COLORE (dal lat. color; fr. couleur; sp. color; ted. Farbe; ingl. colour)
La denominazione "colore" si applica tanto alla sensazione fisiologica provata sotto l'effetto di luci di diversa qualità e composizione, quanto alle luci esse stesse che provocano quella sensazione e alle sostanze capaci di modificare la luce in modo da darle quella peculiare composizione. Si chiama luce bianca la luce del sole, o meglio quella diffusa dalle nuvole chiare in una giornata luminosa (v. bianco); e si chiama bianco ogni oggetto che si rifletta e diffonda o lasci passare in trasparenza quella luce senza modificarla qualitativamente. La luce bianca contiene una zona di radiazioni visibili che vanno dal raggio estremo rosso al raggio estremo violetto (v. luce). Corpi colorati sono quelli che esercitano un'azione selettiva, assorbendo alcune delle radiazioni visibili e altre no assorbendole in misura diversa, in modo da rinviare o lasciar passare una luce in cui le diverse radiazioni dello spettro non sono rappresentate nella stessa proporzione come nella luce solare. Lo studio dei colori e delle luci colorate può farsi dal punto di vista fisico, in base alla composizione spettrale: questo argomento sarà trattato sotto luce. Può farsi invece nel riguardo dell'effetto visivo, che è ben altra cosa, perché luci di composizione fisica assai diversa possono dare la stessa sensazione (cosiddetti colori metameri). Per le questioni teoriche sui colori visivi, la loro determinazione, la composizione e la scomposizione, v. cromatica. Per i pigmenti e altre sostanze usate per ottenere colore, v. coloranti, sostanze. Per quanto riguarda l'effetto visivo dal punto di vista fisiologico, v. visione. Qui diciamo dei colori visivi nel loro intervento in natura e nelle loro applicazioni nell'arte.
I colori nella natura.
Colori degli animali. - I colori degli animali, nell'infinita ricchezza dei loro motivi, nelle peculiari differenze che contraddistinguono i sessi e talora le età, e ancor più nella singolare mutevolezza con le condizioni ambientali o col mutar di stagione o per determinati stati fisiologici e psichici, come anche nella frequente e talvolta meravigliosa rispondenza e armonia con l'ambiente, non potevano non richiamare l'attenzione sin dei più antichi osservatori della natura. Attenzione che non si è, però, con essi esaurita, ché sempre più complesso e pieno d'interesse è apparso, col procedere delle ricerche, l'insieme dei problemi generali, fisico-chimici, fisiologici ed ecologici che ai colori degli animali si connettono.
Distinguiamo anzitutto, dalle colorazioni più propriamente legate alla presenza, nell'organismo, di determinate sostanze coloranti o pigmenti, quelle dipendenti invece da fenomeni essenzialmente fisici, inerenti a particolarità strutturali del tegumento o degli organi annessi chitinosi o cornei (scaglie, penne, ecc.).
Dalle tenui e pur vivaci iridescenze dei delicatissimi ctenofori, o delle sottili ali di libellule, ditteri, imenotteri, agli splendori cangianti dei policheti del gen. Aphrodite e, più, dei buprestidi, delle cetonie, delle cantaridi e dei carabi, ai meravigliosi azzurri dei lepidotteri o dei rettili, o all'argenteo dei pesci e allo svariare metallico di molti uccelli, intervengono, a determinarli, condizioni essenzialmente strutturali, riferibili ora a iridescenze di lamine sottili, come sulle due facce di una membranella liquida, ora invece a fenomeni di riflessione e di interferenza, dipendenti dalla presenza di aria nei canalicoli delle squame, o dalle delicate e fini sculture delle superficie di queste, funzionanti da reticolo di diffrazione. In moltissimi casi ancora l'effetto cromatico definitivo dipende dal concorso simultaneo di condizioni strutturali e di sostanze pigmentarie, come nelle più splendide tinte cangianti dei coleotteri e degli uccelli, dove ai fenomeni di diffrazione delle sottili lamine chitinose o cornee superficiali si aggiunge l'azione del sottostante sfondo oscuro di pigmento melanico, funzionante da mezzo torbido.
Più largamente e comunemente diffuse sono le colorazioni dovute ai pigmenti, fra i quali costanti, se pur con varia distribuzione, nella serie animale, i carotinoidi, le melanine, i pigmenti del gruppo delle porfirine. E, mentre ai primi sono, fra l'altro, dovuti gran parte dei colori rossi, aranciati, gialli così frequenti negli invertebrati e nei vertebrati inferiori o negli uccelli, e pigmenti derivati dalla clorofilla alimentare (gruppo delle porfirine) colorano in verde l'emolinfa o i tegumenti di moltissimi insetti come di svariate forme marine, le melanine, sostanze aromatiche azotate, diffusissime fra i più diversi gruppi, costituiscono, in particolare, l'unico pigmento cutaneo dei mammiferi. Ricorderemo ancora infine le basi puriche, guanina e acido urico, delle colorazioni bianche o argentee di alcuni insetti e aracnidi, come soprattutto dei pesci, anfibî e rettili.
Largamente diffusi, oltreché nei liquidi circolanti e di escrezione nei più diversi organi del corpo, tali pigmenti hanno tuttavia nel sistema cutaneo la sede di elezione, dove più spiccate e forse meno difficilmente definibili devono essere le loro funzioni.
Istologicamente, essi sono, nei casi più frequenti, portati da caratteristiche formazioni cellulari, i cromatofori, che ne sono anche i centri di elaborazione per uno specifico differenziamento ghiandolare. Cellule pigmentarie ameboidi sono state descritte in forme diverse di spugne, celenterati, anellidi, ed echinodermi; ma tali elementi sono soprattutto studiati nei molluschi, nei crostacei, e nei vertebrati inferiori. La presenza, nel derma, dei cromotofori, costituiti ora (cefalopodi) da una cellula centrale carica di pigmento e sulla cui superficie esterna s'inseriscono radialmente elementi fibrosi di natura muscolare, ora invece (crostacei, vertebrati inferiori) da elementi cellulari di forma stellata per ricche e ramificate arborizzazioni, conferisce all'animale, in varia misura secondo le forme, la singolare capacità del cambiamento di colore, attraverso il giuoco di contrazione e rilasciamento delle fibre muscolari, o la migrazione del pigmento lungo le delicate ramificazioni delle cromorrize. In particolare, nei vertebrati, fra melanofori, guanofori e lipofori, sono i primi quelli che hanno decisiva importanza nel determinismo della colorazione cutanea, in quanto, per la loro situazione profonda rispetto agli altri, almeno negli anfibî e nei rettili, e per la disposizione delle cromorrize, fittamente insinuantisi tra guanofori e lipofori degli strati sovrastanti, il vario grado di espansione del pigmento nero interviene nella possibilità di estrinsecazione degli altri colori come dei fenomeni di interferenza da mezzo torbido.
Senza addentrarci in questa che è una delle più singolari e più complesse funzioni del tegumento, funzione che ha avuto il suo primo e geniale illustratore nel Vallisnieri, ricorderemo come il cambiamento di colore debba considerarsi fenomeno di natura riflessa, provocato da stimoli ora prevalentemente visivi (crostacei, pesci), ora invece (cefalopodi, anfibî, rettili) prevalentemente tattili, cutanei, e legato quindi all'azione di particolari centri cromatici nonché di vie efferenti (nervi pigmento-motori, di nozione più fisiologica che anatomica), oltreché afferenti.
Notevolmente diversa da quella finora descritta è la condizione offerta, fra l'altro, dagl'insetti e dagli aracnidi, fra gl'invertebrati; dagli uccelli e dai mammiferi, fra i vertebrati; dove i cromatofori mancano o sono assolutamente subordinati, rispetto al pigmento disciolto nella chitina (melanine, carotinoidi, derivati purici degli insetti), o entro le cellule epidermiche dello strato di Malpighi e cornee (melanine e carotinoidi degli uccelli, melanine dei mammiferi). Nei vertebrati superiori, quindi, i colori cutanei sono, a differenza degl'inferiori, di origine essenzialmente epidermica.
Dal contrasto creato dalla diseguale distribuzione del pigmento epidermico, come dalla diseguale distribuzione dei cromatofori o dal loro vario stato di espansione o di retrazione, nascono poi i molteplici disegni cutanei di tutte queste forme. In particolare, prevalentemente fisiologici essi appaiono nei pesci, soprattutto nei giovani, dove, come nel luccio, uniforme essendo la densità cutanea dei melanofori, le fasce oscure - che, in determinate condizioni, possono anche scomparire - dipendono appunto dall'alterna contrazione ed espansione di quelli. Anatomicamente preformate e perciò sostanzialmente costanti sono invece macchie e strie negli anfibî e nei rettili, pur potendo variare in modo tale di evidenza, da dare, volta a volta, apparenze profondamente differenti: così nel camaleonte il disegno, vivacemente spiccato in individui irritati e attivi, che appaiono anche più oscuri, si attenua fino a divenire quasi invisibile, nello stato d'inerzia o di malessere, cui si accompagna una chiara colorazione grigiastra pressoché uniforme. Il problema della genesi di questi disegni costituisce uno dei più interessanti capitoli della morfofisiologia del tegumento nella serie animale. Sembra, entro certi limiti, possibile, nella così grande varietà di aspetti che si osserva in natura, rintracciare alcune linee fondamentali. Così, per gl'insetti, si ammette da alcuni un successivo evolversi da un tipo primitivo a strette fasce dirette secondo l'asse del corpo, verso serie di macchie o, per diffusione del pigmento, a chiazze e fasce più ampie, sino a forme secondariamente unicolori. Nei vertebrati la striatura longitudinale sembrerebbe più primitiva e, come tale, propria delle forme più basse di un'unità sistematica, in confronto dei successivi tipi a striatura trasversale a macchie. Sulla base di questi schemi, i disegni del maschio apparirebbero più evoluti di quelli della femmina e, specie fra gli uccelli, l'abito adulto di questa, come quello giovanile comune ai due sessi, richiamerebbe condizioni primitive. Aggiungeremo come, sempre negli uccelli, i disegni che si riscontrano sulle singole penne, prese isolatamente, ripetano le forme di quelli totali del corpo. Molteplici e insufficienti sono i tentativi d'interpretazione. E, mentre l'evoluzione delle nervature delle ali durante il periodo ninfale, considerando le prime nervature trasverse sede elettiva di deposizione del pigmento, non soddisfa alle condizioni delle diverse forme tra gl'insetti, come l'andamento dei fenomeni di precipitazione ritmica in seno a mezzi colloidali (fenomeno di Liesegang) non spiega che apparentemente i singolari sistemi di anelli colorati concentrici di molti lepidotteri; per i vertebrati non appaiono generalizzabili né la relazione, stabilita da Zenneck per i rettili, tra la distribuzione dei cromatofori e il decorso primitivo dei vasi sanguigni embrionali, né la distribuzione metamerica del pigmento ammessa da van Rynberg in dipendenza della innervazione periferica. Per alcuni mammiferi, sembra esservi netto parallelismo tra i centri di deposizione del pigmento epidermico e i centri di più energica segmentazione e differenziamerito della pelle.
Sulla colorazione cutanea influiscono molteplici fattori esterni e interni. Così, a prescindere dalla comune colorazione generale delle forme viventi nel medesimo habitat ed esposte quindi all'azione dei medesimi fattori, ben nota è ai sistematici l'esistenza per molte specie (rettili, anfibî, insetti) di razze o varietà locali, con frequente tendenza al melanismo per habitat freddi o umidi, montani o nordici, e a più intensa saturazioue dei colori per luoghi asciutti e soleggiati. Tali varietà locali e climatiche ci richiamano le non meno interessanti varietà stagionali, come nel classico esempio della vanessa, che, in primavera, dalla crisalide che ha svernato, esce con una livrea gialla a macchie nere e bianche, per fornire la generazione autunnale nera cou una banda bianca. In generale, le caratteristiche delle varietà stagionali sono, per la medesima specie o per specie vicine, simili a quelle delle corrispondeuti varietà locali più meridionali o più nordiche. Richiameremo ancora qui il ben noto dimorfismo di stagione degli uccelli e dei mammiferi (v. dimorfismo), dove le influenze climatiche si rilevano dal fatto che la medesima forma, a dimorfismo normale, può - ad es. l'ermellino - nei paesi privi di neve dell'Europa meridionale, conservare d'inverno l'abito estivo bruno; o, viceversa, la volpe polare, nelle regioni più nordiche, rimanere costantemente bianca. Si tratta evidentemente, in tutti questi casi, dell'intervento di un insieme assai complesso di fattori, dei quali tuttavia alcuni hanno potuto essere sperimentalmente isolati. Così la forma primaverile di vanessa è stata ottenuta dalle pupe estive, allevate a bassa temperatura, e, in genere, le varietà climatiche sono riproducibili mantenendo le ninfe alle corrispondenti condizioni termiche. Particolarmente interessante e molto complessa è l'azione che, sullo sviluppo del pigmento, esplica la luce. A conferma di quanto può osservarsi in natura stanno le ben note ricerche sul Proteus che, esposto alla luce, vi riacquista una pigmentazione gialla e nera, che perderà nuovamente per ritorno al buio; o quelle sui pleuronettidi che, illuminati dal basso durante la metamorfosi, mostrano inversione della colorazione. Si tratta di un'azione, ripetiamo, assai complessa, nella quale è difficile stabilire, caso per caso, quanto sia direttamente riferibile alle radiazioni luminose e quanto invece si svolga attraverso le eccitazioni condotte dagli occhi al sistema nervoso; inoltre essa non può concepirsi che accompagnata e subordinata ai fattori interni, suscettibili di intervenire, modificando o inibendo l'azione pigmentatrice della luce, senza di che non si potrebbero comprendere molte delle apparenti incongruenze sperimentali. Ricorderemo ancora come molti bruchi o ninfe, e persino bozzali, assumano la colorazione dell'ambiente, quasi una sorta di fotografia della natura, riferibile forse al fatto che i raggi ultrarossi e la luce bianca, dei primi particolarmente ricca, inibirebbero la formazione di melanina - onde la comparsa di larve e crisalidi chiare in ambiente chiaro - mentre le radiazioni gialle, di cui è ricca la luce riflessa dal fogliame, favorirebbero lo sviluppo del pigmento verde, e i raggi ultravioletti, infine, riflessi dalle superficie scure, quello del pigmento nero. Le radiazioni agirebbero forse attraverso una modificata reazione del mezzo interno. Altro importantissimo fattore deve essere rappresentato dall'alimentazione. Negl'insetti sono caratteristiche le larve (Eupithecia), che acquistano colore diverso secondo quello delle piante di cui si nutrono. Numerose ricerche sperimentali confermano una tale azione alimentare, ma in modo non ancora chiaramente interpretabile. Tra i fattori interni della formazione e distribuzione del pigmento, ricorderemo, oltre all'azione trofica del sistema nervoso sui cromatofori, le influenze ormoniche e sessuali. Prescindendo, per il momento, dall'azione esplicata dall'attività della gonade, che rientra piuttosto nel quadro dei fenomeni di dimorfismo sessuale, del quale le differenze cromatiche non sono che uno degli elementi, ricorderemo l'azione dell'ormone tiroideo che sulle penne - di cui ha anticipato la muta - induce ora una diluizione del pigmento, ora un mosaico di aree bianche (Giacomini), inibendo anche quei colori strutturali, che sembrano invece esaltati dal timo (Zawadowsky); il quale, d'altro lato, favorisce la persistenza dei colori e del disegno giovanile.
Il complesso di questi dati, circa la dipendenza del pigmento da fattori esterni alimentari e ormonici, cui dovremmo aggiungere quelli forniti dalla patologia, ci dimostra come i pigmenti, e quindi le colorazioni che ne derivano, si innestino sui processi metabolici dell'organismo; e, più particolarmente, sembra giustificato ricollegarli coi processi di escrezione derivanti sia dal catabolismo più propriamente endogeno cellulare, sia dalla più o meno profonda elaborazione dei materiali alimentari; da queste diverse capacità di escrezione e di elaborazione, lungo la scala animale, dipendono, fra l'altro, le differenze appunto di colorazione.
Il che, pur dimostrandoci tale fenomeno come la risultante di fattori fisici ambientali e di fattori metabolici, agenti sull'organismo, non ci permette tuttavia di escludere per esso una sua propria e immediata importanza fisiologica. La quale, mentre da un lato ci richiama alla considerazione delle singolari manifestazioni di omocromia, ora fissa e costante - sì che dall'aspetto può a volte definirsi l'habitat dell'animale - ora realizzata dal mutevole giuoco dei cromatofori (pur non dimenticandone l'origine da condizioni fisiche ambientali e guardandoci dagli unilaterali eccessi di interpretazione, cui su questo terreno, sostituendo il fine alla causa, si è giunti), dall'altro ci fa pensare che le variazioni cromatiche dei pecilotermi, regolate (rettili) da un'innervazione analoga a quella che presiede ai meccanismi di termoregolazione negli animali superiori, possano aver appunto importanza, in alcuni almeno, nel senso di assicurare loro, in certo grado, quella regolazione fisica della temperatura, che l'habitat acquatico o la limitata superficie polmonare e la corneificazione cutanea non permeaono di raggiungere attraverso l'ordinario processo dell'evaporazione.
Colori delle piante. - Nei vegetali le colorazioni, numerose e svariate quanto negli animali, sono determinate o dalla presenza di pigmenti, e questo è il caso più generale, o da fenomeni di riflessione, interferenza, rifrazione, o come avviene frequentemente, dalle due cause insieme. Più di rado le colorazioni sono dovute ad incrostazioni di sostanze escrete di natura organica o minerale, depositate alla superficie allo stato amorfo o cristallino.
Circa il significato delle colorazioni nei vegetali, soltanto di poche si conosce con esattezza l'importanza, non solo nei riguardi dei vegetali stessi, ma anche di tutti gli esseri alla superficie della terra; della maggior parte invece la funzione ci sfugge.
Il verde in tutte le sue gradazioni è il colore dominante nei vegetali ed è dovuto essenzialmente alla clorofilla (v.), legata ai cloroplasti, che di regola inverdiscono sotto l'azione della luce, rimangono gialli o quasi incolori nelle piante etiolate cresciute al buio. Estesi tratti della superficie terrestre debbono la loro tinta al manto vegetale, costituito in prevalenza di piante verdi. Esistono tuttavia numerose altre piante, generalmente acquatiche, che, pur possedendo clorofilla, si mostrano colorate in azzurro (Cianoficee), in giallo, in giallo-bruno, verde-bruno (Diatomee, Peridinee, Feoficee), in viola o rosso (Rodoficee), per la presenza nello stesso plastide di un altro pigmento oltre quello verde, quali rispettivamente la ficocianina, la ficoxantina, la ficoeritrina, tutti pigmenti coadiuvanti la clorofilla nel processo fotosintetico, in quanto permettono di utilizzare le radiazioni che giungono alle diverse profondità nell'acqua. Dal Gajdukov, autore della teoria dell'"adattamento cromatico", e successivamente da altri studiosi è stato sperimentalmente dimostrato per alcune Cianoficee (specie di Oscillatoria, di Phormidium) che in colture a luce artificiale esse assumono il colore complementare di quello della luce da cui sono colpite.
La colorazione gialla o rosso-ranciata di molti fiori (tarassaco, calendula) e frutti (pomodoro, rosa, biancospino) è anch'essa legata a quei plastidî, detti cromoplasti, contenenti, in forma di gocciole o di cristalli, la xantofilla e la carotina, pigmenti che entrano anche nei cloroplasti a far parte della clorofilla greggia. È eccezionale la colorazione gialla o rossa negli organi vegetativi per presenza di cromoplasti: ne abbiamo un esempio nella carota gialla, donde fu per la prima volta isolata la carotina.
Oltre che nei plastidî, i pigmenti possono trovarsi sciolti nel succo cellulare, e di questi i più diffusi sono le antociane, sostanze di natura glucosidica cui i fiori debbono i colori più smaglianti delle tonalità dall'azzurro al viola e al rosso, a seconda della reazione alcalina o neutra oppure acida del succo cellulare. Spesso avviene che nella stessa foglia fiorale si trovino associati cromoplasti e antociane e ne derivino colorazioni di addizione con sfumature e venature molto graziose (viola del pensiero, giaggiolo, tropeolo). Le antociane colorano anche molti frutti (ciliegie, susine, albicocche), i fusti e le foglie di molte piante erbacee, coltivate appunto per il loro colore rosso-carminio, rosso-scuro (Amarantus, Coleus, Iresine, Beta, ecc.), le foglie e i giovani rami di alcune piante legnose (varietà porporine del faggio e del nocciolo, varie specie di Prunus). Le splendide tinte rosse o rosso-ranciate che assumono le foglie della vite nostrale, della vite del Canada e di altre piante legnose in autunno, prima della caduta, sono determinate da sviluppo di pigmento antocianico, il cui effetto si somma al color giallo delle gocciole derivanti dal disfacimento dei cloroplasti.
In alcune piante sempreverdi (Mahonia, Berberis) l'abbassamento di temperatura durante l'inverno determina una variazione stagionale di colore, provocando nelle foglie, che da verdi diventano rosse, la formazione di antociana, utile, secondo alcuni autori, per proteggere i cloroplasti dall'azione dannosa del freddo. Anche in alcune Conifere (Thuja, Cryptomeria) le foglie e i rami più giovani acquistano un abito invernale caratteristico, di color rosso-bruno, ritenuto anche in questo caso di natura protettiva, ma non dovuto a formazione di antociana bensì a modificazione temporanea della clorofilla che si rigenera alla primavera successiva.
Oltre all'antociana, si trovano disciolti nel succo cellulare, sebbene più raramente, un pigmento giallo noto col nome di antoclorina, come nella corolla di Digitalis lutea, Linaria vulgaris, Primula elatior e nella buccia dei limoni, e un pigmento bruno, l'antofeina, che dà le macchie scure dei petali di Vicia faba e il colorito nero del calice di Delphinium triste. Il color giallo o ranciato delle spore e del micelio di molti funghi (specie diverse di Puccinia, Nectria, Peziza), nonché delle spore e degl'individui vegetativi di alcune alghe è dovuto ai lipocromi, pigmenti del gruppo delle carotine, legati a gocciole di grassi. Fra le alghe va segnalato l'Haematococcus nivalis, piccola volvocacea unicellulare che, moltiplicandosi attivamente, dà luogo al fenomeno della neve rossa.
Fra i pigmenti diffusi nel plasma cellulare vanno annoverate la batterioviridina e la batteriopurpurina; la prima, afnne alla clorofilla, è propria dei Clorobatterî; la seconda è caratteristica dei Rodobatterî, viventi nelle acque sulfuree e stagnanti, che colorano talora in un rosa o rosso carminio intenso. Non bisogna però confondere queste colorazioni legate al corpo vivo dei batterî con le colorazioni vivaci rosse, gialle, violette, azzurre, che molti batterî cromopari elaborano nel loro ricambio e versano nell'ambiente.
In molte piante o parti di esse il colore è dovuto alle membrane impregnate di sostanze diverse, com'è il caso dei legni a durame colorato, di molti semi e frutti a guscio legnoso o pergamenaceo, del ricettacolo di numerosi funghi (rossole, prugnoli, amanite, ecc.). Talora però nei funghi e specialmente nei licheni le colorazioni possono derivare da prodotti di escrezione eliminati dalle ife e depositati alla loro superficie in forma di incrostazioni granulari o anche cristalline (Xanthoria parietina, Solorina crocea, ecc.).
I colori bianco e nero, abbastanza frequenti anche nei vegetali, sono più spesso attribuibili a fenomeni fisici che non alla esistenza di sostanze coloranti particolari. Così ad es. il bianco candido di molti fiori (giglio, rosa, ninfea) è dovuto unicamente alle membrane e al contenuto incolore delle cellule periferiche e alla presenza d'aria negli ampî spazî intercellulari dei tessuti sottostanti, i quali, agendo come fondo opaco, non assorbono ma riflettono la luce. Alla stessa causa si deve il bianco della polpa di molti frutti, delle foglie albomaculate (Acer negundo, Pelargonium zonale), del micelio di molti funghi, del midollo di sambuco, di girasole, di rosa (nel qual caso oltre agli spazî intercellulari, anche le cellule, essendo morte, sono piene d'aria), delle piante bianco-tomentose (stella delle Alpi, verbasco, salvie diverse) per presenza di lunghi peli ripieni di aria, ecc. In molti casi però il bianco è prodotto da depositi di cera oppure di calcare, di sali igroscopici, come cloruro di sodio, di magnesio (piante delle steppe salate).
I piccioli fogliari, le radici, i rizomi nero lucido di molte felci hanno le membrane dei tessuti periferici imbevute di sostanze brune di natura tannica, indicate col nome di flobafeni. Il color bruno o nero dei frutti di Composte deriva invece dai fitomelani, composti ternarî, molto ricchi in carbonio, prodotti dall'alterazione della membrana nelle cellule dei tessuti più esterni dei frutti stessi. In tutti gli altri casi il color nero è dovuto a cause fisiche. Frequentemente si osservano macchie nero-inchiostro sull'orlo delle vasche, sul terreno umido, sulle rocce, prodotte dalla sovrapposizione in più strati di colonie di Cianoficee (Oscillatoria, Cylindrospermum, Microcoleus, ecc.), colonie che osservate al microscopio oppure ad occhio nudo, ma in sottili strati, sono di un bel colore verde azzurro. Le macchie nere alla base delle foglie fiorali di rosolaccio, di tulipano, il nero intenso dei petali di alcune varietà di viola del pensiero e di molti frutti carnosi risultano dal sovrapporsi dell'epidermide, ricca nelle sue cellule di antociana intensamente violetta, ad uno strato opaco di tessuti sottostanti con intercellulari pieni d'aria. Altre volte, come in molte foglie variegate, le macchie nere si debbono all'azione combinata di due colori complementari (rosso dell'antociana e verde della clorofilla) che sovrapponendosi assorbono più o meno completamente la luce che li attraversa.
Quando nello stesso organo alla presenza di uno o più pigmenti si aggiungono strutture particolari, che agiscono fisicamente, si ottengono effetti di straordinaria bellezza. Il bianco argenteo di molte foglie variegate è prodotto ordinariamente da strati d'aria, più o meno estesi, che separano l'epidermide incolora dai tessuti sottostanti (Lamium maculatum, specie diverse di begonia, peperomia); l'aspetto vellutato dei petali si deve alle cellule epidermiche foggiate a cupola o estroflesse in papille. Nelle nostre serre si coltivano molte piante esotiche unicamente per lo splendore del loro fogliame a superficie vellutata o sericea, cangiante, determinata dai riflessi delle papille o calotte epidermiche (Cyanophyllum magnificum, specie di Anthurium, di Begonia, ecc.).
Colori dei minerali. - Il colore per i minerali costituisce un carattere diagnostico molto importante. Si distinguono minerali a colore metallico e minerali a colori ordinarî.
I colori metallici sono osservabili per riflessione (colori di riflessione) e sono caratteristici dei corpi opachi che non si lasciano attraversare dalle radiazioni luminose incidenti, ma in parte le riflettono, e in parte le assorbono. Tali colori vengono specificati nel linguaggio ordinario per riferimento a colori di metalli noti; così, p. es. rosso rame, giallo oro, giallo ottone, nero di ferro, ecc.
I colori ordinarî (colori di assorbimento) si osservano per trasparenza. I corpi trasparenti possono assorbire egualmente tutte le radiazioni costituenti la luce bianca incidente, e allora sono incolori: se invece l'assorbimento avviene in maniera ineguale per cui le radiazioni sono diversamente assorbite i corpi appaiono diversamente colorati.
I minerali non aventi lucentezza metallica si distinguono in idiocromatici a colori proprî e allocromatici se la colorazione è dovuta a pigmenti o a mescolanze diverse. Sono naturalmente colorati, idiocromatici, lo zolfo, la crocoite, la rodocrosite, ecc. Nei minerali costituiti da mescolanze di minerali diversi il rapporto di mescolanza ha grande importanza nella colorazione. Si possono avere minerali colorati per unione di sostanze incolori con piccole quantità di sostanze colorate. Gli allocromatici, come fluorite, salgemma, quarzo, hanno colorazioni facilmente variabili per riscaldamento o per esposizione a radiazioni Röntgen, di natura diversa, per variazione della natura chimica del pigmento o solamente delle sue proprietà fisiche, come la grandezza dei granuli di pigmento.
I minerali incolori dànno polvere bianca, gli allocromatici una polvere incolora o debolmente colorata, gl'idiocromatici dànno una polvere del colore del minerale ma di tono tanto più basso quanto più fina è la polvere. Il colore della polvere si determina per strofinio del minerale su una lastra di porcellana ruvida. Alcuni minerali a splendore metallico ridotti in polvere fina o in sezioni sottili perdono l'opacità completa e appaiono diversamente colorati: l'oro in verde, l'ematite in rosso. La divisione dei minerali a colori metallici e a colori ordinarî è dovuta a Werner che diede anche una scala per i non metallici.
In essa i colori sono indicati con i nomi volgari cui aggiungeva dei qualificativi per indicare la varietà e il tono del colore. La scala è formata di otto termini, bianco, grigio, nero, azzurro, verde, giallo, rosso, bruno, e ognuno è suddiviso in parecchie varietà. Così il bianco può essere niveo, rossastro, giallastro, nerastro, ecc. Oltre il tono e le sfumature s'indica anche l'intensità o grado di un colore con le parole, alto, profondo, chiaro, scuro, debole che seguono il nome del colore.
Colori delle stelle. - La determinazione dei colori delle stelle i quali furono notati fino dall'antichità, ebbe notevole importanza fino a quando non fu possibile studiare lo spettro delle stelle; oggi, è meno importante per le stelle più luminose di cui lo spettro può darci le caratteristiche fisiche (v. astrofisica), mentre è sempre tale per le stelle più deboli, delle quali non è possibile, per mancanza di luce sufficiente, di studiare lo spettro. In questo caso il colore si può ottenere per mezzo della fotografia. I colori stellari sono ricordati nella letteratura astronomica per le stelle doppie, per le stelle rosse propriamente dette, per le stelle variabili, e infine per un vero e proprio studio dei colori dal momento in cui si comprese essere i colori in relazione con le temperature stellari.
I colori delle stelle doppie si trovano determinati dai due Herschel (1782 e 1847), dai due Struve (1824-1878) e da altri. Queste determinazioni, unitamente a determinazioni spettrali delle componenti dei sistemi binarî o multipli, sono state di recente usate per lo studio della costituzione fisica e dell'evoluzione di questi sistemi (cfr. Lick Observatory Bulletin, n. 343, 1923 e Pubbl. Osservatorio Arcetri, Fasc. 40, 1923). Le stelle rosse furono così chiamate per distinguerle dalla gran massa delle stelle, appunto per la loro colorazione caratteristica. Per questo fatto quattro delle nostre stelle fisse più cospicue sono ricordate nell'Almagesto. Il primo a darne una lista fu Lalande nel 1807; seguirono poi gli elenchi di Schmidt del 1873 e il Prodromo del P. Secchi.
Le prime osservazioni sui colori delle variabili furono fatte da T. Brahe, che descrisse la sua Nova del 1572, assegnandone oltre la posizione e la luminosità, anche il colore. Nel 1844 Argelander ideò, per la stima dei colori delle variabili, una scala espressa in parole che fu usata dal suo discepolo Schmidt. Questi pubblicò notizie sul cambiamento di colore di Arturo, propose nel 1872 una scala numerica, fece un elenco delle stelle rosso-gialle, e infine dimostrò l'influenza della distanza zenitale sulla colorazione delle stelle. Veri cataloghi per i colori delle stelle sono quello del Sestini (1845), che contiene tutte le stelle fino alla sesta grandezza, quello dell'Osservatorio di Harvard (1884) e quello fotometrico di Potsdam che contiene i colori delle stelle fino alla 7M.5. Infine si ha il catalogo di Osthoff, pubblicato nel 1900, che comprende tutte le stelle fino alla 6M fra + 90° e − 10° di declinazione.
Le stime dei colori, su varie scale cromatiche, sono di solito fatte con l'occhio, paragonando direttamente le stelle da esaminare con altre stelle di confronto, oppure per mezzo della fotografia. La scala cromatica usata a Potsdam, e prima usata dal Vogel (1883), parte dai tre colori fondamentali: Bianco (weiss) = W; Giallo (gelb) = G; Rosso (rot) = R e specifica i colori misti combinando le lettere a due a due (Publik. Astrophys. Obs. zu Potsdam, III e XVII). Anche il padre Hagen, nella sua Memoria (Specola Vaticana, III) sui colori stellari osservati a Roma negli anni 1844-46 dal Sestini, usa una simile scala, prendendo le iniziali dei colori dalla lingua inglese.
All'occhio nudo le stelle appaiono nella massima parte bianche e soltanto poche hanno un colore deciso come le già accennate rosse di prima grandezza: Antares, Arturo, Aldebaran e Betelgeuse; Sirio, Vega, Altair sono stelle bianche; Capella è gialla. La determinazione del colore a semplice stima è poco precisa perché gli occhi hanno sensibilità molto diversa tanto in funzione dell'intensità, quanto della qualità del colore.
Cambiamenti di colore nelle stelle sono stati osservati e molto discussi, essendo difficile stabilire se si tratti di variazioni vere e proprie, o soltanto di differenti apprezzamenti; si sa ora che le stelle nuove e certe variabili (Cefeidi) presentano variazioni notevoli nel loro spettro che possono appunto manifestarsi in variazioni di colore. Quelle supposte secolari di Sirio, che nell'antichità sarebbe stato visto di colore rosso infocato, sono, secondo le ricerche dello Schiaparelli, da attribuirsi ad una falsa interpretazione dei documenti antichi.
Con la fotografia si misura l'indice di colore, immaginato da Schwarzschild, cioè la differenza fra la grandezza fotografica e la grandezza visuale o fotovisuale (v. fotometria astronomica). Poiché la prima, dedotta da lastre fotografiche ordinarie si riferisce ad un massimo di sensibilità verso la lunghezza d'onda 4600 Å, e la seconda verso 5600 Å, l'indice di colore risulta approssimativamente la differenza fra la colorazione azzurra e gialla di una stella. Si conviene che l'indice di colore sia eguale a zero per le stelle di classe Draper A (I tipo di Secchi) di sesta grandezza, e che il rapporto di luce sia per le grandezze fotografiche quello stesso usato per le grandezze visuali (legge di Pogson). L'indice di colore risulta quindi negativo per le stelle più azzurre di quelle della classe A, essendo la loro intensità nell'azzurro maggiore che nel giallo, mentre viceversa sarà positivo per le stelle gialle e aranciate. Determinato l'indice di colore di una stella, si può da questo dedurne approssimativamente il tipo spettrale e la temperatura.
Bibl.: I. G. Hagen, Colori stellari, Specola astronomica Vaticana, III, Roma 1911; id., Miscellanea astronomica, Specola astr. Vaticana, I, articoli 10-12, Friburgo 1924; S. Newcomb e R. Engelmann, Populäre Astronomie, 7ª ed., Lipsia 1921; Russell, Dugan, Stewart, Astronomy, Londra 1927; G. Armellini, Astronomia siderale, I, Bologna 1928.
I colori nell'arte.
I colori più evidenti dello spettro sono il rosso, l'aranciato, il giallo, il verde, l'azzurro ed il violetto. Combinando in pittura il rosso, il giallo e l'azzurro a due a due, si ottengono l'aranciato, il verde e il violetto. I primi tre sono detti fondamentali o primarî per la composizione sottrattiva, ch'è appunto quella che interviene mescolando sostanze coloranti; i tre che ne risultano, binarî. Combinando i tre fondamentali insieme in diverse proporzioni, sí ottengono i colori smorzati o ternarî. In pratica, mancando i pigmenti fondamentali veri, e anche a causa delle complicazioni conseguenti alla cromia mista, la tavolozza deve sempre venir composta con assai più che tre colori, oltre che col bianco e col nero.
Si dicono complementari l'uno dell'altro quei colori ćhe mescolati nello stato di luce, producono la luce bianca. Ci sono coppie di complementari; ci sono anche triadi. Il loro studio dà all'artista la chiave dell'equilibrio cromatico; ma è studio tutt'altro che facile, specialmente nei riguardi delle applicazioni pratiche; infatti per valersi dei risultati ottenuti dallo scienziato indagando sui colori-luce, l'artista mescola i colori-pigmento, nella cui combinazione entrano, perturbandola, fattori estranei.
Per il fisico, intervengono nel colore tre fattori: tono, tinta e luminosità. L'artista, praticamente, vi distingue il tono e il valore. Tono è, per lui, il colore come qualità, valore è l'intensitb luminosa del tono, la quantia di chiaro o di scuro ch'esso contiene. Graduare un tono significa modificarne il valore; ciò si può fare aggiungendogli luce, cioè rialzandolo; o togliendogliene, cioè abbassandolo. Nel primo caso il tono guadagna in luminosità, nel secondo in intensità. In entrambi i casi esso perde in purezza, il cui massimo è dato dalla gradazione che ha nello spettro, ove è privo assolutamente di luce bianca. Ci sono toni caldi e freddi; salienti e rientranti; giusti e falsi; ricchi e neutri; vivi e tagliati; profondi e leggieri; c'è il tono locale o macchia; c'è il tono dominante. Grande è la mutabilità del colore. Essa avviene per l'influenza dei colori circostanti, o in rapporto alla quantità di luce, diminuendo la quale i colori indeboliscono e tendono verso l'azzurro cupo (quindi l'azzurro si fa più intenso e il rosso si oscura), mentre invece aumentandola volgono verso il giallo arancio (fenomeno di Purkyně). Altre variazioni dipendono dalla qualità della luce: infatti un quadro dipinto alla luce naturale, che è bianca, appare alterato sotto una luce artificiale, essendo quest'ultima deficiente in raggi azzurri e prossimi all'azzurro. Se si accostano due colori di tonalità diversa, se ne aumenta la diversità; ciascuno di essi tenderà più o meno ad apparire come fosse mescolato al complementare dell'altro (contrasto di tono). Se hanno lo stesso grado di luminosità, ciascuno aumenterà in purezza e forza; se la luminosità è differente, il meno luminoso lo diverrà ancor meno (contrasto di valore). Questa legge enunciata dallo Chevreul, ma già intuita da Leonardo, si chiama contrasto simultaneo. Per essa un grigio neutro in un campo colorato tenderà a prendere il tono complementare del campo stesso. Per i toni della stessa gamma, il contrasto aumenta in tono e in valore la intensità del più saturo e viceversa. In virtù del contrasto successivo, se guardiamo intensamente un'immagine colorata e volgiamo poi l'occhio sopra un fondo bianco, la vediamo su di esso colorata nel complementare. La legge delle risultanti ha dato alla tecnica pittorica moderna una delle innovazioni più importanti. Se invece di mescolare sulla tavolozza i componenti di un tono, li accostiamo o li sovrapponiamo in piccola quantità sulla tela (divisionismo, velature a secco), il loro miscuglio avviene nell'occhio, con risultati, quanto a luminosità e vibrazione, assai maggiori.
Avvicinando toni di una stessa gamma, o anche solo graduando un tono, si ha la più semplice delle armonie cromatiche (di analogia). Tale genere di armonia non può tuttavia soddisfare stabilmente l'occhio, mancandole quel senso di equilibrio che solo l'intervento di toni d'altra gamma può stabilire. Base di ogni buona armonia è il contrasto: di qui l'opportunità di ricorrere a toni diversi, che possono essere abbastanza vicini nell'ordine spettrale se si vogliono armonie discrete; o addirittura complementari se il risultato ha da essere più completo e vibrante. Due complementari coi loro derivati ci offrono innumerevoli possibilità di equilibrio. Se sono intensi e vengono adoperati in misura eguale, l'accordo risultante è violentissimo. Per avere migliore armonia si deve graduarne la luminosità, adoperandone uno puro, e l'altro attenuato di valore in senso ascendente o discendente. Sennonché allora il puro deve occupare uno spazio ristrettissimo rispetto all'altro, perché l'estensione di un tono deve sempre essere in ragione inversa della sua intensità. Due coppie di complementari, cioè quattro elementi puri, e i loro derivati, possono dare combinazioni sufficienti in massima alle maggiori esigenze. Moltiplicare troppo le tinte è dannoso, perché l'occhio divaga su tutti i punti della composizione senza essere particolarmente ritenuto da alcuno di essi. Sobrietà e concisione sono i fattori della forza espressiva; ed è la nota dominante che dà il carattere all'insieme. Adoperando due coppie, si scelgono non troppo vicine sullo spettro, per non esporsi ad incontri imbarazzanti nelle gradazioni. Il bianco, il nero, il grigio, intercalati in una composizione troppo monotona, la ravvivano. Due colori discordanti si accordano con l'aggiunta di un terzo.
Le considerazioni che precedono si riferiscono soprattutto alla composizione decorativa, ch'è in fondo astratta, la forma entrando in giuoco in via secondaria, e come limitazione di spazî colorati. La composizione pittorica richiede altre osservazioni. Il pittore deve raffigurare gli oggetti imitandoli in modo almeno verosimile e riconoscibile; deve quindi considerare il colore nei suoi rapporti con la forma, ciò che rende il problema di gran lunga più complicato. In un oggetto egli deve cercare: il colore suo proprio, il tono della parte colpita dalla luce, quello della parte in ombra, il riflesso che l'ombra riceve, il tono di passaggio fra zona in luce e zona in ombra. C'è poi anche il reciproco rinvio di toni e di riflessi fra i corpi vicini. Per lui non ci sono toni singoli, avvicinati, ed esistenti ciascuno per sé. Ci sono totalità, delle quali ogni parte è immersa in una stessa luce e concorre ad un effetto d'insieme, pur conservando un interesse proprio. Ne deriva la necessità di rendere dominante un colore e di cercare i giusti rapporti di estensione e di intensità dei subordinati, sacrificandoli ove occorra per ottenere l'equilibrio. Qui il suo istinto e la sua sensibilità debbono guidarlo per adeguare alle finalità dell'opera il valore espressivo, emotivo del colore. Siamo nella sfera della creazione pura, e non è dal ragionamento e dall'esperienza che sgorga il tono conclusivo.
Il valore del colore nella storia dell'arte. - La storia del colore comincia nelle caverne ove l'uomo primitivo campiva, forse col carbone e col sangue, le figure di animali graffite sulle pareti. Che la sua sensibilità al colore fosse ottusa e portata piuttosto alla intensità che alla qualità della luce; che venisse poi sviluppandosi gradatamente nell'ordine dello spettro, è questione tuttora discussa. Il nero e il rosso furono i primi colori adoperati; vennero poi il bruno e il giallo. Altri tre colori oltre di questi, e cioè azzurro, verde e bianco, con originalissime combinazioni, troviamo presso gli Egizî, il cui accordo tipico era il rosso, nero, giallo. Per loro il colore ebbe valore simbolico e convenzionale, consacrato in formule fisse. Il bianco e il nero vennero usati come contorno e come pausa. Col nero, lumeggiato di rosso, cominciarono i più antichi maestri greci a dipingere figure; ebbero anche un bianco di terra e un giallo d'ocra. Sennonché la tavolozza di Apelle dovette, in seguito, essere assai più ricca, a giudicare da quanto la storia ci dice sulla perfezione raggiunta dalle sue opere. I Greci amarono molto il colore e ne fecero largo uso nell'architettura e nella scultura. Caratteristica dei Romani fu la ricerca di contrasti potenti e vigorosi. Predilessero nella decorazione nero, rosso, giallo scuro, azzurro cupo; ma dipinsero paesaggi e figure in toni vivaci e chiari. Ebbero il rosso porpora, oggi perduto. Frequenti nel mosaico il bianco e il nero, spesso uniti a giallo, rosso, e ad un bianco pergamena. Dall'Oriente vennero gli smalti, le sete, i tappeti, le gemme. Negli smalti, specialmente in Persia, prevalsero gli azzurri profondi e il turchese (per l'abbondanza dei minerali d'origine) equilibrati per lo più da toni caldi di bianco e arancione; nelle tappezzerie il rosso e il verde provenienti da vegetali. Caldei ed Assiri insistettero in accostamenti giallo-azzurri. Cinesi e Giapponesi furono inesauribili creatori di accordi delicati e vibranti. Con l'impiego dell'oro e dell'argento, l'arte bizantina dette al colore tutta la sua gloria, raggiungendo splendori mai visti, il cui riflesso rimase lungamente in Occidente a illuminare l'alto Medioevo. Le vetrate, i mosaici, le miniature ci dicono quanto questa epoca amò il colore. I primi pittori nostri dipinsero con toni chiari, campiti, attinti a schemi bizantini. Un più attento studio della natura rese presto il colore più ricco, più iridescente. Divenne limpido, immateriale con l'Angelico; prezioso, ben contrastato con Piero della Francesca; soave, dorato col Perugino. Le triadi preferite dai pittori italiani furono: rosso, azzurro, giallo; corallo, oltremare, arancione; scarlatto, verde oliva, violetto; arancione, verde, violetto; porpora, giallo, grigio-verde; con costante prevalenza dei caldi. In Toscana ebbe grande preferenza la gamma degli azzurri, combinati con rossi profondi e violacei, e corretti con qualche giallo ambrato; ma i Toscani furono soprattutto dei disegnatori. Con Raffaello il colore divenne elemento disciplinato di ritmi grandiosi. Con Leonardo, che fu il primo a studiare i fenomeni della luce, la ricerca dei valori, fino ad allora trascurata, assunse importanza dominante; e il colore andò quindi inevitabilmente perdendo la sua freschezza. Si diffondeva intanto la pratica dell'olio, che liberando gli artisti dagl'impacci della tempera e dalle limitazioni dell'affresco, permetteva alla scuola veneziana del Cinquecento con Giorgione e Tiziano, quest'ultimo il più grande fra i coloristi, di riunire tutte le conquiste, aggiungendovi quella della trasparenza per velature. Dopo il Veronese, iniziatore della pittura moderna, Tintoretto spostando in profondità l'interesse portato fino allora allo splendore della materia, provocò l'inizio della decadenza del colore, che divenne convenzionale e pesante, pur assumendo aspetti quanto mai fastosi nel costume e nell'arredamento del Seicento. Dal tenebrore che imperava in pittura, il Caravaggio seppe tuttavia trarre, attraverso urti potenti di luce e ombra, nuove e solide forme di bellezza. Rischiararono l'orizzonte gli affreschi del Tiepolo: pittura luminosa, gioconda di riflessi, sapiente di opposizioni fredde. E arriviamo al secolo più combattuto. L'Ottocento segnò dapprima un ritorno al classicismo, sacrificando il colore alla forma, soffocandolo e ammantandolo di giallo per amor dell'antico, mentre la reazione romantica lo tormentava tentando impasti nuovi e vibranti, e preparando l'avvento della luce pura, principio e fine della pittura impressionista, che dapprima febbrile e impulsiva nell'ansia di fissare il momento luminoso, divenne poi metodica e ragionata quando, col divisionismo, si appoggiò alla scienza applicando il principio della miscela ottica. Fu questa la vera conquista del secolo. Sennonché lo sgretolamento della forma conseguente a tale tecnica provocò nuove reazioni. Il cubismo geometrizzò la forma riassumendo il colore, che il futurismo presentò in forme addirittura astratte per meglio padroneggiarlo. Il momento presente è quanto mai caotico; ma attraverso il gusto prevalente per la semplicità e per la forza, sembra delinearsi l'arte di domani.
I colori nell'antichità. - Fin dai primordî l'uomo è stato impressionato dal colore, ed ha imparato a sfruttare le risorse, che la natura gli offriva, per procurarsi le materie coloranti, ora ricavandole dalle piante ora dalle rocce o dai terreni.
I primi saggi di attività artistica, come le pitture delle grotte dei Pirenei che risalgono all'età della pietra, testimoniano l'abilità di quei cavernicoli nell'utilizzare quattro pigmenti coloranti ricavati dai terreni ricchi di ocre. I colori adoperati dagli Egiziani erano in massima parte minerali, e fra essi più d'ogni altro bello e resistente l'azzurro, a tal segno che nemmeno i Greci e i Romani seppero ottenere un preparato migliore, ma adottarono la fritta egizia, il cui uso si può considerare generalizzato in tutta l'antichità: era composta di sabbia, limatura di rame e sottocarbonato di sodio tritati e cotti al forno; altre volte l'azzurro è ottenuto mediante vetro polverizzato tinto con ossido di rame, o infine con lapislazzuli pestato; al contrario meno stabile di tutti era il verde, di cui il principio colorante era egualmente il rame, e che oggi appare alterato in olivastro (talvolta era invece malachite polverizzata). Differenti toni di giallo, di rosso e di bruno si ottenevano con le ocre naturali o bruciate; il giallo risulta in altri casi di solfuri d'arsenico o di ossido di ferro misto con calce, mentre per il rosso si adoperò generalmente un miscuglio di ossido di ferro e argilla dalla sottilissima grana, e talvolta, pare, il cinabro, dopo che la conquista della Siria ne facilitò l'importazione. Il nero era ottenuto con ossa animali calcinate oppure con carbone; il bianco, che ha serbato un nitido candore, era costituito di calce, gesso o smalto polverizzato. Accanto ai colori minerali altri se ne adoperavano di origine organica come l'indaco e lo zafferano, in maniera limitata nell'arte, ma in gran copia invece per gli usi industriali (tintura di stoffe, legno, cuoio, ecc.): oltre la porpora, ricavata dal murice (la cui scoperta è dalla tradizione assegnata ai Fenici), furono sfruttati per il rosso il chermes (Coccus ilicis, insetto analogo alla cocciniglia), la cui tinta si ritrova intatta su stoffe da tombe egizie del sec. III a. C.; per il giallo la radice del loto; per il bruno e il nero scorza e radici di alberi ecc. I colori erano generalmente applicati su un fondo bianco, per aver più splendore, ed erano impastati con acqua mista a una sostanza gommosa, che dava loro più corpo e resistenza.
In tutto l'Oriente mediterraneo troviamo generalmente diffuso il gusto per il colore, ed è del resto intuitivo che la policromia sia condizione essenziale dell'arte in quelle regioni dove la luce è più viva e violenta, il cielo sempre terso e l'aria chiara e translucida: presso gli Assiro-Babilonesi e i Persiani la pittura non era un'arte per sé stante, ma, puramente decorativa, era l'indispensabile complemento di tutte le altre. Basti dire che dominavano nella decorazione le mattonelle smaltate, i cui toni prevalenti erano a Khorsābād il giallo e l'azzurro, mentre a Nimrūd si riscontrano il verde, l'azzurro, il giallo, il rosso, il bianco e il nero, e altrettanto ricca è la policromia delle mattonelle babilonesi, dove l'azzurro è di una tonalità più bella e più scura. Per altro è presumibile che fossero sette i colori adoperati dai Caldei, e in seguito dai Persiani, giacché questo numero aveva acquistato molto presto un valore simbolico e religioso. D'altra parte è da ritenersi che i popoli della Mesopotamia conoscessero già quei colori così freschi e solidi, che ancor oggi i Curdi e i Turcomanni traggono dalla radice e dallo stelo o dai fiori e dalle bacche delle piante, servendosene per i tappeti; tali tinte erano forse utilizzate per la pittura a tempera.
Sappiamo dalle analisi che l'azzurro delle mattonelle di Nimrūd era dato da un ossido di rame misto a piombo, mentre a Khorsābād era lapislazzuli, ridotto in sottilissima polvere; che il giallo era antimoniato di piombo contenente una certa quantità di stagno, di composizione analoga a quella moderna del giallo di Napoli; che il bianco era un ossido di stagno (mentre si attribuiva la scoperta di questa formula agli Arabi del sec. IX d. C.); che il rosso era un sottossido di rame a Nimrūd, ed a Khorsābād quell'ossido di ferro che si suol chiamare sanguina; che il verde era ottenuto probabilmente mescolando il giallo e l'azzurro, per esempio ocra ed ossido di rame. V. Place scoprì negli scavi di Khorsābād due blocchi di colore, uno azzurro d'un chilogrammo, l'altro rosso di venti, solubile, quest'ultimo, in acqua. Nei prodotti vitrei dell'industria fenicia l'analisi ha rivelato unicamente la presenza di ossidi metallici: dal rame erano dati il verde e forse il cobalto, dal manganese i bruni, i neri, i violetti; l'ossido di ferro costituiva il giallo, mentre l'ossido di stagno procurava i tipici toni lattei e madreperlacei. La civiltà cretese micenea raggiunse un grado così elevato nella conoscenza tanto delle materie coloranti quanto degli effetti della loro associazione da non esser superato nelle età successive: senza seguire l'evoluzione di questa tecnica, dalle analisi risulta che il bianco era calce, il nero probabilmente ossa calcinate, il giallo ocra, il rosso chiaro ocra bruciata e il rosso scuro ematite, mentre l'azzurro era ottenuto col sistema egizio a base di un sale di rame, che fu introdotto in Creta sotto la XI dinastia (scorcio del III millennio a. C.), ma in alcuni casi nella ceramica era dato da una mescolanza di rame, ferro, acido silicico, acido carbonico e talvolta anche mercurio; e infine il verde era generalmente malachite polverizzata oppure un miscuglio di azzurro e ocra gialla.
Quanto alla civiltà classica, Greci e Romani ebbero larga familiarità con i pigmenti coloranti, sì che le risorse dei pittori greci e romani dal sec. IV a. C. in poi possono considerarsi pari a quelle di cui disponevano le arti e le industrie del sec. XVI dell'era nostra. Da varî passi di Vitruvio (De archit., VII), Plinio (Nat. Hist. XXXV), Dioscoride (Materia medica, V) e Teofrasto (De lapidibus) e da altri ancora otteniamo molti dati interessanti sulla natura e la fabbricazione dei colori; ma le notizie e le classificazioni tramandateci dagli scrittori classici attestano d'altronde così il carattere empirico delle loro osservazioni come la loro incompetenza circa la composizione delle sostanze impiegate. Inoltre nel designare i singoli colori gli autori antichi sono spesso in disaccordo, e molte delle loro denominazioni sono oggi intraducibili. Oggetto di controversie è stata la notizia di Plinio (XXXV, 50) che i pittori greci fino ad Apelle incluso, cioè a tutto il sec. IV, avessero adoperato soltanto quattro colori: il bianco di Melo, il giallo attico, il rosso di Sinope e il nero detto atramentum, notizia del resto confermata da Cicerone (Brutus, XVIII, 70), ma che è parsa in disaccordo con altri passi dello stesso Plinio e con la vivace policromia, che ci è attestata dai resti architettonici e dai monumenti delle arti minori. Da questa tradizione, come dal simplex color delle antiche pitture vantato da Quintiliano (Inst. Orat., XII, 10), si deve concludere che nella pittura d'arte i Greci limitarono fino ad una certa epoca l'uso dei colori, ma non per questo si può ritenere limitata la loro conoscenza delle materie coloranti, le quali, anzi, avevano larga applicazione nell'arte decorátiva e nelle industrie. Appunto gli scrittori greci e latini distinguono la droga o tinta (ϕάρμακον, medicamentum, pigmentum) dal colore (χρῶμα, color), ed oltre questi Polluce (Onom., VII, 128) nomina in terzo luogo le ἄνιϑη, cioè quei colori di particolar pregio, detti χρώματα ἀνϑηρά da altri autori greci, e colores floridi dai romani, in contrapposto ai colores austeri (Plinio, XXXV, 30 e 44). Infine gli antichi distinguono i colori naturali da quelli ottenuti con procedimenti artificiali o miscugli; e d'altronde l'identificazione dei colori fondamentali, e la loro unione per la produzione dei complementari, fu oggetto di osservazioni e speculazioni teoretiche da parte dei filosofi presocratici.
Diamo l'elenco dei principali colori usati nell'antichità classica, a noi noti dalle fonti e dalle analisi eseguite sui monumenti.
1. Bianco (λευκόν, albus color): si otteneva con calce spenta diluita in acqua, ma a questo prodotto di poco corpo si preferivano le terre di Melo e di Samo, la creta argentaria, il paraetonium (così detto dal luogo di provenienza in Egitto, ma che si traeva anche da Cirene e da Creta; molto grasso e levigato, era contraffatto a Roma con la creta cimolia proveniente dall'Umbria), la creta selinusia e la cerussa (ϕιμύϑιον) o biacca di piombo (v.): particolarmente rinomata era quella di Rodi, che si preparava disponendo in fondo ai dolî alcuni sarmenti, sui quali si versava aceto, e poi si posavano i pezzi di piombo; si chiudevano accuratamente i dolî e dopo un certo tempo si trovava il piombo mutato in cerussa.
2. Giallo (ὠχρόν, ξανϑόν, flavus o luteus color): la sostanza più usata fin dall'età più antica fu l'ocra (silis ochra o sil), che è perossido di ferro idrato, ed ha molte varietà di colore; si adoperavano ocre delle più diverse provenienze, ma di tutte era considerata migliore l'attica, che, secondo Plinio (XXXIII, 160), Polignoto e Micone adoperarono per primi in pittura, e che era imitata con creta colorata mediante succo di zafferano o decozione di fiori gialli analoghi (violacciocca, erba guada, che davano tinture molto diffuse). Un altro giallo era dato dall'orpimento (ἀρσενικόν, auripigmentum), che è sesquisolfuro d'arsenico e si trovava in natura nelle miniere d'oro e d'argento dell'Asia minore, specie della Siria; un altro ancora da una varietà di chrysocolla.
3. Azzurro (κυανοῦν, caeruleus color): se ne distinguevano per la provenienza tre specie, l'egizio, lo scitico e il cipriota: del secondo si ottenevano, a dire di Plinio (XXXIII, 161), quattro varietà, mentre il primo, che era la solita fritta egiziana sempre preferita, si chiamò vestorianum o puteolanum caeruleumn, perché un tal Vestorio fondò a Pozzuoli una fabbrica sul sistema di Alessandria; ad Efeso e a Pompei si sono trovati blocchi di questo colore, che sono stati sottoposti all'analisi. Se ne usavano inoltre qualità meno raffinate e pregevoli, che avevano denominazioni diverse (lomentum, tritum). Il più bell'azzurro di oltremare si otteneva mediante il lapislazzuli (κύνος, saphirus), ed è questo probabilmente lo scitico, mentre nel cobalto pare debba identificarsi il sil caeruleum di Plinio, che si trovava nelle miniere di oro e d'argento, ma di cui non si è riconosciuta traccia nelle analisi di materie coloranti antiche. Oltremare era probabilmente anche l'azzurro d'Armenia (ἀρμένιον, armenium), menzionato fra i colores floridi. Ma tutti questi colori costosi erano sempre imitati e falsificati mediante sabbia di Spagna polverizzata e creta bianca di Selinunte tinte con glastum o vitrum (guado). I Romani conobbero anche l'indaco, ma l'usarono limitatamente per il suo costo.
4. Verde (χλωρόν, πράσινον, viridis color): s'adoperava più che altro la varietà verde di chrysocolla comprendente la malachite e lo spato verde, che è carbonato e idrocarbonato di rame, e si trovava allo stato di natura in Armenia, in Macedonia ed a Cipro. Si sfruttavano inoltre argille tinte in natura da ossidi di rame: l'appianum o creta viridis, verde di Verona, l'armenium, verde mare ecc.; una varietà era detta ϑειδότιον dal nome dello smirniota nel cui podere si rinveniva. L'aerugo o aeruca (ἰος) verderame, di uso comune, si otteneva sia traendolo dalla cottura dei minerali (scolex aeris), sia mettendo pezzi di rame nell'aceto, e aggiungendovi a volte sale e soda (subacetati e cloruri di rame).
5. Rosso (ϕοινικοῦν, ἐρυϑρόν, ruber): in ogni epoca si ebbero molte gradazioni diverse dal rosso chiaro al bruno; spesso per altro gli autori discordano nelle denominazioni così da determinare equivoci nell'identificazione delle singole materie: il cinabro o vermiglione brillante (κιννάβαρις, cinnabaris), che è un solfuro doppio di mercurio e si trova nativo nelle miniere, è chiamato minium da Vitruvio e Plinio, mentre questo e Dioscoride chiamano cinnabaris indica le resine ricavate da speciali piante, cioè il sangue di dragone, ch'era fra i colores floridi per il suo costo, e sulla cui origine dal sangue misto di elefante e dragone gli antichi ricamarono fantastiche fiabe. Le ematiti fornivano molte gradazioni: perossido di ferro rosso scuro proveniente dall'Etiopia, idrossido di ferro bruno dall'Arabia, ossido di ferro detto elatite da Sinope del Ponto, che corrisponde alla sanguina e si otteneva anche artificialmente esponendo al fuoco l'ocra gialla (silis ochra usta); da questa non era sempre ben distinta la rubrica (μίλτος), terra di ocra rossa nativa, della quale si avevano numerose varietà, fra cui migliore appunto quella di Sinope (σινώπίς, sinopica), fino alla terra d'ombra, tutte molto sfruttate dall'età più antica. Il minio fu scoperto casualmente, ci dice Plinio, e usato primieramente da Nicia intorno al 330 a. C.: era chiamato cerussa usta o sandaraca, mentre, mescolandolo in parti eguali con la rubrica si otteneva il sandyx, di color cremisi. Negli affreschi i rossi son terre d'ocra naturalmente tinte da diversi ossidi di ferro, mentre il finissimo colore dei vasi aretini è dato da un ossido di ferro misto ad un silicato alcalino e, secondo recenti ricerche, ad acîdo borico (Nasini, in Rend. Acc. Lincei, cl. scienze fisiche, 1930, p. 361); infine il rosso purpureo dei vetri era dato da un ossido di manganese. Molti erano i rossi di origine organica: vegetali come il sandyx (radice di garanza), l'hysginum, l'indica già menzionata, ecc. o animali come la porpora (v.) del murice ed il puniceum del Coccum ilicis queste tinture, che servivano in tutte le industrie, erano in parte utilizzate dai pittori impastate con creta bianca..
6. Nero (μέλαν, ater o niger color, atramentum): era generalmente carbonaceo, e cioè ottenuto dai prodotti della combustione di sostanze diffuse; i neri hanno quindi nomi diversi (tryginon, elephantinon), e sono talvolta impastati con gomma o glutine per acquistar corpo. Inoltre la fabbricazione dell'indicum (inchiostro di Cina) dava come prodotto sussidiario un nerofumo adoperato in pittura; infine sono da menzionare i neri d'origine organica, usati nella tintura industriale e che potevano essere adoperati anche in arte.
Bibl.: W. Fol, Color, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des Antiquités, Parigi, I, 2, s. v.; W. Smith, Dictionary of Greek and Roman Antiquities, I, Londra 1890, 3ª ediz., s. v. Colores; P. Girard, La Peinture Antique, Parigi 1892, p. 52 segg.; II, Parigi 1884, pp. 287 segg., 703 segg.; H. Blümner, Technologie u. Terminologie der Gewerbe u. Künste, IV, Lipsia 1886, p. 464 segg.; A. Neuburger, Die Technik des Altertums, Lipsia 1919. Per la questione della pittura con 4 colori v. K. Jex Blake e E. Sellers, The elder Pliny's chapters on the History of Art, Londra 1896, p. 96 seg.
L'uso dei colori nell'arte medievale e moderna. - Per dire della tecnica del colore, e delle sue vicende conviene distinguere quanto riguarda i pigmenti propriamente detti, i solventi e il modo d'applicazione e l'alterazione dei colori attraverso il tempo
Pigmenta. - Contrariamente alla credenza, già diffusa, che gli antichi pittori avessero segreti di composizione di pigmenti con virtù straordinarie e superiori agli attuali, e che a questi segreti le antiche pitture dovessero la loro conservazione, le analisi chimiche e lo studio degli antichi manoscritti hanno mostrato che i pigmenti usati nei tempi passati erano scelti fra quelli stessi che usiamo tuttora, salvo varianti nella scelta di alcuni colori accessorî a cui la tecnica moderna ha sostituito altri più stabili.
Le miniature e le pitture murali e decorative del Medioevo erano eseguite con bianco di piombo (come l'attuale); sinopia (pietra rossoscura proveniente da Sinope, e altre pietre rosse e brune orientale ora non più usata); minio (usato estesamente ancora oggi, ma per uso tecnico e non nella pittura artistica, perché non stabile); cinabro (come l'attuale, ma veniva confuso col minio e con la sinopia, o si usavano rossi contenenti queste sostanze insieme: talora, con molto vantaggio si usava il vero cinabro in velatura sopra un fondo di minio); arzica o massicot (ossido rosso scuro di piombo, non più usato in pittura perché alterabile); un altro colore rosso che si è ritenuto proveniente dalle conchiglie della Tellina fragilis o della Tellina pulchella polverizzate; oricello (colore rosso, poco stabile, ricavato da certi licheni); rosso indiano o sandalina (non il rosso indiano attuale, ma un rosso derivato dal sandalo, di poca solidità); rosso di cartamo e altri rossi vegetali, tutti, al pari dei precedenti, facilmente alterabili; lacche varie di garanza. (poco diverse da quelle che si usano tuttora); ocre rosse, di varia provenienza; ocre brune; orpimento (auripigmentum degli antichi, solfuro d'arsenico), colore aranciato molto instabile, oggi disusato; giallorino (antimoniato di piombo, oggi conosciuto col nome di giallo di Napoli); ocre gialle varie, e terre gialle di varia provenienza, poco diverse dalle attuali; lacche verdi varie, di origine vegetale; terre verdi naturali; verdi minerali, provenienti dalla polverizzazione della malachite e di altri minerali contenenti rame; azzurro della Magna (combinazione naturale di ossido vetroso di cobalto, potassa, silice, e ossido di arsenico, oggi non più usato); blu di montagna, detto anche blu naturale o pietra d'Armenia (altra pietra naturale, miscuglio di azzurrite, malachite e altri sali di rame); azzurro di smalto, col nome anche di fritta di Alessandria (vetro di cobalto polverizzato, sostituita oggi da altre composizioni poco dissimili, ma di colore più schietto); oltremare naturale e artificiale; un altro turchin che si ritiene formato a base di fosfato di ferro; indaco naturale (proveniente dalla Indigofera tinctoria, già conosciuta in tempo antico); un violetto che si ritiene formato di polvere di conchiglie (erroneamente è stata indicata la Nerìtina fluviatilis la quale non è violetta: forse potrebbe essere una Janthina del Mediterraneo o dell'oceano); nero fumo e altri neri di origine organica e certamente molti altri colori, non precisati, ma probabilmente in gran parte identici a quelli usati nei secoli successivi.
Maggiori notizie in grazia delle analisi fatte e dei ricettarî lasciali da. Cennino Cennini e da altri autori, abbiamo sui pigmenti usati nel Rinascimento. Così dal 1400 in poi è certo che oltre i colori già elencáti si usavano anche in seguenti: cinabrese (descritto anche come porfido rosso scuro, derivato dalla sinopia: cinabro e ocra uniti artificialmiente), usato allora con molto vantaggio dai pittori d'affresco per le carnagioni, ma oggi disusato; amatita o matita (pietra naturale sanguigna, contenente cinabro, anche questa disusata, da che si conosce il cinabro puro); sangue di drago (rosso bruno di origine vegetale, analogo all'attuale); oro musivo; molte lacche rosse vegetali, di singolare vivacità; morello o morellone, che sembra essere un'ocra rosso-bruna; realgar (solfuro d'arsenico, presto andato in disuso, perché poco vivo, e instabilissimo); zafferano giallo (oggi disusato perché costoso e instabile); bruno d'aloe (in disuso per la sua instabilità); malachite o verde naturale di montagna; un violetto derivato dal solfato di ferro e altri sali ferrosi e ferrici.
Nel 1500 si apprese a distinguere il minio dal cinabro e ad ottenerli in sufficiente grado di purezza; si disusò il cinabrese, con svantaggio; si introdusse il carminio di cocciniglia, con danno della stabilità dei dipinti; indi il verde Paolo Veronese, formato da arsenito e acetato di rame, colore non molto stabile. ma che per la sua tinta vivace e inimitabile dette nuove risorse alla tavolozza, e si usa ancora estesamente. Infine venne in uso l'asfalto o bitume, di cui i pittori del 1600 e del 1700 usarono e abusarono, ottenendo profondità di ombre non mai prima raggiunte ma compromettendo in modo irreparabile la stabilità dei loro dipinti.
Nessun'altra innovazione importante nei pigmenti sappiamo che sia avvenuta fino al 1800 circa. Nel sec. XIX la chimica ha trasformato completamente la tecnica dei coloranti, e l'ha posta su basi sicure. Conosciuta la composizione chimica dei pigmenti, si sono eliminati generalmente quelli che sono miscele, e l'industria ha fornito al pittore composti chimici definiti e conosciuti, che egli poi sulla tavolozza mischia a suo piacimento. Si sono investigate le proprietà di durata dei diversi colori, e rifiutati i più fuggitivi. Si sono ottenuti pigmenti di colore più schietto e costante. L'industria dei colori d'anilina ha permesso di arricchire la tavolozza e sostituire molte lacche vegetali malsicure con coloranti più stabili e di composizione costante.
I principali pigmenti usati oggi nella pittura artistica sono: bianco di piombo (fabbricato sotto i varî nomi di bianco d'argento bianco di Krems, ecc.), carbonato basico di piombo: è l'unico bianco di forte potere ricoprente, ed è stabile, salvo in presenza di vapori solforosi o di colori a base di solfuri; bianco di zinco (detto anche bianco cinese, ecc.), ossido di zinco: ha il difetto di deficiente opacità, ma è stabile in qualunque condizione, ed è l'unico bianco adatto in acquerello e in tempera; lacche o rossi di garanza o di alizarina, anticamente ricavati dalle radìci della garanza o robbia dei tintori, ma oggigiorno dall'alizarina sintetica, che è un principio colorante d'anilina (dicitura che si adopera per indicare i coloranti derivati dal benzolo, cioè a nucleo ciclico): tutti colori assai stabili e di tinte variate e vivaci; carminio e lacche carminate, colori ricavati dalla cocciniglia, sempre più in disuso perché fuggitivi, mentre non dànno alcuna tinta che non sia ricavabile dalle alizarine; lacche di garanza brune (brown madder, lacca di Rubens, e simili), tinte di colore rosso-bruno trasparente, derivate anche queste dalla garanza o dall'alizarina; cinabri o vermiglioni di varie gradazioni, solfuri dì mercurio, abbastanza, ma non illimitatamente stabili, necessarî per tutti i generi di pittura artistica perché il loro colore non è ottenibile con miscele di altri pigmenti; ocre bruciate (terra di Siena bruciata, rosso di Venezia, rosso indiano, rosso inglese o light red, e simili), argille contenenti sesquiossido di ferro che naturalmente o per calcinazione è ridotto allo stato anidro e quindi ha acquistato tinta rossastra, molto stabili e apprezzatissime pei loro pregi tecnici e per la loro economia di costo; aranci e gialli di cadmio: solfuri di cadmio, pigmenti non trasparenti, di tinta gialla carica o aranciata, del tutto stabili, ma' molto costosi; aranci e gialli di cromo: cromati di piombo, pigmenti anche questi opachi e di gradazioni svariate dal giallo aranciato fino al giallo limone: per ragioni di economia vengono sostituiti ai precedenti in tutte le pitture ove non si richiede lunga durata; gomma gutta (gamboge degli Inglesi), giallo trasparente intensissimo, non del tutto stabile, ma indispensabile in acquerello perché non sostituibile da miscele di altri colori; giallo d'India, colore ricavato dagli escrementi del cammello, sostituisce il precedente nella pittura a olio: anche questo incompletamente stabile, ma non sostituibile; gialli di Napoli, pigmenti varî fatti con miscele di ossidi e solfuro di piombo e d'antimonio, o antimoniati di piombo: gialli chiari opachi, da usare solo ove non si esiga stabilità della pittura; terra d'ombra bruciata, terra di Cassel o bruno Vandyck, e simili: terre naturali (calcinate se occorre), o composte, a base di ossidi di ferro e manganese, pigmenti opachi e stabili, per ottenere bruni caldi molto neri; ocre naturali (terra di Siena naturale, terra gialla, ocra gialla, ocra d'oro, ocra romana naturale, ocra bruna, giallo di Marte, ecc.): argille naturalmente colorate a sesquiossido di ferro idrato, stabili e molto usate al pari delle corrispondenti ocre bruciate; terra d'ombra naturale, pigmento terroso di colore bruno-freddo tendente al verdastro; verde smeraldo (detto Viridian o Veronese green, o Emerald oxide of chromium dagli Inglesi): idrato di cromo trasparente, di color verde vivace intenso, pigmento di grandissimo valore in olio e in acquerello; verde Paolo Veronese (corrisponde all'Emerald green degli Inglesi, e non al Veronese green or ora menzionato), arsenito di rame, di colore verde brillante chiaro, necessario per la pittura a olio; lacche verdi varie, di origine vegetale, vendute sotto varî nomi: verdi trasparenti non sempre stabili, e generalmente non necessarî; verde di alizarina o verde di Hooker permanente: sostituisce con vantaggio i precedenti, ed è stabile; altri verdi come verdi di cromo, verde di Prussia, verdi di cobalto, verdi cinabro, ecc., che si vendono con nomi svariati, ma sono miscele di gialli e di blu, e non esigono menzione separata; verde oliva o lacca oliva, derivato vegetale, verde smorzato trasparente, di qualità cromatiche molto pregevoli, limitatamente stabile; terra verde, argilla colorata naturalmente con un derivato di ferro, assai stabile; blu di Prussia, ferrocianuro di ferro ottenuto per precipitazione, blu estremamente intenso, di limitata stabilità: molto usato e necessario in acquerello, ma non in olio; blu minerale, blu d'Anversa, ecc., varianti del precedente; blu di cobalto, combinazione di ossido di cobalto e di allumina: pigmento turchino-celeste, molto apprezzato e usato in ogni genere di pittura, sebbene sia molto costoso e sebbene la sua stabilità venga meno in presenza di acidi; oltremare, genuino o artificiale, e sue varianti come blu francese, blu permanente, ecc., polvere di lapislazzuli naturale, o ottenuto per sintesi a base di silicato di sodio e alluminio e solfuro di sodio: anche questo molto usato, e permanente in assenza di acidi, molto costoso se naturale; blu ceruleo, stannato di cobalto, che è quasi l'unico pigmento celeste chiaro a disposizione del pittore; indaco, colore oggidì ricavato sinteticamente, identico a quello che si estrae dalla pianta già menzionata: blu smorzato trasparente assai gradevole, non del tutto stabile, ma non sostituibile con miscele di altre tinte; malva, magenta e altri violetti d'anilina: del tutto instabili, ma più vivaci di qualunque tinta ottenibile dai colori permanenti; violetto di cobalto, arseniato di cobalto: violaceo chiaro semitrasparente, del tutto stabile; violetto permanente, violetto di garanza e altri similari, derivati dall'alizarina: anche questi non molto vivaci, ma permanenti; seppia, colore bruno nero, estratto dall'inchiostro della seppia, o formato con miscele di lacche vegetali o colori d'anilina: d'incerta stabilità, ma molto utile in acquerello; bitume o asfalto: colore di grande effetto per la sua trasparenza e per ottenere le ombre, che nella pittura a olio sostituisce la seppia, ma che si cerca di bandire del tutto perché si carbonizza col tempo; bruno d'osso, colore che confina quasi col nero, e che nella pittura a olio rende grande servigio; nero d'avorio, nero fumo, e altri simili neri, composti quasi interamente di carbonio amorfo: utili in disegno sotto forma di inchiostro di Cina, e nell'acquerello a semplice chiaroscuro, ma poco usati nelle combinazioni con altri colori perché rendono effetti falsi.
Oltre di questi, qualche altro pigmento minerale come gesso, calce, polvere di marmo, viene usato nell'affresco e altre pitture murali, intervenendo più come mezzo tecnico di collegamento che come colorante.
Qui non si enumerano i pigmenti, assai più numerosi, che intervengono nella pittura tecnica estensiva, al di fuori della pittura artistica.
Mezzi e procedimenti tecnici e solventi relativi. - I pigmenti dànno il loro colore in quanto le loro particelle funzionano come granuli trasparenti colorati, di dimensioni microscopiche o ultramicroscopiche, e nella loro applicazione vengono quasi sempre a trovarsi in uno strato più o meno trasparente di proprietà ottiche opportune (indice di rifrazione elevato). I pigmenti che dalla loro preparazione non vengono di già in stato colloidale (come le lacche) o almeno in condizione di microscopica suddivisione, devono essere ridotti accuratamente in polvere impalpabile prima di impastarli col solvente. La polverizzazione veniva fatta laboriosamente a mano, dagli antichi maestri; oggidì industrialmente per mezzo di macchine che hanno raggiunto un elevato grado di perfezione.
Altrettanto necessaria quanto quella del pigmento è la funzione del veicolo o "solvente", cioè della sostanza liquida o semiliquida con cui il pigmento viene impastato; questo solvente, prosciugandosi, fornisce lo strato occorrente per tenere imprigionato il pigmento e per mantenerlo nelle condizioni ottiche adatte, come si è detto sopra, a far valere il suo colore e ad evitare quei riflessi secondarî che tendono a far apparire bianchiccia ogni polvere fine. I tipi di solventi adoperati e il modo della loro applicazione distinguono i diversi procedimenti di pittura; fra di essi conviene considerare come tipici i seguenti:
Pittura a olio. - Il solvente è olio di lino o altro analogo olio essiccativo (es. olio di noce o di papavero), il quale si prosciuga non per evaporazione, ma per ossidazione al contatto dell'aria; lo strato prosciugato è insolubile nel solvente, e quindi la pittura già asciutta si può ritoccare, applicandovi nuovi strati di colore per ricoprire o per modificare quelli precedenti senza che si mischino con essi. Questa proprietà, e il potere ottico notevole che ha l'olio di lino (o di noce) e che fa risaltare in pieno il valore cromatico del pigmento, fanno sì che la pittura ad olio sia la pittura artistica per eccellenza.
La superficie su cui si dipinge a olio può essere qualunque, purché, se porosa, sia previamente preparata con uno strato (vedi imprimitura) che tolga l'eccessivo potere assorbente. Più comunemente si dipinge su tela preparata, ma anche su legno, su cartone, su muro, e talvolta anche su metallo.
Encausto. - Cromaticamente, e in tutti i suoi effetti pittorici e nel modo d'impastare le tinte, equivalente al procedimento ad olio, quello ad eucausto ne differisce perché il solvente è una sostanza fusa (cera o analoga), l'applicazione si fa a caldo, e il prosciugamento avviene immediatamente per solidificazione.
Acquerello. - Mentre nella pittura ad olio e ad encausto si pratica una cromia mista (additivo-sottrattiva), lavorando con pigmenti fra loro impastati e generalmente non trasparenti, l'acquerello propriamente detto (cioè quello senza guazzo) mette in pratica una composizione di colori rigorosamente sottrattiva, perché applica strati di tinte trasparenti, diluite nell'acqua, sopra un fondo di carta, il cui bianco è quello che forma i chiari della pittura. Il pigmento bianco non si usa nell'acquerello puro; gli altri pigmenti sono quelli elencati, preparati allo stato molle con miele, glicerina, gomma ecc., o in tavolette solide con gomma. La tecnica dell'acquerello non consente trasformazioni e cambiamenti o soppressioni sul dipinto, come quella ad olio, ma solamente intensificazioni ottenute per sovrapposizioni; richiede quindi una mano esercitata. Le tinte applicate in questo modo su carta non riescono vivaci e profonde come quelle ad olio, perché il pigmento non resta incorporato in un mezzo di potere rifrangente elevato; ma in contraccambio si raggiunge una "freschezza" di effetti non ottenibile con gli altri metodi (per la storia v. acquerello).
In Cina, nella pittura ad acquerello, dopo aver preparato la superficie della seta o della carta con allume e colla, sono adoperati, oltre all'inchiostro di Cina (v.), polverizzati e stemperati con colla: malachite, cinabro naturale e artificiale, corallo, solfuro e perossido di mercurio, oro in foglia, carbonato di piombo, carminio, resina rossastra estratta dal Calamus draco, indaco, ocra rossa. Notevole, negli antichi pittori cinesi, l'osservazione dell'armonia dei colori complementari, rossi e verdi, ecc.
Guazzo o tempera impropria (gouache dei Francesi; distemper degli Inglesi in contrapposto a tempera painting, che sarebbe la tempera propriamente detta) è il procedimento di pittura in cui si usano i colori d'acquerello con l'aggiunta del bianco. Il colore bianco può essere usato in punti singoli, per ottenere riflessi e macchie chiare che sarebbe malagevole ricavare "riservando" il bianco della carta, e allora non ci si discosta dal dominio dell'acquerello: oppure può essere normalmente impastato con tutti i colori, rinunciando a far trasparire la carta, e lavorando anzi su carta scura; in quest'ultimo caso si ha il guazzo propriamente detto. Il guazzo si usa per lavori rapidi, schizzi, chiaro-scuri destinati a riproduzioni, e simili. L'esecuzione è rapida, perché le tinte asciugano subito; ma occorre grande pratica perché le tinte asciutte riescono molto diverse da quello che appaiono durante l'applicazione. La superficie riesce del tutto matta, senza riflessi e senza ricchezza di tinte; circostanze che in molti casi possono essere un pregio.
Tempera propriamente detta: è un metodo di dipingere nel quale il solvente è un'emulsione oleoso-acquosa, con gomme, albumine o altri ingredienti, ma sempre miscibile con acqua. La cromia è quella mista additivo-sottrattiva a tinte solide, come la pittura a guazzo e quella ad olio. L'emulsione serve per ottenere che gli strati di pittura già applicati non si sciolgano facilmente nella sovrapposizione di strati ulteriori; e contribuisce ad aumentare un poco, in confronto al guazzo, la ricchezza delle tinte.
Pastello. - La pittura a pastello si esegue con pigmenti polverulenti, impastati a forma di matite con poco materiale adesivo; è dunque l'unica pittura a secco. La tecnica della fabbricazione industriale dei pastelli è delicatissima, perché l'adesivo e il modo d'impasto devono essere regolati a seconda del pignlento. L'applicazione si fa diretta o con sfumino, impastando fra loro i colori, ma ricorrendo a molte gradazioni già preparate perché l'impasto è sempre difficile. Ogni dipinto, ogni applicazione di colore, sono pronti appena eseguiti; ma la conservazione è delicatissima, perché il pigmento sulla carta non è tenuto fermo da nessun veicolo adesivo; talvolta, per ovviare a questa mancanza, si usano fissativi che si applicano a spruzzo, ma essi tolgono vivacità al dipinto. Il pastello è tecnica recente; e da molti artisti è preferito per eseguire schizzi rapidi, e per lavori d'impressione di piccola importanza.
Pitture murali. - Le pitture murali, quando non sono ad olio e a tempera, si eseguiscono con procedimenti varî; fra essi prevale l'affresco (per la tecnica e per la storia v. affresco).
Miniatura. - I miniatori lavorano con un procedimento che può dirsi una pittura a guazzo o a tempera, molto minuta e raffinata, eseguita a colori vivi, e completata localmente con applìcazioni di tinte trasparenti. I pigmenti sono all'incirca quelli stessi usati nella tempera, ma devono essere scelti rigorosamente, con preferenza dei colori vivaci e atti a dare tinte ricche. Il solvente preferito è una soluzione di 1 parte di colla di Fiandra e 7 parti di gomma arabica, in acqua quanto basta per ottenere un liquido denso; altre volte si usa zucchero, altre volte soluzioni contenenti albumine (per la storia v. miniatura).
Alterazione dei colori e dipinti attraverso il tempo. - Per quanto riguarda la conservazione dei dipinti in generale, abbiamo detto da principio intorno al grado di stabilità dei diversi pigmenti di fronte all'invecchiamento intrinseco, alla luce e agli agenti atmosferici. Molto è stato detto e scritto intorno all'alterazione delle pitture, ma l'ultima parola manca ancora. La vera cagione dell'annerimento sconsolante di molti dipinti ad olio, specialmente del Seicento e Settecento, non si conosce ancora. Alcuni l'hanno attribuito ai pigmenti di piombo, altri all'olio di lino che si carbonizza progressivamente: questo è vero in alcuni casi, ma in generale l'annerimento è avvenuto nelle ombre e non nelle tinte chiare dove, se mai, avrebbe dovuto produrre effetto maggiore e più visibile.
Il deterioramento dei dipinti non è conseguenza inevitabile del tempo. Le pitture, venti volte millenarie, eseguite dall'uomo quaternario nelle caverne dei Pirenei, con un procedimento che sembra essere una specie di encausto e con quattro pigmenti minerali diversi, fra cui predomina la terra rossa, si sono conservate quasi fresche. Similmente la più parte delle pitture murali greche, pompeiane e romane, che erano più o meno ad encausto su stucco o combinato con stucco, hanno durato e durano fino a che restano seppellite sotto terra; l'imprudente esposizione all'aria senza adatta protezione di cere o vernici ha cagionato invece dopo il loro disseppellimento una decadenza rapida, dovuta probabilmente ai batterî della nitrificazione. Gli affreschi del Medioevo, le tempere dei grandi maestri quattrocentisti, si sono in generale conservati abbastanza bene, salvo colori singoli che sono sbiaditi o anneriti. Dei dipinti ad olio, la fortuna è stata varia: spesso l'annerimento progressivo dei toni meno chiari e delle ombre ha tolto tutta la vaghezza generale del colorito. Osservando i dipinti del sec. XIX è facile constatare che il deperimento e l'alterazione dei colori sono stati assai più rapidi e disastrosi che nei dipinti più antichi: e ciò può attribuirsi in gran parte ai poco scrupolosi preparati industriali e alla deficienza nei pittori di quelle conoscenze pratiche delle materie coloranti che erano tradizionali fra gli antichi.
Esame delle pitture antiche. - L'analisi chimica fino dalla metà del secolo scorso ha reso un aiuto prezioso allo studio delle pitture antiche. D'importanza capitale furono le ricerche del nostro Selmi. Le nozioni che abbiamo sui pigmenti adoperati nell'arte antica, medievale e moderna, sono quasi tutte ricavate dalle analisi. In tempi recentissimi alle ricerche chimiche si sono aggiunte quelle fisiche. I raggi ultravioletti e i raggi X, applicati alle vecchie pitture, permettono di scoprire il lavorio delle screpolature interne, in particolare le stratificazioni di pigmenti di diversa qualità chimica, così da scoprire ridipinture, sovrapposizioni, varianti nascoste.
Bibl.: F. Selmi, Enciclopedia di chimica, IV, Torino 1870; E. Brücke e H. Helmholtz, Principes scientifiques des Beaux-Arts, ecc., Parigi 1878; O. N. Rood, Théorie scientifique des couleurs, Parigi 1881; A. H. Church, The Chemistry of Paints and Painting, Londra 1890; K. Robert, Traité pratique de la peinture à l'huile, voll. 2, Parigi 1891; J. G. Vibert, La science de la peinture, Parigi 1891; E. Hareux, Cours complet de peinture à l'huile, Parigi 1904; E. Berger, Beiträge zur Entwickelungsgeschichte der Maltechnik, voll. 4, Monaco 1901, 1904, 1909 e 1912; A. Eibner, Malmaterialenkunde als Grundlage d. Maltechnik, Berlino 1909; M. Toch, Materials for Permanent Painting, New York 1911; A. P. Laurie, Pigments and Vehicles of the Old Masters, Londra 1894; id., The Materials of the Painters Craft, Londra 1910; id., The Pigments and Mediums of the Old Masters, Londra 1914; G. Loumeyer, Les traditions techniques de la peinture médiévale, Bruxelles 1914; P. Schultze-Naumburg, Die Technik d. Malerei, Lipsia 1920; A. Martin De Wild, The Scientific Examination of Pictures, Londra 1929; M. Busset, La technique moderne du tableau, Parigi 1929; C. Linzi, Tecnica della pittura e dei colori, Milano 1930.
Il "colore" come termine retorico.
Nella retorica classica il colore è propriamente il colorito, il tono conveniente del discorso che deve variare a seconda dell'argomento e dello scopo; poi, colorito vivace, ornamento, come una delle forme del sermo figuratus, λόγος ἐσχηματισμένος, per cui l'oratore cerca, in una parte o in un'altra dell'orazione, di velare con l'abile parola il reale scopo a cui tende: in genere, arte di palliare e far apparire improbabili i punti neri di una causa difficile mediante congetture, sospetti, pretesti speciosi abilmente immaginati. Di questi colores abusarono i retori nelle declamazioni: ne aveva messo insieme quattro libri il declamatore Giunio Ottone, secondo la testimonianza di Seneca il retore (Controv., 2, 1, 33) che intitolò la raccolta propria Oratomm et rhetorum sententiae divisiones colores; ne tratta anche Quintiliano, Inst. Orat. IV, 2, 88-100 e altrove.
Bibl.: R. Hess, Zur Deutung der Begriffe sententia, divisio, color, bei Seneca, Schneidemühl 1900.