Vedi COLOSSO di Rodi dell'anno: 1959 - 1994
COLOSSO di Rodi (v. vol. II, p. 773)
La cronologia del capolavoro di Chares è stata precisata con nuovi argomenti. Un'iscrizione rinvenuta a lasos ha provato che il sisma nel quale rovinò la statua accadde il 228 a.C. Indipendentemente da questa scoperta, la critica filologica aveva constatato che nella pagina pliniana sul C. la lezione LXVI è preferibile a LVI, dove sono indicati gli anni durante i quali il monumento era rimasto in piedi (Plin., Nat. hist., ΧΧΧIV, 41). Contando, come d'uso in antico, sia l'anno di partenza che quello d'arrivo, si risale al 293 a.C. per il completamento dell'opera. Poiché Plinio calcola dodici anni per l'esecuzione dei lavori, si raggiunge il 304 a.C. per l'inizio: la dedica avvenne dunque al momento stesso della liberazione di Rodi dall'assedio di Demetrio Poliorcete.
Tale restituzione mette in luce un'altra coincidenza. Secondo la lista dei sacerdoti di «Halios», che ci è pervenuta lacunosa in un'iscrizione di Rodi, la carica veniva assegnata alternatamente a cittadini provenienti da una delle tre tribù entro le quali erano distinti gli abitanti, in relazione ai centri dell'isola che avevano determinato il sinecismo: Ialiso, Camiro e Lindos; nel 304-303 il sacerdote (identificabile con un Dioxippos figlio di Hierophon) doveva essere originario di Lindos. Il che può aver avuto un peso nella scelta dell'artista, essendo Chares nativo di Lindos.
Dal punto di vista iconografico, va considerata superata la ricostruzione del C. come una figura rigidamente verticale (Gabriel). Qualche interesse ha suscitato la proposta di utilizzare un rilievo in calcare del museo di Rodi, dove rimane il busto di un personaggio giovanile in atto di farsi schermo con la mano destra (Maryon). Il soggetto lascia comunque aperta la contraddizione tra il gesto e la natura luminosa del Sole, personificato dal Colosso. Inoltre lo schema è stato riconosciuto identico a quello che appare su di un rilievo in pietra tenera di Taranto, dove l’aposkopèuon non è certamente Helios.
Diverso sviluppo ha ottenuto l'intuizione, inizialmente affidata al confronto con la tradizione medievale e umanistica, che una copia romana del C. fosse da ravvisare nel c.d. Apollo Soldini del Museo di Civitavecchia (Langlotz). Rinvenuta nel 1957 da A. Soldini a Santa Marinella, nella villa che fu anche del giurista Ulpiano, la scultura è stata eseguita, in marmo greco insulare, al tempo di Adriano. Variamente interpretata, è stata recentemente analizzata nei suoi valori stilistici, e riconosciuta come derivazione da un originale in bronzo di scuola lisippea, databile attorno al 300 a.C. (Simon): il suggerimento di vedervi l'Apollo Caelispex del culto romano, urta però con la diversa restituzione raggiunta per quella statua (Coarelli).
Il carattere lisippeo dell'opera è invece accentuato dall'analogia del viso e della pettinatura con il Kairòs (v.), allegoria particolarmente espressiva dell'estetica del maestro cui Chares appariva devoto (Rhet. Her., IV, 9), e l'eventuale dipendenza dal C. si rafforza per l'identità dei tratti e della capigliatura con una testa in terracotta nei magazzini del museo di Rodi, che reca i fori per l'inserimento dei raggi solari: è indicativo che il pezzo fosse stato datato al primo ellenismo e avvicinato all'iconografia lisippea (Zervoudaki), prima che ne venisse rilevata la coincidenza con la statua da Santa Marinella (Moreno).
Va aggiunto che nel deposito del Museo di Civitavecchia si trovano altri frammenti, non ricomposti nel restauro attuale della scultura: tra questi, parte della mano destra, e una fiaccola che vi si può inserire. Tenendo conto dell'inizio conservato del braccio, la fiaccola va immaginata innalzata con forte slancio. Si ricorderà che nella Gigantomachia dell'Altare di Pergamo, Helios brandisce la face, simbolo di Phosphoros (v.). L'attributo, impugnato nella destra dalla personificazione di Sol, ricorre su di un rilievo a Vienne, in una moneta di Pessinunte al tempo di Marco Aurelio, e va con ogni probabilità restituito nella statua mutila della Ny Carlsberg Glyptotek (v. chryseros), analoga alla nostra per il movimento generale.
L'epigramma che esalta il. C. parla di una «splendente fiaccola (φέγγος) d'indomita libertà», che i Rodi avevano innalzato perché fosse vista non solo dal mare, ma dal continente: «ai discendenti da stirpe di Eracle è infatti patrio dominio in mare e in terra» (Anth. Graec., VI, 171). L'allusione alle pretese di Rodi sulla Perea, la penisola che fronteggia la città alla distanza di una decina di miglia, rende plausibile la notazione iconografica. La statua era alta 32 m, e aveva un basamento di eccezionale sviluppo, a giudicare dalla descrizione di Filone di Bisanzio. Inoltre, non era impiantata al livello del mare (come voleva la leggenda diffusa dai Crociati), poiché Strabone dice che nel crollo travolse alcuni edifici: dunque si trovava alle falde dell'acropoli (dove sono state rinvenute le iscrizioni relative al culto di «Halios»), se non addirittura sulla cresta di Monte Smith, dove resta la traccia di una platea di blocchi. In ogni caso, la fiamma sollevata dal C. toccava una quota sufficiente per essere scorta dalla costa asiatica: possiamo immaginarla dorata, come quella che sovrasta la Statua della Libertà a New York, ispirata appunto a quell'epigramma.
A tale proposito, è sorprendente la comparazione tra il marmo di Civitavecchia e il colosso di Frederic-Auguste Bartholdi: nell'uno e nell'altro caso, il forzato allungamento all'indietro della gamba destra appare determinato dall'esigenza di allargare la base d'appoggio per una figura d'inusitata altezza, e di compensare l'impulso verticale del braccio. Nel nudo del C., l'apertura che veniva a crearsi tra le gambe era così ampia da giustificare l'origine del paradosso, che vi sarebbe potuta passare una nave: scomparsi i frammenti della statua nel 635 d.C., in seguito all'invasione araba, i racconti dei marinai avrebbero trasferito fantasiosamente all'imboccatura del Porto Piccolo di Rodi l'eccezionale, ma effettiva divaricazione.
L'immaginario del C. quale si diffuse in Occidente dopo le Crociate, non ha solo questo elemento in comune con la statua da Santa Marinella, bensì la nudità, il volto giovanile incorniciato da una mossa capigliatura, la faretra a tracolla, la fiamma sollevata con una mano, e un oggetto nell'altra che talora è uno scettro, potendo corrispondere all'arco che nella copia romana è tenuto con la sinistra. In particolare, la presenza dell'arma nell'originale è raccomandata dalla menzione del C. quale «immagine di Apollo» (Niceta Coniate, Septem miracula), e nell'insieme si ambienta con il modello di cui direttamente disponeva Chares: il Colosso di Zeus a Taranto, eseguito da Lisippo attorno al 311 a.C., alzava nella destra la folgore, e stringeva nella sinistra lo scettro, piantato al suolo. Così nel bronzo di Rodi l'arco poteva toccare terra (diversamente rispetto alla replica in marmo, dove conveniva farlo aderire alla figura), offrendo un opportuno appoggio al peso del braccio abbassato.
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