Colpa medica
L’art. 3, co. 1, l. n. 189/2012, introdotto quale argine al fenomeno della cd. medicina difensiva, ha palesato, nell’ormai cospicua applicazione giurisprudenziale, profili critici e dubbi interpretativi. Il contributo, messi in risalto i due cardini del nuovo statuto penale della colpa medica (valorizzazione delle linee guida e delle buone pratiche; distinzione tra colpa lieve e colpa grave), si sofferma sul più recente dibattito in ordine al perimetro applicativo della legge Balduzzi, e cioè se l’esonero di responsabilità per colpa lieve possa essere limitato alla sola colpa per imperizia ovvero debba essere esteso anche ai casi di colpa per negligenza e imprudenza. Vengono infine analizzate le prospettive di ulteriore riforma della materia, nei termini in discussione al Senato; riforma, invocata soprattutto dalla classe medica, che, allo stato, non sembra risolvere i limiti dell’attuale disciplina, schiudendo nuovi scenari problematici.
SOMMARIO 1. La ricognizione 2. La focalizzazione 2.1 Linee guida e buone pratiche: tra novità e diffidenze
2.2 Primi dubbi interpretativi su una gradazione “artificiale” 2.3 Imperizia, o anche negligenza e imprudenza?
Lo statuto penale della colpa medica, da sempre al centro della riflessione di dottrina e giurisprudenza, è stato profondamente inciso dall’art. 3, co. 1, l. 8.11.2012, n. 189 (cd. “legge Balduzzi”), a tenore del quale «l’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve».
Come si è esaurientemente ricostruito proprio in queste pagine1, si tratta di una significativa modifica normativa introdotta, in sede di conversione in legge di un più ampio provvedimento in materia sanitaria (il d.l. 13.9.2012, n. 158), col dichiarato obiettivo di fronteggiare il fenomeno della cd. “medicina difensiva”, e cioè quella pratica di misure diagnostiche o terapeutiche effettuate, non già allo scopo precipuo di assicurare la salute del paziente, quanto piuttosto a garanzia del medico dalle possibili responsabilità seguenti alle cure mediche prestate. L’effetto auspicato è duplice e consequenziale: rassicurare gli operatori sanitari in relazione ai possibili rischi giudiziari correlati alla tendenza alla iperpenalizzazione della loro attività e, così facendo, elevare lo standard qualitativo delle prestazioni rese a beneficio dei pazienti.
Due sono stati i punti cardine del nuovo meccanismo di limite negativo alla tipicità colposa delineato dal legislatore: la valorizzazione delle linee guida e delle virtuose pratiche terapeutiche, purché corroborate dal sapere scientifico, da un lato; la distinzione tra colpa lieve e colpa grave, per la prima volta normativamente introdotta nell’ambito della disciplina penale dell’imputazione soggettiva, dall’altro. Da questi punti occorre muovere per ridisegnare il perimetro applicativo della colpa medica, dando soprattutto conto, nel solco di quanto già in precedenza tracciato, dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale nel frattempo intervenuta.
Linee guida e buone pratiche accreditate sono state individuate come le fonti più idonee a indirizzare, offrendo utili spunti orientativi, tanto l’operatore sanitario, che in una prospettiva ex ante saprà come deve comportarsi, quanto il giudice, che ex post potrà valutare, sulla base di riferimenti predati, quel comportamento del medico e la sua adeguatezza allo scopo.
Invero, il riferimento a linee guida e buone pratiche non rappresenta una “scoperta” del legislatore del 2012; già prima esse venivano prese in considerazione da parte della giurisprudenza penale, seppure con posizioni estremamente caute. Senza ripercorrere le tappe di un cammino ondivago e talvolta contraddittorio, può dirsi che, sino al 2012, il giudizio sul ruolo delle linee guida nella valutazione della responsabilità colposa del medico appariva improntato a una “cauta diffidenza”: vero è che esse contengono attendibili indicazioni generali riferibili al caso astratto, ma il medico è sempre tenuto a esercitare le proprie prerogative di scelta, vagliando le peculiari circostanze della vicenda concreta e discostandosi, se necessario, da regole cristallizzate in linee guida e protocolli.
Siffatto atteggiamento non è mutato dopo la legge Balduzzi. Le ragioni del disincanto si articolano su un triplice piano: ontologico, contenutistico e finalistico:
a) dal punto di vista ontologico, linee guida e buone pratiche finiscono per scontare il sentore di una congenita inadeguatezza, indotta dal carattere “autonormato” della regola; l’originale coincidenza tra produttore e destinatario finale della regola porta il giudice a guardare con un elevato tasso di scetticismo la loro (reale o potenziale) idoneità rispetto allo scopo di garantire la migliore cura per il paziente (analogamente a quanto avviene, in altro contesto, con riferimento alla valutazione della portata esimente dei modelli organizzativi ai sensi del d.lgs. 8.6.2001, n. 231);
b) sul piano contenutistico, non poche esitazioni perdurano circa il loro livello di affidabilità; nulla esclude – in assenza di rigidi e formalizzati criteri selettivi – che tali fonti possano promanare da associazioni o società scientifiche la cui affidabilità non è sempre dimostrabile in termini di certezza e coerenza, così come frequenti e irriducibili appaiono i contrasti tra scuole e società scientifiche nei medesimi settori di competenza, con inevitabile proliferare di linee guida disomogenee, ambivalenti e talvolta persino antitetiche. Senza dimenticare la risalente disputa sui possibili conflitti di interessi che legano ricercatori, editori e industrie (farmaceutiche in particolare), oltre all’incertezza sulle basi nosografiche in relazione alle quali vengono prodotte;
c) sul versante finalistico, poi, i dubbi riguardano gli scopi realmente perseguiti da linee guida e buone pratiche: davvero prevale la ricerca della migliore cura del paziente ovvero questa è destinata a sfumare nel necessario contemperamento tra fattori di rischio tipici dell’attività medica e ulteriori esigenze, attinenti l’organizzazione dell’attività e i costi del servizio sanitario, che assumono un ruolo preminente nella loro formulazione istanze economicistiche?
Sul versante penalistico, il dubbio si traduce nel paventare la loro irriducibilità al rango di vere e proprie regole cautelari, per l’assenza di un diretto e immediato legame con uno specifico evento dannoso o pericoloso da prevenire o evitare.
A queste perplessità, non può non aggiungersene un’ulteriore, ancora non sufficientemente indagata, che riguarda il rapporto, ancora una volta, con il consenso informato e con la volontà del paziente, in particolare sotto il profilo del ruolo da poter riconoscere al contributo del malato in seno alle fonti mediche pre-date. Semplificando, può dirsi che linee guida e buone pratiche vengono, per così dire, modulate su un paziente informato e consenziente, in coerenza col fatto che esse rappresentano il portato di un modello di medicina basato sulle evidenze. Appaiono improntate a una sicura e totale adesione alla terapia da parte del malato, il cui consenso è dato in qualche modo per scontato, e a un approccio di stampo velatamente paternalistico, che rischia di obliterare le più recenti acquisizioni in merito al rapporto medico paziente e alla moderna lettura del concetto di salute, in base alle quali – in nome dell’alleanza terapeutica – il bilanciamento dei costi e dei benefici per la salute complessiva del singolo connessi ad una specifica opzione terapeutica è rimesso alla valutazione del paziente e «presuppone una prospettazione dei rischi da parte del medico, nella quale si intreccia un insieme di regole cautelari sia di natura propriamente cognitivo-valutativa sia di natura lato sensu personale-comportamentale, che si sottraggono alla standardizzazione»2. Piuttosto arduo immaginare contemplata nella fonte pre-data – di natura marcatamente oggettiva e non calibrata sulla variabile soggettiva –, tra le possibili varianti standardizzate del caso, l’eventualità del dissenso del paziente al trattamento astrattamente previsto come più appropriato.
Al pari delle perplessità scaturite dal tentativo di codificazione delle regole cautelari, ha suscitato (e continua a suscitare) non poche riserve anche il riferimento alla figura della colpa lieve, che ha fatto riemergere le ben note difficoltà che da sempre hanno affaticato la dottrina, allorquando – in assenza di una definizione normativa – era chiamata ad enucleare criteri certi e sufficientemente affidabili di demarcazione per pesare la colpa. Difficoltà inevitabilmente dilatate, nel caso di specie, dai rapporti di complementarietà tra linee guida, buone pratiche e grado della colpa: i limiti palesati dal ricorso a tali fonti si riversano anche sul versante soggettivo, giacché il deficit di tipicità investe il precetto che, se rispettato, eleva il grado di colposità idoneo a fondare la responsabilità dell’operatore sanitario.
A prima lettura, l’idea di una gradazione della colpa – lontana dalla visione storicamente e normativamente unitaria della colpa penale (al di là dei timidi tentativi di esportazione dell’art. 2236 c.c. nel tessuto penalistico compiuti negli anni ‘70) e presa in considerazione nel codice ai soli fini della commisurazione della pena (art. 133 c.p.) – ha ingenerato dubbi sulla sua astratta configurabilità (si è parlato di una culpa sine culpa)3. Su questo punto, le perplessità sono state superate piuttosto agevolmente, immaginando l’ipotesi di un mancato discostarsi del medico dalle linee guida allorquando, in ragione della peculiare situazione clinica del malato, la necessità di allontanarvisi – adeguando le prescrizioni alle specificità del caso trattato, al metro di una regola di perizia (ma, anche, come si vedrà, di prudenza e diligenza) – fosse macroscopica, immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario al posto dell’imputato e/o indagato4.
Superato questo primo scoglio, particolare attenzione è stata dedicata alla compatibilità con il principio di uguaglianza. La scelta di limitare la responsabilità alle ipotesi di colpa grave solo per la professione sanitaria, senza peraltro alcun riferimento ai profili di speciale difficoltà tecnica richiamati all’art. 2236 c.c., potrebbe apparire non del tutto giustificata dalla peculiarità dell’attività in questione; soprattutto al cospetto tanto di attività sanitarie non connotate da particolare complessità e difficoltà della prestazione, quanto di «altre attività di oggi e di ieri» dotate di «un comparabile significato sociale», che «implichino a loro volta rischi altrettanto gravi per la vita o incolumità delle persone»5.
La nona sezione penale del Tribunale di Milano, recependo tali preoccupazioni, ha sollevato – con ordinanza 21 marzo 20136 – questione di legittimità costituzionale in relazione, fra gli altri, all’art. 3 Cost., da un lato per l’indiscriminata applicazione a tutti gli operatori sanitari rispetto a qualsiasi reato colposo e, dall’altro, per l’ingiustificata disparità di trattamento per quei soggetti, diversi dagli operatori sanitari, che con colpa lieve – e comunque adeguandosi alle linee guida – abbiano cooperato con il sanitario.
La Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 295/20137, pur ritenendo la questione inammissibile per difetto di rilevanza, ha inserito nel corpo della motivazione un fugace obiter, specificando che «la limitazione di responsabilità prevista dalla norma censurata viene in rilievo solo in rapporto all’addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia: non, dunque, quando all’esercente la professione sanitaria sia ascrivibile, sul piano della colpa, un comportamento negligente o imprudente». Tale passaggio è stato interpretato, da una parte della giurisprudenza, quale sostanziale avallo, nel contesto della legge Balduzzi, alla diversità di trattamento fra un rimprovero solo per imperizia ovvero anche per negligenza e imprudenza. Con l’effetto che, a fronte di un analogo atteggiamento formalmente osservante, a una potenziale irragionevolezza esterna (nei confronti di soggetti che svolgono professioni diverse, altrettanto delicate e complesse) si viene a sommare il fumus di un’ulteriore disparità interna, riferita cioè a medesimi operatori (sanitari), che rispettino linee guida e buone pratiche del settore accreditate e versino ugualmente in colpa, sempre lieve, seppure connotata da imprudenza o negligenza, anziché da imperizia.
Il deficit di ragionevolezza appena denunciato ci conduce nel cuore del dibattito attuale: se l’esonero di responsabilità per colpa lieve possa essere limitato alla sola colpa per imperizia ovvero debba essere esteso anche ai casi di colpa per negligenza e imprudenza. L’estrema delicatezza della questione è attestata dalla contrapposizione di due orientamenti nell’ambito della medesima quarta sezione della Cassazione: uno, sin qui maggioritario, che circoscrive la limitazione di responsabilità per colpa lieve alle sole condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia; l’altro, più recente, che estende la possibile rilevanza esimente anche ad addebiti diversi dall’imperizia, non potendosi escludere che le fonti pongano raccomandazioni rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta del soggetto agente sia quello della diligenza.
Venendo al punto: in caso di osservanza delle linee guida, la responsabilità per colpa grave va circoscritta alle ipotesi di imperizia ovvero estesa anche a quelle di colpa per negligenza e imprudenza? Nel silenzio normativo, e nella non uniformità della giurisprudenza, la possibilità di dare una risposta soddisfacente al quesito appare intimamente connessa ad altri due nodi da sciogliere: a) la natura da attribuire alle regole contenute nelle linee guida; b) l’interpretazione della colpa grave che si andrà consolidando, nel rapporto con la disciplina civilista di riferimento (l’art. 2236 c.c.).
Come ricordato, l’orientamento sinora prevalente in giurisprudenza8 – corroborato dalla segnalata presa di posizione della Corte costituzionale del 2013 – propende per un’applicazione della fattispecie «solo allorquando si discuta della “perizia” del sanitario», non potendo essa «involgere ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza», sul presupposto che «le linee guida contengono solo regole di perizia»9.
Ma il fronte giurisprudenziale non si è dimostrato coeso; si è così precisato che, per quanto la disciplina disegnata dalla l. n. 189/2012 trovi il suo terreno d’elezione nell’ambito della perizia, «non può tuttavia escludersi che le linee guida pongano regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza; come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera dell’accuratezza di compiti magari non particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale»10. Letture che muovono dalla consapevolezza delle difficoltà connesse alla sussistenza di fattispecie non univoche, in cui viene in rilievo un’attività di spettanza del sanitario – che in quanto tale potrebbe sempre considerarsi come “qualificata” – che afferisce, per rimanere all’indicazione testuale, più «all’accuratezza e alla normale diligenza» che alla perizia. Questo filone interpretativo, che apre all’idea che le linee guida possano anche contenere regole di attenzione e cura rispetto allo svolgimento di determinate attività considerate pericolose (ad es. la conta delle garze, le procedure per disinfettare, il controllo dei valori, le dimissioni dei pazienti, ecc.) e perciò estende anche alle ipotesi di negligenza e imprudenza lo spettro applicativo, trova supporto anche sul piano normativo, dal momento che i destinatari della norma sono, oltre ai medici, anche gli “operatori sanitari” in generale (ad esempio gli infermieri), ai quali si attaglia molto più la pretesa di comportamenti diligenti piuttosto che periti. Senza trascurare la circostanza che, a ben vedere, la norma fa riferimento alle linee guida e alle “buone pratiche accreditate” (terreno di elezione, stavolta, di comportamenti diligenti) e che, in ogni caso, nessuna indicazione testuale indirizza verso una limitazione alle sole condotte osservanti imperite del trattamento di favore delineato dalla legge Balduzzi11.
In termini più generali, va poi tenuto conto del fatto che, nell’ambito della pratica medica, la stessa distinzione tra imperizia, negligenza e imprudenza tende a sfumare12. Nella realtà dei casi complessi, infatti, «il confine tra conoscenza, uso appropriato della cautela, avventatezza o trascuratezza nella scelta di quella adatta appare troppo sottile, e troppo pericolosa una distinzione che voglia essere dirimente ai fini penali»; e «una siffatta distinzione difficilmente sarà rinvenibile in termini rigidi nemmeno nelle linee guida, che mirano – senza porsi problemi definitori
– ad assicurare la perizia, ma anche la diligenza del medico e la tempestività del suo intervento»13.
Nondimeno, l’analisi casistica mette in luce la molteplicità – se non la quasi totalità – delle ipotesi di cd. “imperizia mascherata”: imputazioni costruite su negligenza o imprudenza che celano, tra le righe, un nucleo contenutistico (se non preponderante quantomeno paritario) di imperizia14. Con l’eccezione di macroscopiche forme di lassismo e di scelleratezza sanitaria, possono dirsi infatti preponderanti i casi che, formalmente riconducibili a negligenza o imprudenza, contengono una quota di imperizia, per così dire, fisiologica, ben potendo essere riletti quali scelte di merito – intrise di perizia – errate. Si pensi, a titolo esemplificativo, al sanitario che, per imperizia, appunto, non abbia preso in considerazione la condotta doverosa omessa o abbia erroneamente ritardato il necessario approfondimento diagnostico ovvero ancora abbia frettolosamente dimesso il paziente o somministrato farmaci controindicati alla luce del (non adeguatamente e correttamente vagliato) quadro clinico del paziente: si tratta, a ben vedere, di fattispecie che hanno alla base quasi sempre un’errata diagnosi, per lo più riconducibile a una imperita lettura del quadro clinico.
Per quanto concerne poi il secondo punto, relativo al concetto di colpa grave, occorre chiarirsi, una volta per tutte, sui rapporti con la nozione civilistica di gravità della colpa e ancor più con l’interpretazione dell’art. 2236 c.c. Qualora si propenda per un approccio che – mutuando lo schema civilistico e rievocando ancora la lettura della Corte costituzionale del 1973, che proprio attraverso il riferimento a tale requisito aveva escluso la violazione del principio di eguaglianza dell’estensione in sede penale dell’art. 2236 c.c. – circoscriva l’applicazione dell’art. 3, co. 1 ai soli «problemi tecnici di speciale difficoltà», non si potrà che riferirne l’operatività alla sola perizia, la quale, per l’appunto, «presenta contenuto e limiti circoscritti» ed evidentemente non può che essere rapportata alla specifica prestazione medica da svolgere, valutata oggettivamente15.
Questa che, da un certo punto di vista, potrebbe apparire la soluzione più “facile” (e forse più rassicurante, soprattutto per chi teme forme di eccessiva depenalizzazione a beneficio della classe medica e auspica, di contro, interpretazioni sterilizzanti della legge Balduzzi) deve però fare i conti col fatto che la stessa giurisprudenza civile, nelle poche pronunce in cui ha affrontato la questione, ha finito per sfumare la distinzione in parola (colpa grave/colpa lieve), assumendo un atteggiamento estremamente cauto nell’applicazione dell’art. 2236 c.c. e sposando per di più un’accezione ristretta del “grado di difficoltà” che deve rivestire la prestazione ai fini della limitazione della responsabilità professionale.
Di talché, anche per minimizzare il rischio di stravolgimenti giudiziari, si potrebbe optare per un’interpretazione più ampia del requisito della colpa grave (compatibile con tutte le matrici colpose), riconoscendo, sulla scia della più volte evocata sentenza Cantore, un peso decisivo alle circostanze del caso concreto che rendono difficile anche ciò che astrattamente (e magari in un altro contesto) non è fuori dagli standard: «la complessità, l’oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità e novità della situazione data» e la stessa situazione fattuale «nella quale il terapeuta si trovi ad operare», vale a dire i cd. “fattori contestuali”, tra i quali spiccano l’urgenza e l’assenza di presidi adeguati e più in generale il disagio organizzativo.
Si tratta indubbiamente di un passaggio significativo, che misura la colpa medica – e dunque anche la sua gravità – sul “contesto”, al quale va assegnato un ruolo, su un diverso piano, anche nell’interpretazione della nuova normativa16. In sostanza, un’apertura a considerare ragioni di contesto/emergenza non solo sul versante della cd. misura soggettiva, ma anche quale parametro di misurazione oggettiva del grado della colpa: ragioni idonee ad escludere la punibilità, prima che l’inesigibilità, per il mancato raggiungimento della soglia colposa di rilevanza penale.
Una siffatta ricostruzione non può che coniugarsi con l’estensione dell’ambito applicativo alle ipotesi di diligenza e prudenza (qualora, concettualmente e concretamente, se ne continui ad ammettere una demarcazione nitida rispetto alla perizia), ben potendo tali fattori “situazionali” incidere su un affievolimento del livello di diligenza o di attenzione richiesto in condizioni normali (e dunque incidere anche sull’osservanza o meno delle linee guida e delle buone pratiche accreditate), contribuendo in qualche modo a declinare ulteriormente l’imprescindibile esigenza, da parte dell’operatore sanitario, di non potere confidare aprioristicamente sulle linee guida a discapito delle peculiarità (ivi comprese le difficoltà) del caso concreto.
Ciò, del resto, appare coerente con la scelta del legislatore del 2012 e con le indicazioni (stavolta concordi) della giurisprudenza, in base alle quali il semplice rispetto di linee guida e buone pratiche non basta a rendere lecita una prassi medica e a escludere ogni possibile addebito per colpa, a fronte dell’insopprimibile esigenza di dover fare sempre i conti col caso concreto, indagando l’attendibilità e la rispondenza alle esigenze della specifica situazione patologica da fronteggiare, anche in relazione alle istanze personalistiche del paziente: il che non potrà che avvenire utilizzando l’armamentario per l’accertamento della colpa generica (come, nei fatti, ormai ampiamente condiviso).
La tenuta del discorso sin qui sviluppato va conclusivamente testata al metro delle prospettive di riforma oggi all’ordine del giorno. Il riferimento è, in particolare, al disegno di legge Gelli-Bianco, recante «Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario», approvato lo scorso 28 gennaio dalla Camera dei deputati e attualmente all’esame del Senato (A.S. n. 2224)17, finalizzato a risolvere i guasti interpretativi palesati sin qui dalla legge Balduzzi e ad aumentare il tasso di garanzie per gli operatori delle professioni sanitarie, oltre naturalmente – e ancora – a contrastare il fenomeno della cd. medicina difensiva. Si tratta di un provvedimento di estrema importanza, che incide sul delicato profilo della responsabilità medica, affrontando e disciplinando vari temi, tra i quali la sicurezza delle cure e del rischio sanitario e la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria e della struttura sanitaria pubblica o privata.
Ai nostri fini, appaiono di particolare interesse:
i) il riferimento esplicito alla disciplina delle buone pratiche clinico-assistenziali e delle raccomandazioni previste dalle linee guida, con l’espressa indicazione che gli esercenti le professioni sanitarie nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative si attengano, salve le specificità del caso concreto, alle buone pratiche clinico-assistenziali e alle raccomandazioni previste dalle linee guida elaborate dalle società scientifiche iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute (art. 5);
ii) l’introduzione nel codice penale del nuovo articolo 590 ter, disciplinante la Responsabilità colposa per morte o per lesioni personali in ambito sanitario, ai sensi del quale l’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, cagioni a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita sarà chiamato a rispondere dei reati di omicidio colposo (art. 589 c.p.) o di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) solo in caso di colpa grave, con l’esplicita esclusione di quest’ultima allorquando, fatte salve le rilevanti specificità del caso concreto, siano rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida, così come definite e pubblicate dal disegno di legge (art. 6).
In sede di primo commento, può osservarsi come nella proposta si tenda, da un lato, a consolidare la preferenza per la formalizzazione delle regole cautelari nel settore medico e, dall’altro, a prendere posizione sul margine di operatività dell’innalzamento del livello di responsabilità alla colpa grave.
Dal primo punto di vista, pur mantenendo la “valvola di sfogo” delle peculiarità del caso concreto – la cui imprescindibile considerazione era in qualche modo già emersa nell’applicazione della legge Balduzzi rispetto all’esigenza di discostarsi da regole predate – sembra intrapresa la strada di una (tendenziale) obbligatorietà del rispetto di buone pratiche e raccomandazioni contenute nelle linee guida, accompagnate – queste ultime – dalla “garanzia” del loro all’accreditamento (id est: certificazione di attendibilità), dall’inserimento in un apposito elenco (finalizzato a renderle, almeno sulla carta, più facilmente reperibili) e dall’esclusione (automatica) della colpa grave nel caso di loro osservanza. Quanto poi all’esplicita limitazione della punibilità alla sola colpa grave per imperizia, si è ritenuto per tale via di cristallizzare l’opzione giurisprudenziale maggiormente restrittiva.
Ciò, evidentemente, non può che indurre a ribadire le perplessità già manifestate in merito a tale scelta, anche con riferimento allo scopo dell’intervento, che, così concepito, non restituirebbe piena effettività all’art. 32 Cost. e al fondamentale diritto dell’individuo di essere curato al meglio. Il rischio, in altri termini, è che il legislatore, preoccupato soprattutto di scongiurare interpretazioni giurisprudenziali discordanti, stia per compiere un passo indietro, in termini garantistici. Parametrato al diritto vivente, infatti, l’ambito di favore per la classe medica si andrebbe a restringere ai soli casi di imperizia, vanificando l’obiettivo primario di allontanare dai medici la tentazione di garantire la loro incolumità giudiziaria piuttosto che quella fisica e psichica dei pazienti sottoposti alle loro cure.
A questo punto, l’auspicio è duplice: sul piano interpretativo, che si estenda il trattamento più favorevole della legge Balduzzi tanto alle condotte degli operatori sanitari connotate da imperizia quanto a quelle accompagnate da imprudenza e negligenza; sul piano normativo, che il legislatore, nell’ambito dell’articolato dibattito parlamentare in corso, faccia tesoro dell’evoluzione giurisprudenziale e dei suggerimenti correttivi emersi nei primi dibattiti sul disegno di legge Gelli-Bianco (in parte compendiati in alcuni dei numerosi emendamenti presentati in Commissione igiene e sanità del Senato) e abbandoni l’idea di differenziare l’imperizia dalla imprudenza e dalla negligenza, uniformando in chiave di garanzia (prima che dei medici della medicina) l’innalzamento dell’asticella della responsabilità colposa in ambito sanitario.
Note
1 Blaiotta, R., Colpa grave e responsabilità penale del medico, in Libro dell’anno del Diritto 2014, Roma, 2014, 127 ss.
2 Palazzo, F., Causalità e colpa nella responsabilità medica (Categorie dogmatiche ed evoluzione sociale), in Cass. pen., 2010, 1236.
3 In questo senso, ad esempio, Piras, P., In culpa sine culpa, in www.penalecontemporaneo.it, 26.11.2012.
4 Rilevanti puntualizzazioni in Cass. pen., sez. IV, 9.4.2013, n. 16237, Cantore, in Cass. pen., 2013, 2984 ss.
5 Romano, M., Tavola rotonda di presentazione e discussione del Progetto, in Il problema della medicina difensiva. Una proposta di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito dell’attività sanitaria e gestione del contenzioso legato al rischio clinico, a cura di G. Forti-M. Catino-F. D’Alessandro-C. Mazzucato-G. Varraso, Pisa, 2010, 123 ss.
6 In www.penalecontemporaneo.it, 29.3.2013.
7 C. cost., ord. 6.12.2013, n. 295, est. Frigo, in www.penalecontemporaneo.it, 9.12.2013.
8 A partire da Cass. pen., sez. IV, 24.1.2013, n. 11493, in www.penalecontemporaneo.it, 29.3.2013.
9 Cass. pen., sez. IV, 23.4.2015, n. 16944, in Guida dir., 2015, fasc. 24, 73 ss.
10 Cass. pen., sez. IV, 9.10.2014, n. 47289, in www.penalecontemporaneo.it, 23.3.2015 e, più di recente, Cass. pen., sez. IV, 16.4.2015, n. 20300; Cass. pen., sez. IV, 7.5.2015 n. 34295; Cass. pen., sez. IV, 1.7.2015, n. 45527, in Riv. it. med. leg., 2016, 361 ss.
11 Cass. pen., sez. IV, 11.5.2016, n. 23283, in www.penalecontemporaneo.it, 27.6.2016.
12 Lo segnala ancora Cass. pen. n. 23283/2016.
13 Di Giovine, O., In difesa del c.d. Decreto Balduzzi, in Arch. pen., 2014, 7.
14 Piras, P., Culpa levis sine imperitia non excusat: il principio si ritrae e giunge la prima assoluzione di legittimità per la legge Balduzzi, in www.penalecontemporaneo.it, 24.4.2015, 2 ss.
15 C. cost., 28.11.1973, n. 166, in Giur. cost., 1973, 1795 ss.
16 In questo senso, Cass. pen. n. 47289/2014 e Cass. pen., sez. IV, 6.3.2015, n. 9923, in Guida dir., 2015, fasc. 15, 96 e in www.penalecontemporaneo.it, 24.4.2015.
17 Sul quale, con diverse prospettive di analisi, v. i commenti di Piras, P., La riforma della colpa medica nell’approvanda legge Gelli-Bianco, in www.penalecontemporaneo.it, 25.3.2016; Panti, A., Il d.d.l. sulla responsabilità professionale del personale sanitario: il punto di vista del medico, in Dir. pen. e processo, 2016, 374 ss.; Ponzanelli, G., La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa, in Danno e resp., 2016, 816 ss.