parti (per il teorema della near decomposability), e di conseguenza questo metodo ha possibilità di applicazione molto ridotte nella realtà sociale. Tipico dei sistemi differenziati, infatti, è che essi incrementano sia le reciproche indipendenze dei loro sottosistemi sia le reciproche dipendenze fra essi; è proprio in questo che risiedono insieme l'unità e la complessità del sistema globale.
Nonostante tutte queste difficoltà, è senz'altro utile continuare a ricercare una metodologia idonea all'analisi dei sistemi complessi. Un approccio che potrebbe in proposito rivelarsi efficace è la pratica del trial and error diffusa nei sistemi complessi di tipo tecnico: essa consiste nel fare un tentativo e nel determinare in base ai risultati ciò che va migliorato e ciò che funziona. Si usano, in altre parole, una serie di irreversibilità relative e il tempo, secondo il modello dell'evoluzione. La genetica insegna, infatti, che è spesso più facile analizzare un sistema osservando la sequenza dei passi con i quali viene costruito, piuttosto che la complessità del risultato che ne è derivato.
Detto tutto questo, non abbiamo ancora tuttavia affrontato il problema centrale dal punto di vista teorico, il problema di come operare con un concetto che non designa un oggetto ma una distinzione. Se ciò che è complesso non è più determinabile come differenza rispetto a ciò che è semplice, ma è esso stesso la differenza contrassegnata dalla distinzione fra collegabilità integrale e collegabilità selettiva degli elementi, si dovrebbe poter disporre di una logica per l'elaborazione delle distinzioni, per riuscire a osservare e descrivere la realtà dal punto di vista della complessità in un modo adeguato al concetto stesso. Fino a oggi, invece, la scienza non ha recepito né la grande logica di Hegel né la logica operativa di Spencer-Brown (v., 1969), e anche nella filosofia i due tentativi non sono stati finora ripresi, ma neppure sostituiti con altri approcci caratterizzati da ambizioni analoghe. Ciò vale anche, e non da ultimo, per la considerazione di condizioni autoreferenziali in queste logiche, ad esempio riguardo a concetti quali 'spirito' (Geist) o re-entry. Dobbiamo quindi per ora limitarci a segnalare che il lavoro scientifico dedicato al concetto di complessità ristagna in questo punto.
'Complessità' è la distinzione per la quale la realizzazione integrale di relazioni fra ogni elemento e tutti gli altri è possibile soltanto per sistemi di dimensioni molto ridotte. Questa condizione, che segna la differenza fra collegamento integrale e collegamento selettivo, impone in uno dei due casi, e precisamente per il concetto di selezione, l'attuazione di altre distinzioni: attraverso forme sempre nuove viene selezionato questo e non quello. L'elaborazione di tali distinzioni conduce alla differenza fra sistema e ambiente. Questa differenza può essere reintrodotta nel sistema attraverso un re-entry (v. Spencer-Brown, 1969) e funge allora da distinzione fra autoriferimento ed eteroriferimento all'interno del sistema. Un osservatore che intenda descrivere tali dati di fatto deve essere, egli stesso, un sistema analogo e immettere quindi l'autoriferimento nelle sue descrizioni; in altre parole, egli deve a sua volta procedere in modo autologico. Ciò rende ancora una volta necessario spostare l'intera problematica a un livello di osservazione di secondo grado, al livello cioè dell'osservazione di osservatori. I problemi inerenti alle condizioni autoreferenziali, connessi con tale spostamento, sono oggi noti e diffusamente discussi. Tuttavia tali discussioni fanno raramente riferimento al concetto di complessità. Questo concetto, se introdotto nel modo precedentemente delineato, potrebbe contribuire a rendere comprensibile la genesi dei sistemi autoreferenziali.
Tali analisi assumerebbero un'importanza fondamentale per la problematica della complessità sociale. I sistemi sociali sono infatti, senza alcun dubbio, sistemi che contengono autodescrizioni. Una società che descrive se stessa come sistema complesso riflette in sé il fatto che essa si descrive. Per questa ragione il concetto di complessità ha una rilevanza centrale per la teoria della società, in quanto riesce, per esempio, a precisare che le operazioni autoreferenziali (osservazioni, descrizioni) del sistema sociale vengono realizzate durante la costruzione della complessità di quel sistema e non vanno invece ricondotte al fatto che vi concorrono uomini con la loro coscienza (tutto considerato relativamente poco complessa). La problematica autoreferenziale del concetto mette inoltre in luce che la ricerca sociologica, essendo una fra le tante descrizioni della società, concorre a produrre l'ipercomplessità di questo sistema, e che si occupa di un oggetto entro il quale tale ricerca viene osservata. Non dovrebbe quindi stupirsi la sociologia se la società reagisce alle ricerche svolte dai sociologi e alla loro pretesa di sapere cosa sia un sistema sociale, e specialmente la società moderna.
I problemi metodologici irrisolti, uniti a quelli inerenti alla logica delle distinzioni, hanno fatto sì che i sociologi seriamente impegnati nella ricerca tendano a evitare questo sguardo nello specchio o non ricorrano comunque a tal fine a un'analisi del concetto di complessità. Quando questo concetto compare in indagini che aspirano a risultati empirici (come accadeva soprattutto nella ricerca, ormai non molto popolare, incentrata sul tema della modernizzazione), esso viene usato abbastanza semplicisticamente in chiave operativa, facendo per lo più riferimento a differenziazioni di ruolo o a differenziazioni sistemiche (v., per esempio, Freeman e Winch, 1957; v. Hall e altri, 1967; v. Abrahamson, 1969; v. Brunner e Brewer, 1971). In questi casi si può tuttavia fare a meno di ricorrere al concetto di complessità, sostituendolo con quello di differenziazione. Solo stabilendo stretti legami con gli sviluppi concettuali e teorici in atto nella logica e nella linguistica, nella cibernetica, nella teoria dell'informazione e nella teoria dei sistemi, la sociologia potrà acquisire un concetto di complessità sociale che sia all'altezza dei problemi posti dalla società moderna. I sociologi sanno bene che i sistemi tramandano ordinamenti stabilizzati e cercano di impedire la riproblematizzazione della loro complessità (v. Lanzara e Pardi, 1980, p. 31), ma ciò non dovrebbe impedire a nessuno di provarci. (V. anche Divisione del lavoro; Governabilità; Sistema politico; Sistema sociale).
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