Comico
Etimologicamente il termine comico deriva dal greco komos, che in epoca classica indicava un genere di festino chiassoso e sregolato con il quale si festeggiava il dio del vino. Fin dalle origini, il c. è stato quindi identificato con un elemento di trasgressività, e come tale è stato normalmente descritto, tanto dalle poetiche classiche quanto dalle teorie moderne, che lo hanno associato per lo più alla modalità del deforme e/o a quella dell'incongruo. C. è in generale ciò che si presta a una lettura duplice e contraddittoria (L. Pirandello), ciò che esprime un contrasto e un'inappropriatezza (H. Bergson), ciò che crea un'attesa destinata a essere delusa (I. Kant), ciò che propone un aspetto insolito delle cose, e che quindi ne valorizza l'intima ricchezza semantica (M. Bachtin), e altro ancora. Più che un canone di genere, il c. esprime un atteggiamento complessivo del pensiero, una disponibilità a una forma di conoscenza critica e non sclerotizzata: di qui la sua fortuna storica e la varietà delle sue manifestazioni teatrali, letterarie, iconiche ecc., prima ancora che cine-matografiche; e di qui anche l'interesse che esso è stato capace di suscitare presso le avanguardie artistiche.
Proprio per tale carattere gaiamente anomalo e aperto alla spettacolarizzazione, la forma comica ha sempre goduto di ampia fortuna nel cinema, e ciò fin dai primissimi anni: già nella produzione dei fratelli Lumière si trovano brevi scenette, composte da una sola inquadratura, che si risolvono spesso in un esito comico (cfr., per es., Arroseur et arrosé, Charcuterie mécanique, Le cocher endormi, Le squelette joyeux, databili tra l'ultimo decennio dell'Ottocento e i primi anni del Novecento); nell'ultimo scorcio del 19° sec. anche l'italiano Leopoldo Fregoli portò sullo schermo le sue virtù di trasformista esibendosi in caricature, scene a trucchi eccetera. Ma fu soprattutto Georges Méliès a intuire ‒ la leggenda vuole per caso, grazie a un involontario arresto della camera durante una ripresa ‒ le straordinarie possibilità del cinema come macchina produttrice di fantasie ludiche: improvvise apparizioni e repentine scomparse di personaggi, smontaggi e schiacciamenti di corpi, trasformazioni di oggetti e ambienti fanno della produzione di Méliès un cantiere di sperimentazioni capace di mettere in risalto il carattere perennemente mutevole e sorprendente dei mondi rappresentati.In linea con la dimensione complessivamente da attrazione del cinema delle origini, la produzione comica dei primi quindici anni del Novecento privilegiò gli effetti eminentemente visivi più che lo sviluppo narrativo: le storie delle comiche dell'epoca (che in un primo tempo raramente superavano i dieci minuti di durata, e che poi nel corso degli anni Dieci si sarebbero distese fino ai due rulli ‒ in inglese two reels ‒ poco meno di venti minuti) ruotavano attorno a debolissimi canovacci che fungevano da pretesti per affollati inseguimenti, cadute, catastrofi. Le rovinose e inoffensive apoteosi facevano di questi film una conclusione ideale dello spettacolo cinematografico, un esilarante viatico per ritornare alle occupazioni quotidiane: la comica finale tendeva quindi a canonizzare l'inadeguatezza per lo più fisica dei suoi eroi. I protagonisti interpretavano di norma personaggi maldestri e incapaci di rispettare le regole che il contesto avrebbe richiesto: una sorta di incontenibile energia sembrava agitare queste figure in un universo che di fronte a loro appariva fragilissimo e precario. Questo tipo di comicità slapstick (termine che in inglese indica una piccola canna di legno usata dagli artisti comici per produrre un tipico rumore secco e improvviso) si realizzava in catastrofi che derivavano di volta in volta dall'inosservanza volontaria o involontaria di convenienze di etichetta (tipico era il lancio improvviso di torte in faccia), dall'incapacità di assolvere compiti elementari, da violazioni di norme della vita civile capaci di scatenare orde di poliziotti in rocamboleschi inseguimenti, e altro. Le cinematografie più attive in questo tipo di produzione comica furono quella francese, che annoverava fra le star di maggior richiamo i nomi di Boireau (personaggio interpretato da André Deed), Rigadin (personaggio interpretato da Charles Prince), Little Moritz; quella italiana, che contava, fra gli altri, su Robinet (personaggio interpretato da Marcel Fabre), Polidor (personaggio di Ferdinand Guillaume), Fricot (personaggio interpretato prima da Ernesto Vaser e poi da Cesare Gravina); e quella statunitense, la cui fortuna era legata soprattutto al nome di Mack Sennett, direttore dal 1912 della casa di produzione Keystone e scopritore di numerosissimi talenti.
Un'eccezione nel panorama dell'epoca fu costituita dal francese Max Linder, che precisò progressivamente la sua maschera, interpretando un genere di dandy alle prese con situazioni tipiche della vita borghese di fronte alle quali appare incapace di comportarsi correttamente: rispetto alla maggior parte dei suoi contemporanei, la cui comicità era frutto di un impulso distruttivo legato al carattere eccessivo del personaggio, Linder proponeva una comicità più sottile e raffinata, fonda-ta talvolta su una qualche deficienza del personaggio stesso (cfr. per es., Les débuts d'un patineur, 1907, di Louis Gasnier, e Max fait du ski, 1910, diretto dallo stesso Linder), talvolta su una maggiore incisività narrativa delle situazioni (cfr., per es., Max victime du quinquina, 1911, di Linder, Le baromètre de la fidélité, 1912, di Linder e Max Aghion, e Jalousie noto anche come Max et le mari jaloux, 1914, di Linder).
I film di Linder, prodotti fra il 1906 e il 1923, vennero a cadere in una fase cruciale dello sviluppo del racconto cinematografico, segnata dal progressivo allungamento del metraggio, dall'assestamento delle forme della fruizione e da una maturazione del linguaggio che implicò anche una maggior definizione dei personaggi e un più articolato sviluppo delle situazioni. Anche il cinema comico registrò questa evoluzione: ai film fatti di effetti istantanei, che puntavano essenzialmente a stupire il pubblico, si affiancarono film più elaborati. L'esito comico non era più affidato al solo estro dell'attore, ma prodotto da una dinamica regolata mediante una precisa scansione temporale della scena. Fu soprattutto la produzione americana che valorizzò le potenzialità comiche del racconto, in particolare nelle forme della gag. Il cinema di Roscoe Arbuckle, Buster Keaton, Charlie Chaplin, Harold Lloyd ecc., della seconda metà del periodo muto, trovò nelle geometrie narrative e/o visive della gag la sua espressione più matura. Nel gergo teatrale, il termine identifica l'improvvisazione comica aggiunta al testo e da esso relativamente indipendente: nel cinema esso individua più precisamente una scena comica strutturata con uno sviluppo molto rapido, capace di mettere in risalto una divaricazione logica tra una risoluzione inattesa ed effettivamente realizzata e la soluzione normalmente prevista per quella situazione. La gag presenta per lo più una struttura ternaria, nella quale a un primo momento di presentazione, o preparazione di una situazione seguono un secondo momento di stabilizzazione e sviluppo e, infine, un terzo, culminante, di deviazione logica con caduta comica. La gag può assumere forme diverse, orientate prevalentemente in senso narrativo o in senso visivo: mentre la gag narrativa privilegia la disposizione dei vari momenti in successione ‒ si pensi alla limpidezza e compostezza della gag keatoniana, talvolta ordinata in molteplici sorprendenti rovesciamenti (cfr. Cops, 1922, Poliziotti, di Buster Keaton ed Eddie Cline) ‒, la gag visiva tende a rendere simultaneamente attive due diverse logiche di interpretazione di una scena, realizzando il cortocircuito comico grazie alla subitanea coesistenza di due immagini nello stesso oggetto; si pensi ai molti esempi che si incontrano nel cinema di Chaplin: dalla visita medica alla sveglia in The pawnshop (1916; Charlot usuraio o L'usuraio), al cappello-dolce in The pilgrim (1923; Il pellegrino), dalla danza dei panini al pranzo con lo scarpone, in The gold rush (1925; La febbre dell'oro).
Gli anni Venti segnarono in generale il momento di massima maturazione estetica e narrativa del film comico. Da un lato, quel cinema, che pure mantenne le caratteristiche del prodotto popolare e amato dal pubblico, contribuì a rivelare sempre più chiaramente l'inesauribilità e la processualità della visione: capace di spiazzare le abitudini percettive e di eludere gli stereotipi nel momento stesso in cui li richiamava, lo sguardo comico indicava la ricchezza visibile del mondo, e permetteva di riscoprirlo continuamente nuovo e noto al tempo stesso. D'altro lato, il protagonista tipico delle avventure comiche acquistò un maggior spessore di personaggio. Sempre più spesso egli veniva assumendo una fisionomia e un atteggiamento infantili; la sua inettitudine era il frutto di un'innocenza originaria, di una condizione in certo senso adamitica: nudo e puro di fronte al mondo, il personaggio comico ne subiva il contatto e le regole, ma era capace anche di intervenirvi inopinatamente proprio in virtù della libertà che gli derivava dalla sua innocenza. I corpi, i volti, perfino il trucco di attori quali Keaton, Chaplin, Harry Langdon, Stan Laurel e Oliver Hardy, lo stesso Arbuckle (che poi avrebbe visto la sua carriera rovinata per il coinvolgimento in vicende penali incompatibili con la sua immagine pura e rotonda) erano funzionali a questa associazione fra il c. e l'universo mentale tipico dell'infanzia. L'atteggiamento infantile era in realtà il mezzo per tradurre una qualità particolare che connotava più in profondità i comici dell'epoca. Per aprirsi a una logica non prevista, per esprimere la feconda ambiguità delle cose del mondo, occorreva guardare il mondo stesso da lontano, secondo prospettive inabituali. Era una simile distanza che l'avvento del sonoro mise in crisi: l'incontro con i suoni e soprattutto con la lingua costituiva una sfida per l'universo dei comici, ai quali il dialogo rischiava di togliere la peculiare alterità. Alcune importanti figure (Harold Lloyd, Buster Keaton, Harry Langdon ecc.) uscirono di scena o restarono confinate in un ruolo marginale. Altre figure riuscirono a integrare in vari modi la dimensione sonora. Chaplin cercò di resistere alla novità rallentando la produzione e piegandosi di fatto alla parola, dopo oltre dieci anni, soltanto con The great dictator (1940; Il grande dittatore): nel finale del film precedente, Modern times (1936; Tempi moderni), Charlot perdeva il polsino della camicia sul quale erano scritte le parole di una canzone che avrebbe dovuto interpretare, per far ricorso, volutamente, a una lingua incomprensibile. La coppia Laurel-Hardy ‒ che costruì una forma comica affatto particolare, fondata sulla comprensione ritardata delle situazioni e quindi sul rallentamento della dinamica azione-reazione, spesso all'interno della coppia stessa (con il cosiddetto slow burn) ‒ tendeva a sciogliere la narrazione in un tempo dilatato e talora quasi sospeso, sottolineato da silenzi e commenti musicali. Il gruppo dei fratelli Marx, artefice di una comicità travolgente ed estroversa, irrispettosa delle convenienze di etichetta come delle convenzioni linguistiche, dispiegò un ventaglio di rapporti diversi e complementari con l'universo sonoro: Harpo, il fratello afasico, usava creativamente gli oggetti come sostituto del linguaggio verbale e frequente fonte di effetti comici sonori; Groucho, la mente 'logica' del gruppo, svolgeva spericolati ragionamenti manipolando la lingua anche fonicamente per produrre improbabili argomentazioni e per investire verbalmente i suoi occasionali antagonisti; Chico, il musicista, fungeva da spalla e da mediatore tra i due.
Gli anni Trenta costituirono un periodo di assestamento e di ridefinizione delle forme del comico. Se la purezza visiva dell'epoca del muto tendeva a venire meno, la disponibilità della parola fece sviluppare sia una comicità dell'intemperanza verbale, che sfiorava talvolta il nonsense (si pensi, per l'Italia, agli esempi di Ettore Petrolini, del nascente fenomeno Totò, di Erminio Macario ecc.), sia una comicità più complessa, articolata su più piani; così, per es., Duck soup (1933; La guerra lampo dei fratelli Marx) di Leo McCarey unì all'esuberanza verbale di Groucho le conturbanti raffinatezze visive della scena del falso specchio e altre innumerevoli trovate narrative, la più nota delle quali è la gag della moto e del sidecar. Infine, l'uso del sonoro produsse anche una comicità più mediata, organizzata in forma di commedia (v.), sulla quale influivano i modelli teatrali; in quest'ultimo caso, esemplificato in particolare dalla sophisticated comedy hollywoodiana (ma anche, sia pure in forma minore, dal cinema italiano dei telefoni bianchi), l'incoerenza o incongruenza fondativa dell'atteggiamento comico si stemperava in percorsi narrativi che delineavano sovente un'opposizione, peraltro molto ammorbidita dalle trame sentimentali, fra essere e voler essere del personaggio, fra condizione sociale e aspirazioni, fra sogno e realtà (elementi questi sviluppati anche dalla comicità di Danny Kaye).
Anche nei decenni successivi la forma comica si concretizzò in un ventaglio di prodotti assai variegato. Il film comico in sé stesso tese a mantenere un suo carattere trasgressivo e irregolare, e a strutturarsi quindi soprattutto attorno alle performances d'attore e agli eccessi mimico-espressivi, linguistici, comportamentali ecc., piuttosto che attorno allo sviluppo del racconto: la prevalenza dei toni della farsa fu favorita anche dall'origine teatrale, e più tardi cabarettistica e/o televisiva, della maggior parte dei suoi interpreti. Ciò che contava nel film comico, a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta, era esibire la falsità della rappresentazione, in modo da ostacolare l'immedesimazione dello spettatore e favorire una relazione più fisica, corporale, con il film. All'occorrenza, la denuncia dell'artificiosità dello spettacolo poteva investire anche le convenzioni della rappresentazione stessa. Gli esempi di questa comicità metalinguistica sono stati numerosi e disseminati nel tempo, fino ad anni recenti (cfr. Blazing saddles, 1974, Mezzogiorno e mezzo di fuoco, di Mel Brooks; The purple rose of Cairo, 1985, La rosa purpurea del Cairo, di Woody Allen): tra i più noti, Hellzapoppin' (1941) di Henry C. Potter, tratto da un musical di Broadway, che costruisce un complicato e surreale meccanismo di film nel film, ricco di sorprendenti trovate.Mentre la commedia ha accentuato spesso i toni comici attraverso una maggiore dilatazione della tensione fra apparenza e realtà (delle situazioni, dei personaggi ecc.; si pensi per es., ai personaggi costruiti da Alberto Sordi in numerosissimi film), o fra essere e voler essere (uno dei temi più ricorrenti nel cinema di Woody Allen), sono emerse anche esperienze raffinate seppur isolate di comicità. Assai originale in tal senso, oltre che stilisticamente coerente, è stata la comicità audiovisiva di Jacques Tati, che nelle sue opere ha recuperato la tradizione visuale del c. muto, innestandola in un cinema che sacrifica la costruzione narrativa a un uso estremamente intelligente dell'ironia iconica.
Negli ultimi decenni, la tendenza alla divaricazione fra le forme più ordinate della commedia e le forme più esplosive del c. sembra accentuarsi ancora. La crescita dell'influenza della televisione, unita alla sempre più marcata prevalenza di modalità di comunicazione brevi e veloci, dà luogo a una comicità segnata da una progressiva destrutturazione e da frequenti contaminazioni con altri umori e altri registri (come per es., il cinema di Jerry Lewis o di Blake Edwards). Da un lato, il c. imbocca con più veemenza la via della citazione, declinando generi e temi in film che giocano ad accumulare rimandi in forme sempre più complesse (tra gli esempi, i primi film di Tim Burton, il cinema di John Landis e quello di Mel Brooks); dall'altro, la frammentazione trova nella comicità demenziale una sua valvola di sfogo (cfr. la comicità convulsa del cinema del trio di sceneggiatori Jim Abrahams, David e Jerry Zucker, in particolare nel film The naked gun: from the files of police squad!, 1988, Una pallottola spuntata, di D. Zucker). La tendenziale autodistruttività legata alla volgarità cercata ed esibita dal demenziale, che caratterizza gran parte della recente produzione comica anglosassone, costituisce un antidoto a un cinema segnato, sul versante opposto, da una massiccia tecnologizzazione. Se un gruppo come i Monty Python è indicativo della comicità surreale dell'ultimo quarto del secolo (si pensi a Monty Python's the meaning of life, 1983, Monty Python ‒ Il senso della vita, di Terry Jones), un personaggio come John Belushi è esemplare di una linea comica fondata su una corporeità greve. Il suo National lampoon's animal house (1978; Animal house) di John Landis è il capofila di una serie di produzioni (come Porky's, 1982, Porky's ‒ Questi pazzi pazzi porcelloni, di Bob Clark, film che avrà anche due seguiti, e American pie, 1999, American pie ‒ Il primo assaggio non si scorda mai, di Paul Weitz) centrate su universi adolescenziali colti nei momenti della massima sregolatezza, una sregolatezza assoluta che rende i film onde travolgenti e irriverenti.
L'elemento della deformazione parodistica presente nel cinema demenziale (v.) ha caratterizzato invece, in ambito italiano, tutto un filone di comicità 'bassa', a volte triviale, contaminato spesso mediante una ripresa umoristica dei generi, che va dai film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, a quelli con Lando Buzzanca (cfr. per es. la parodia spionistica del personaggio di James Tont nei film di Bruno Corbucci). Se nel cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta, diradandosi l'attività di un attore comico d'eccezione come Totò, la comicità si è stemperata nelle sfumature di critica sociale e di satira della commedia all'italiana, tuttavia registi come Steno (e in seguito i fratelli Carlo ed Enrico Vanzina, suoi figli) hanno mantenuto vivo un umorismo più popolare. In seguito, a partire dagli anni Ottanta, una generazione di comici italiani provenienti dal teatro e dal cabaret, una volta raggiunta la popolarità televisiva, si è messa alla prova nel cinema come attori-registi (tra gli altri, Carlo Verdone, Maurizio Nichetti, Francesco Nuti, Alessandro Benvenuti, Antonio Albanese: i cosiddetti nuovi comici).
A un'origine televisiva è legata ormai gran parte della produzione comica: talvolta il passaggio al lungometraggio non giova a personaggi che rendono la loro dimensione grottesca nel carattere fulmineo e seriale dello short televisivo e che soffrono i tempi lunghi del racconto (si pensi a Bean ‒ The ultimate disaster movie, 1997, Mr. Bean ‒ L'ultima catastrofe, di Mel Smith, e a molti esponenti del cinema comico italiano); altre volte, invece, il passaggio dalla televisione al cinema, intrecciato con esperienze cabarettistiche e/o teatrali, produce una maturazione stilistica, spesso orientata in direzione della commedia (ne è un esempio il percorso artistico di Roberto Benigni o di Massimo Troisi e, prima ancora, la maschera comica di Fantozzi inventata e incarnata da Paolo Villaggio).
Comedy/Cinema/Theory, ed. A.S. Horton, Berkeley 1991.
Classical Hollywood comedy, ed. K. Brunovska Karnick, H. Jenkins, New York-London 1995.
Cinéma: le genre comique, éd. Ch. Rolot, F. Ramirez, Montpellier 1997.
G. Cremonini, Playtime. Viaggio non organizzato nel cinema comico, Torino 2000.
A. Sainati, Il visto e il visibile: sul comico nel cinema, Pisa 2000.