Salutati, Coluccio
Letterato (Stignano 1331 - Firenze 1406). Nominato cancelliere di Firenze nel 1375, fu per trent'anni, dopo la morte del Petrarca e del Boccaccio, il più autorevole umanista italiano, unico erede di quei grandi. Pertanto il suo atteggiamento nei confronti di D. ebbe importanza decisiva nel trapasso dall'età in cui D. ancora era considerato ultimo e supremo maestro, all'età in cui prevalse la lezione degli antichi.
L'atteggiamento del S. risulta chiaro da riferimenti e giudizi sparsi nel suo epistolario e in alcuni trattati, ma chiaro soltanto per l'ultimo decennio della sua vita o poco più. Dubbio resta per l'insufficienza delle testimonianze l'atteggiamento originario e, che più importa, nel periodo dal 1375 al 1390, quando egli a Firenze raccolse e sviluppò a suo modo l'eredità del Boccaccio. Certo è che in origine egli riconobbe nel Petrarca, non in D., il suo maestro, e che, pur apprezzando entro certi limiti l'uso letterario della lingua viva, per sé elesse l'eloquenza latina che, come scriveva nel 1369 (Epistolario I 77), " hominum genus a ceteris animantibus maxime separat et multo magis virum secernit a viro ". Significativo anche è che, commemorando il Petrarca subito dopo la morte (Epistolario I 182-183), lo esaltasse come tale che, anche nella lirica volgare, " omnium consensu et compatriotam suum Aldegherium Dantem, divinum prorsus virum, et ceteros antecessit ": dove né l'elogio né la specificazione lirica bastano a giustificare il silenzio sull'opera maggiore di D., ed è una parzialità che salta agli occhi, quando si tenga a riscontro il paragone fra i due poeti istituito da Benvenuto da Imola in quella stessa età e dal Bruni nell'età successiva. Certo finalmente è che nel Boccaccio il S. ammirò esclusivamente l'umanista, allievo del Petrarca, non il poeta e prosatore volgare, devoto a D., e che l'ultima eredità del Boccaccio, per l'appunto il pubblico commento dantesco, non ebbe seguito a Firenze durante il principato letterario del Salutati. Come l'Ullman ha dimostrato (pp. 240-241), l'illimitata esaltazione del Petrarca da parte del S., documentata ancora nel 1379, cedette a un giudizio più temperato dal 1395 innanzi. È probabile che parallelamente e inversamente mutasse l'atteggiamento del S. nei confronti di Dante.
Già nel 1395 (Epistolario III 84) il giudizio su D. è entusiastico, in termini pressoché identici a quelli usati vent'anni prima per il Petrarca: " summum vulgaris eloquentiae decus et nulli scientia vel ingenio comparandum, qui nostris temporibus floruit, aut etiam cuipiam antiquorum ". È insomma il giudizio di Benvenuto da Imola, che nel 1383 aveva inviato al S. il primo saggio del suo commento dantesco (Epistolario II 76-80). Non meno entusiastico il giudizio espresso nel trattato De Fato et fortuna (1396-99), dove il S. fece sua e rivendicò contro Cecco d'Ascoli la dottrina esposta in If VII 73-96 e Pg XVI 66-81 (entrambi i passi tradotti in esametri).
Nell'opera maggiore del S., De Laboribus Herculis, abbozzata nel 1378-83, ma ripresa intorno al 1391 e rimasta incompiuta, D. è ricordato per la teoria della generazione in Pg XXV, ma è notevole che si attagli a lui, più e meglio che ad altri, la definizione stessa che il S. dà del poeta come " vir optimus laudandi vituperandique peritus, metrico figurativoque sermone sub alicuius narrationis misterio vera recondens ". E dantesco è il procedimento allegorico di tutta l'opera.
Finalmente nell'opuscolo De Tyranno, che è del 1400, l'ultima delle quattro tesi sostenute dal S., " quod Dantes iuste posuerit Brutum et Cassium in inferno inferiori tanquam singularissimos proditores ", deve considerarsi prima in ordine di tempo e d'importanza nella concezione stessa dell'opuscolo. Questa testimonianza, per la data e per l'argomento, s'inquadra nella polemica suscitata allora a Firenze da giovani umanisti, che riconoscevano maestro loro il S., ma che ai maestri dell'età precedente, al Boccaccio e allo stesso Petrarca, guardavano con crescente distacco critico, e apertamente si ribellavano al culto di Dante. Quale fosse la reazione del S., appare chiaro dal De Tyranno, dove è senza alcuna riserva giustificata la condanna di Bruto e Cassio in If XXXIV, che lo stesso Benvenuto da Imola aveva disapprovato e che certo dimostrava quanto la dottrina di D. fosse discorde e ormai remota da quella invalsa nella nuova scuola umanistica.
Come anche risulta da un dialogo del Bruni, che di quella polemica antidantesca è il documento principe, l'intervento del S. riuscì ad assicurare la continuità, proporzionata all'età nuova, della tradizione dantesca a Firenze. È probabile che, vedendo ormai assicurato il successo della sua scuola e della nuova letteratura, Il S. si preoccupasse di una conseguente rottura della tradizione cristiana e moderna, e insieme mirasse, rivendicando la grandezza di D., a confermare il primato letterario di Firenze nell'una e nell'altra lingua. Voleva essere e fu una rivendicazione critica da parte di uomini che ammiravano la poesia ma che erano nati alla prosa e di questa si contentavano, che insomma ammiravano D., ma a distanza, non più come un maestro, tanto meno come un modello. Anche per il testo di D. il S. incidentalmente dimostrò la sua eccezionale abilità filologica, per cui nella storia dell'umanesimo italiano egli non ebbe uguali, dopo il Petrarca e prima del Valla: memorabile una sua lettera del 1399 (Epistolario III 371-375), prima testimonianza di una ragionata ricerca intesa a recuperare il testo autentico della Commedia, là dov'era probabile che si fosse indirettamente conservato, nella cerchia ravennate dove si era conchiusa l'opera e la vita di Dante.
Bibl.-C.S., Epistolario, a c. di F. Novati, Roma 1891-1911 (per D. cfr. II 76-80, 101; III 84, 141, 371-375, 383, 388, 401, 525, 529, 644-653; IV 161); ID., De Laboribus Herculis, a c. di B.L. Ullman, Zurigo 1951; ID., De Tyranno, a c. di A. Von Martin, Berlino-Lipsia 1913; ID., ediz. a c. di F. Ercole, Bologna 1942. Il passo che qui importa dell'inedito De Fato nell'introd. di E. Garin alla sua edizione del De Nobilitate legum et medicinae, Firenze 1947, XXX-XXXI. Fondamentale lo studio di B.L. Ullman, The Humanism of C.S., Padova 1963. Cfr. però anche E. Garin, La cultura filosofica del rinascimento italiano, Firenze 1961; ID., La letteratura degli umanisti, in Storia della letteratura italiana, a c. di E. Cecchi e N. Sapegno, III, Milano 1966, 12-35, 332-333.