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Vite sospese: dal coma allo stato vegetativo
Il balzo compiuto dalla terapia intensiva, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso con l’invenzione del respiratore automatico da parte dell’anestesista danese Bjørn Aage Ibsen (1915-2007) e l’introduzione delle tecniche di rianimazione cardiorespiratoria, ha permesso a un numero sempre maggiore di pazienti recuperi fino ad allora inattesi e insperati. Senza rianimazione i malati che rimanevano in stato di coma per più di qualche giorno fatalmente soccombevano per le complicanze respiratorie, infettive o metaboliche.
Oggi le tecnologie mediche consentono la sopravvivenza di pazienti che in tempi precedenti sarebbero morti più o meno rapidamente: tuttavia queste tecniche possono portare taluni di loro a un recupero di tutte le funzioni cerebrali, anche se in alcune circostanze il paziente rimane vittima di deficit di diversa gravità, sia a livello fisico che a livello cognitivo. Altre volte si può verificare che, mentre l’attività cardiaca si giovi delle tecniche rianimatorie, il cervello riporti danni irreversibili, configurando il quadro di coma depassé (secondo la definizione di Mollaret e Goulon, 1959). Questa definizione venne proposta dai due neurologi francesi Pierre Mollaret (1898-1987) e Maurice Goulon (1919-2008) per identificare una situazione di coma irreversibile e introdurre una nuova condizione, quella della morte clinica. A questa condizione un comitato ad hoc della Harvard medical school, nel 1968, ha dato il nome di morte cerebrale, che comporta la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo. La morte cerebrale viene diagnosticata dall’accertamento delle cause che hanno provocato il danno cerebrale, dall’esame clinico che conferma la perdita delle funzioni cerebrali comprese quelle del tronco encefalo, e dall’elettroencefalogramma, che deve mostrare un’assenza di attività bioelettrica cerebrale (cosiddetto EEG piatto) o, in caso di dubbio, dalla dimostrazione radiologica di assenza di flusso di sangue nell’encefalo. Il respiro viene mantenuto artificialmente da un respiratore meccanico, il cuore continua a essere ossigenato e a battere autonomamente per un certo periodo e anche gli altri organi (fegato, reni, pancreas, ecc.) possono continuare a svolgere le loro funzioni. L’accertamento di morte cerebrale permette di dichiarare legalmente deceduto l’individuo, per cui se esiste il consenso all’espianto è possibile procedere all'espianto degli organi, o, in caso di negazione del consenso o di impossibilità per patologie specifiche, consente la sospensione di tutte le terapie compresa la ventilazione meccanica.
Un altro esito, non voluto e auspicato, di un intervento rianimatorio è quello che viene definito stato vegetativo (SV): dopo un periodo di coma prolungato, alcuni pazienti aprono gli occhi, riprendono a respirare autonomamente, sembrano guardarsi intorno, ma non seguono con lo sguardo il movimento di persone od oggetti. Possono sbadigliare, starnutire, sorridere, piangere, ammiccare, fare smorfie: sono puri automatismi riflessi, senza valenza volitiva ed emotiva, ma che hanno un grande impatto su chi assiste che tende ad interpretarli come risposte coscienti, essendo per tutti noi automatica la connessione di vigilanza e coscienza. Nello stato vegetativo la respirazione, la circolazione e il controllo della temperatura sono più o meno normali, le pupille sono reagenti e sono presenti gli altri riflessi troncoencefalici, proprio perché in questa condizione i danni che hanno colpito l’encefalo (spesso la corteccia o vaste aree di essa, i nuclei cerebrali più profondi o le fibre che li connettono) hanno lasciato indenne il troncoencefalo, deputato come già detto a queste funzioni. I pazienti presentano spesso rigidità e spasticità degli arti, devono essere nutriti artificialmente, hanno incontinenza vescicale e rettale. La diagnosi può richiedere settimane di osservazioni prolungate, che colgano anche il minimo segno e in questi casi sono di aiuto diverse indagini strumentali come la risonanza magnetica cerebrale, i potenziali evocati, l’EEG. Lo stato vegetativo deve essere distinto da uno altro stato costituito da una sua evoluzione, oppure che rappresenta un esito stesso del coma: il cosiddetto minimal conscious state (MCS) o stato di minima responsività. In questo stato il paziente è in grado di eseguire un ordine semplice, pronunciare qualche parola o brevi frasi, testimoniando, anche se in maniera incostante, un certo grado di vigilanza. Se la diagnosi di SV e MCS è molto difficile ancora di più lo è la prognosi. La probabilità di recupero è maggiore nei pazienti colpiti da trauma cranio encefalico rispetto a quelli il cui SV è conseguenza di un’anossia cerebrale secondaria ad arresto cardiocircolatorio. Inoltre, nei bambini e nei giovani fino a 40 anni la prognosi è migliore. Se le dizioni classiche di SV persistente (dopo 4 settimane) e SV permanente (dopo 12 mesi), stanno ricevendo critiche perché le tecnologie mediche consentono una sopravvivenza molto lunga, e talora in condizioni cliniche non necessariamente statiche, la letteratura scientifica indica con chiarezza che più a lungo una persona rimane in SV o MCS, più bassa è la probabilità di ripresa. Anche nei casi di SV postraumatico si è accertato che eventuali miglioramenti non avvengono oltre i due anni dall’evento, anche se sono stati riportati casi eccezionali di recupero molto tardivo, in cui rimane però il dubbio di un’iniziale diagnosi errata (MCS invece che SV).
Il sostegno a oltranza della vita biologica, con mezzi che alcuni ritengono sproporzionati, oltre a configurare il tanto deprecato accanimento terapeutico (contravvenendo alla volontà del paziente), tende a non considerare il diritto di rifiutare le cure, sancito dalla Costituzione Italiana, dal Codice di deontologia medica e dalle Convenzioni internazionali.