COMIGNOLO (derivato dal lat. culmen "colmo"; fr. faîte; sp. caballete; ted. First; ingl. ridge)
È propriamente la linea di colmo di un tetto a una o più spiovenze, e risulta orizzontale o inclinata secondo che è parallela o no alla linea di gronda del tetto stesso. Il nome di comignolo si dà anche al trave che unisce i vertici superiori delle incavallature e alle tegole, spesso di forma e dimensioni speciali, talora anche variamente decorate, destinate a coprire la linea di colmo risultante dalla intersezione di due falde opposte. Infine, dalla espressione più esatta e completa di "comignolo di camino", che a rigore indicherebbe solo la copertura del camino, è derivato l'uso ormai generale di chiamare comignolo tutta la porzione della cappa che sporge al disopra del tetto, specie se di dimensioni e forma notevoli. In questo senso (fr. souche de cheminée; sp. chimenea; ted. Kamin, Schornstein; ingl. chimney-top), il comignolo è un elemento non privo di storia e di valore ornamentale.
Esso ebbe sempre una certa importanza nei paesi dove il clima imponeva fumaioli numerosi per il gran numero di camini nell'interno delle abitazioni, e di grandi dimensioni a causa delle forti pendenze e quindi delle notevoli altezze dei tetti. Il comignolo costituì pertanto un elemento caratteristico delle case nordiche fino dal Medioevo.
Durante il Rinascimento si cominciò a sfruttarlo come motivo decorativo e specialmente in Francia ove i comignoli numerosissimi e fastosi si alternano ai caratteristici abbaini "à la Mansarde" (mansardes) per costituire il coronamento caratteristico dei castelli del '500, tra cui più degni di nota quelli di Chambord (fig. 1) e di Fontainebleau. L'uso si diffuse molto in inghilterra dove, specialmente nei secoli successivi, i comignoli raggiunsero dimensioni straordinarie, che si spiegano solo con l'intenzione di ottenerne un effetto decorativo di primaria importanza (fig. 2). Tale uso si è mantenuto colà fino ai giorni nostri.
In Italia, dove la minore inclinazione dei tetti non fece mai sentire la necessità dei comignoli tanto alti, questi rimasero poco visibili e quindi il loro uso decorativo si sviluppò più tardi e più limitatamente. Come per il camino anche per il comignolo sembra che il primo centro di diffusione debba considerarsi Venezia. Certo si è che là si trovano quei caratteristici esemplari del sec. XV costituiti da una canna fatta di uno o più cilindri riuniti, sormontata da uno o più tronchi di cono svasati in alto. Tale forma, che appare spesso nei dipinti dei quattrocentisti veneziani, specialmente Gentile Bellini (fig. 3) e Vittore Carpaccio, può considerarsi come il primo tipo nel quale appaia un certo intento di stabilità e di decoro. Dalla città l'uso si diffuse nelle campagne del Veneto ove i comignoli di forme varie, ma sempre ritmicamente e spesso simmetricamente disposti, divennero, con le statue e i vasi decorativi, un caratteristico motivo di coronamento delle ville patrizie del '500 e '600.
Anche nel Piemonte, specie durante il periodo barocco, il comignolo prese forme ricche e varie, fra cui molto diffusa quella dalla canna attorcigliata a foggia di vite. Ma gli aspetti più originali e imprevisti li ebbe dall'architettura romana del '600 e '700. Già nel sec. XVI il semplice schema primitivo si era trasformato e ingentilito sostituendo al piccolo tetto di copertura una cuspide piramidale o conica o complicando in varî modi la canna. I due che simmetricamente sormontano il palazzo della Zecca di Antonio da Sangallo il giovane, e la vignolesca Villa di papa Giulio III, ci dànno un esempio dell'effetto decorativo che se ne voleva ottenere. La loro forma è quella semplice, rimasta molto in uso anche in seguito, che presenta alla sommità di ciascuna faccia della canna un'altra piccola canna aperta in basso che protegge e sostituisce le semplici aperture di sbocco del fumo. La copertura è costituita da una cuspide curvilinea, sormontata da una pigna terminale.
Nei secoli successivi la varietà delle forme divenne infinita e svariatissimo il partito decorativo che se ne seppe ricavare, poiché il comignolo fornì un elemento pittoresco, che, con le altane, i loggiati, le balaustrate, servì a dare vario e ricco coronamento alle case barocche. Tra gli esempî più belli ricordiamo quelli veramente monumentali che il Cigoli elevò nel 1616 sulla facciata di palazzo Madama (fig. 4) a Roma. La loro forma è delle più fantasiose, così che ben poco resta dello schema costruttivo originario in quelle ammirevoli composizioni decorative a base di volute, cuspidi, mascheroni, ecc. Non meno magnifici e originali sono quelli del Fuga presso S. Maria Maggiore, in alcuni dei quali, su di una cimasa molto sporgente alla sommità della canna, sorge una specie di edicoletta quadrata o ottagona, coperta a cupola e fiancheggiata da volute, draghi, ecc. In quelli borrominiani del palazzo Spada il fumo esce dalle bocche di quattro mascheroni, mentre uno presso la cupola di San Carlino alle Quattro Fontane ha un aspetto di gabbia cilindrica in mattoni sormontata da un coperchio a pomo. Ma il più originale di tutti si trova su un angolo dei granai restaurati da Urbano VIII nel 1640 sulla odierna via XX Settembre. Esso è di pianta pentagonale e ciascuno spigolo della canna è nascosto in una voluta verticale (fig. 5).
Fra i più notevoli, anziché per la forma, semplice, per la distribuzione evidentemente preordinata, citiamo i comignoli che sormontano in due lunghe serie le facciate laterali del palazzo della Consulta, e quelli simmetrici dei palazzetti settecenteschi avanti alla chiesa di S. Ignazio.
Nei tempi più recenti, col diffondersi dei nuovi sistemi di riscaldamento l'importanza dei comignoli è andata scemando nelle case cittadine, ove, se sono ancora adoperati, lo sono come elementi più che altro ornamentali e imitando o ripetendo i tipi lasciatici dall'arte barocca.
Bibl.: A. Choisy, Histoire de l'architecture, Parigi 1899; G. M. Urbani De Gheltof, Venezia dall'alto. I camini, Venezia 1892; C. A. Petrucci, I camini di Roma, in Architettura e arti decorative, Roma 1927; C. Luperini, I fumaioli di Roma, in Roma, V (1927), pp. 361-376.