commercio internazionale
Le teorie del commercio internazionale
Le determinanti e le cause del commercio internazionale sono state a lungo studiate, dando vita a un’importante branca dell’economia internazionale. Una prima questione consiste nel comprendere quali siano i fattori che sono all’origine della specializzazione internazionale dei Paesi (ossia quali sono le tipologie di beni esportati o importati da ciascun Paese e perché); un secondo ambito d’indagine si concentra sugli effetti dell’apertura al commercio internazionale (chi ci guadagnerà e chi ci perderà in seguito al processo di specializzazione); infine, un terzo ambito di studio (la politica commerciale) riguarda le possibili azioni da intraprendere per limitare le importazioni e favorire le esportazioni, e gli effetti di queste misure sul benessere economico.
Le diverse teorie e i vari indirizzi di politica commerciale concretamente attuati possono essere riportati all’antitesi tra la concezione del liberismo, favorevole alla massima libertà negli scambi internazionali, e i principi del mercantilismo, del protezionismo e dell’autarchia, limitatori della libertà degli scambi. Data l’importanza che lo sviluppo e l’arresto delle correnti di scambio internazionale presentano per l’economia di ogni Paese, è naturale che questo settore sia stato oggetto di interventi da parte degli Stati nazionali. A seconda delle circostanze hanno prevalso politiche protezionistiche (come durante le due guerre mondiali) o politiche decisamente più improntate alla liberalizzazione del commercio internazionale.
Nell’ambito del commercio internazionale, un’importante distinzione è quella tra il commercio inter-industriale e quello intra-industriale. Il primo consiste nello scambio di beni e servizi appartenenti a industrie/settori diversi (per es., prodotti tessili con autovetture); il secondo si riferisce allo scambio di beni e servizi all’interno della stessa industria/settore. Quanto più i Paesi sono produttori specializzati in beni diversi, tanto maggiore sarà la quota del commercio interindustriale rispetto a quello intra-industriale. Le teorie tradizionali del commercio internazionale si sono prevalentemente concentrate sulle determinanti e sugli effetti del commercio interindustriale.
È la più antica tra le teorie del commercio internazionale, anche nota come teoria dei vantaggi comparati, e si deve a D. Ricardo. Secondo quest’ultima, la primaria determinante del commercio internazionale risiede nelle differenze tecnologiche esistenti fra diversi Paesi, che si sostanziano in differenti produttività relative e diversi salari in diversi settori produttivi. La combinazione di produttività e costi del lavoro renderà più conveniente, per ciascun Paese, produrre solo alcuni beni e importarne altre tipologie da Paesi esteri, dove tali beni possono essere prodotti in modo più conveniente. L’apertura al commercio internazionale, quindi, porta ogni Paese a specializzarsi nelle produzioni nelle quali è relativamente più efficiente e risulta vantaggiosa per tutti gli attori.
Tale teoria, elaborata da E.F. Heckscher e B. Ohlin, e affermatasi per molti anni come paradigma dominante del commercio internazionale, afferma che la principale determinante del commercio internazionale non risiede nelle differenze tecnologiche fra Paesi, ma piuttosto nelle diverse dotazioni relative di fattori produttivi (capitale, lavoro, terra ecc.). L’apertura al commercio internazionale, portando ogni Paese a specializzarsi nella produzione dei beni a più alta intensità del fattore relativamente più abbondante (ossia che utilizzano tale fattore relativamente di più degli altri), avvantaggia i proprietari del fattore abbondante a scapito dei proprietari di quello scarso. Un corollario della teoria neoclassica, dovuto a P.A. Samuelson, asserisce che, pur in assenza di mobilità dei fattori della produzione, lo scambio di beni porta a una tendenza verso il pareggiamento dei prezzi dei fattori (➔ anche Stolper-Samuelson, teorema di). La teoria della proporzione dei fattori è stata sottoposta a numerose verifiche empiriche con risultati poco favorevoli, tra tutti il cosiddetto paradosso di Leontief (➔ Leontief, Wassily).
Queste teorie si sono sviluppate a partire dagli anni 1980 e vi hanno contribuito autori quali P.R. Krugman, E. Helpman, H. Grossman. Esse si concentrano sullo studio del commercio internazionale tra Paesi simili, di tipo intraindustriale (un Paese importa ed esporta allo stesso tempo automobili), e si basano sui concetti di concorrenza monopolistica tra imprese e di interesse per la varietà nelle preferenze dei consumatori. In questi modelli la principale determinante del commercio internazionale risiede nell’esistenza di rendimenti di scala crescenti (➔ scala, rendimenti di) per cui a ogni Paese conviene specializzarsi in una gamma ristretta di beni al fine di ampliare la scala di produzione e ridurre i costi medi. I consumatori traggono quindi beneficio dall’apertura al commercio internazionale,perché essa porta prezzi più bassi e a una maggiore varietà di beni da consumare.
Parallelamente allo sviluppo delle teorie precedenti si è affermato un altro filone di studi, noto con il nome di approccio al commercio internazionale, basato sui divari tecnologici. Questo indirizzo pone l’accento sulle differenze tecnologiche tra Paesi e settori quali principali cause del commercio internazionale. Diversamente dal modello ricardiano, però, ciò che conta sono i vantaggi assoluti e non quelli comparati. Le verifiche empiriche hanno confermato l’importanza strategica delle variabili tecnologiche (spesa in ricerca e sviluppo, brevetti ecc.) nello spiegare il commercio internazionale. Tra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec. l’attenzione si è venuta spostando sul comportamento eterogeneo delle imprese sui mercati internazionali (per es., i costi fissi di esportazione potrebbero far sì che solo le imprese più produttive esportino).
Nell’ambito delle teorie del commercio internazionale si suole anche distinguere tra beni commerciabili e beni non commerciabili; questi ultimi, in passato, venivano identificati con i servizi; oggi la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha favorito la frammentazione della produzione e ha portato a una notevole crescita del commercio di servizi, soprattutto di quelli ad alta intensità di conoscenza.
Approccio alternativo al commercio convenzionale, che si basa sull’esistenza di una relazione paritaria fra tutti i soggetti che risultano coinvolti nella catena di commercializzazione. È una forma di commercio internazionale che si propone come scopo quello di riequilibrare i rapporti con i Paesi economicamente meno sviluppati, migliorando l’accesso al mercato e le condizioni di vita dei produttori svantaggiati, attraverso una più equa distribuzione dei guadagni. Questo obiettivo viene generalmente realizzato mediante l’impegno dei partecipanti all’iniziativa di commercio equo e solidale a pagare un prezzo equo, che garantisca una congrua remunerazione ai produttori per il loro apporto di lavoro, competenza e risorse, e l’assegnazione di una giusta quota del profitto complessivo, spesso negoziato caso per caso.